‘La caduta dell’impero americano’, fiaba cruda e gentile di Denys Arcand su emarginazione e paradisi fiscali
di Lucia Tempestini 28-04-2019
Denys Arcand sceglie la Sinfonia n. 25 in Do maggiore di Joseph Haydn, forse la più dinamica e ironica, dal tema lirico e cantabile, per rappresentare il sogno infranto dell’Occidente, e di ogni altra zona del pianeta. Una delle più raffinate composizioni musicali europee, espressione della necessità profondamente umana di una costante trasfigurazione e insieme rarefazione del dato reale, immanente, come unica possibilità di salvezza, accompagna i destini incrociati dei molti protagonisti de La caduta dell’impero americano. Bisogna praticare l’amor fati, afferma il giovane Pierre-Paul citando la concezione stoica del destino, accettare l’arbitrarietà, lieve o drammatica, degli avvenimenti che deviano di continuo il corso dell’esistenza mantenendo la disponibilità a sperimentare le combinazioni, anche bizzarre e pericolose, del Caso.
Pierre, dopo il dottorato in filosofia, si è ritrovato a lavorare come fattorino in una società di consegne a domicilio. Sale e scende innumerevoli volte dal furgone durante la giornata, e avverte i primi sintomi delle patologie articolari che con l’avanzare dell’età potrebbero rendere necessarie le stampelle. Eppure non concede terreno alla potenziale banalità della vita, indaga sistemi sociali e stati d’animo con sottili strumenti teoretici. E’ un uomo ‘sulla soglia’; fisicamente a disagio nello spazio circostante si sente affine ai molti senza tetto, soprattutto nativi e inuit, che si disfano nei panni maceri sui marciapiedi della civile Montreal. Frequenta come volontario un centro di assistenza, serve i pasti alla mensa, fa amicizia con un homeless timido e gentile che gli confida di non avere alcun interesse per il denaro, ma di sognare una stanza, un letto e una poltrona per vedere lo sport in tv. Un posto caldo, un rifugio. Quasi sottovoce racconta come ci si sente soli e spaventati in una notte di novembre, con la pioggia che inzuppa i vestiti e fa scendere i brividi fin nelle ossa.
Mentre la luce del primo autunno bagna di trasparenze azzurrine ogni elemento del paesaggio – le strade centrali, le aree in cui vengono radunate le carcasse sfigurate delle vecchie auto, i parchi dalla pigmentazione giallo-rossastra, le case hi-tech, le linee invetriate dei grattacieli che ne moltiplicano i riflessi – Pierre, durante una consegna, si trova coinvolto nella rapina cruenta ai danni di un supermarket periferico. Più precisamente l’oggetto dell’assalto è la sproporzionata cassaforte annidata in un locale annesso. In seguito capiremo che la mole impressionante di denaro custodito dal proprietario dell’esercizio commerciale appartiene in realtà a una spietata banda di malavitosi irlandesi, la ‘gang dell’ovest’, e che il colpo finito male può essere annoverato nella casistica cinematografica dell’inganno multiplo, delle strategie da tunnel degli specchi, sui quali aleggiano visibili le ombre di Mamet e dei Coen.
Nella concitazione della sparatoria il giovane fattorino/filosofo rimane invisibile a tutti, persino all’unico superstite ferito che si dilegua zoppicando. Restano sul terreno due borsoni neri pieni di dollari. L’esitazione sosta negli occhi di Pierre solo pochi secondi, un ragionamento ancora informe si è fatto strada e il ragazzo nasconde la refurtiva dentro il furgone. Il disegno che si va componendo nella mente di Pierre ha bisogno del supporto di una figura di esperienza nel settore della finanza, e il ragazzo sceglie e contatta Sylvain Bigras, appena uscito dal carcere. Dopo averlo giudicato un pazzo o un millantatore, l’uomo ne diventa una sorta di nume tutelare, brusco e a momenti sarcastico ma come meravigliato dalla luce febbrile che Pierre irradia, idiota dostoevskijano di indole pragmatica.
Un pragmatismo strettamente connesso al sogno e alla ricerca esperienziale. Infatti, per prima cosa Pierre-Paul si concede un’immersione in un’esperienza erotica che gli permetta l’accesso a zone interiori fino a quel momento precluse. Per questo rito iniziatico sceglie Aspasie, conquistato dai versi misteriosi e tormentati di Racine citati nel sito della ragazza e dalla cultura che rivela aver scelto come pseudonimo il nome di un personaggio di Mitridate. La escort dei quartieri alti risale senza fretta la scala esterna che conduce all’appartamento del giovane. Avanza in pieno sole, un gradino dopo l’altro, con calma, ed è come se emergesse da un’acqua di pulviscolo luminoso, essa stessa splendore del giorno, biondazzurra, lieve, mentre dischiude un sorriso di incantevole semplicità. E’ un’apparizione, una divinità, una maga che trasforma l’atto d’amore in avventura della mente e dei sensi, appagamento panico, espressione artistica, liberazione del demone meridiano, contatto ustorio con l’Angelo (caduto o meno).
In questa fase, prima che l’affaire legato al denaro si riprenda la scena, affiorano i sortilegi del miglior Woody Allen, quello che per lo spazio di un istante desidera credere alle illusioni, in Hannah and Her Sisters o You Will Meet a Tall Dark Stranger o ancora Wonder Wheel.
Il passo ulteriore di Arcand, e la sua diversità, consiste nel confidare davvero in un atto eversivo che, utilizzando gli stessi strumenti dell’economia immateriale, della speculazione finanziaria colpevole dell’impoverimento di masse sterminate di persone, arrivi a incrinare un sistema perverso. Il regista formula persino l’ipotesi avvincente che quest’azione solo apparentemente delittuosa possa cambiare la natura dei singoli, o meglio accendere l’originario riflesso cangiante di ciascuno, andato negli anni a nascondersi chissà dove.
Trascinati dall’aggraziata foga utopistica di Pierre, Sylvain, Aspasie/Camille e persino l’ex fidanzata Linda (cassiera di banca malinconica e madre single) tessono un piano in apparenza folle, costantemente pedinati da due poliziotti le cui vite intravediamo grazie a veloci allusioni in progress (lei detective saffica segnata da un cinismo solo apparente, lui ex studente di matematica costretto a lasciare la facoltà ed entrare in Accademia a causa del dissesto finanziario del padre, rovinato dagli investimenti nella bolla tecnologica), e intenti a seppellire e disseppellire i soldi in un cimitero abbandonato, come in The Trouble with Harry di Hitchcock, mentre cercano il broker ideale per far espatriare l’intera somma.
Camille riuscirà a ottenere un appuntamento con il consulente finanziario per miliardari Wilbrod Taschereau, suo amante di un tempo, e a convincerlo ad innescare il meccanismo assai complicato di trasferimento del denaro. I compiaciuti e sinistri monologhi esplicativi di Taschereau, per mezzo dei quali veniamo a conoscenza degli stratagemmi usati per occultare immensi capitali sono i passaggi del film in cui si viene colti da una vertigine apocalittica che pensavamo potesse scatenare solo Dürrenmatt. Per aggirare le norme Ocse, i dollari smaterializzati viaggiano rapidamente in rete da un angolo all’altro del mondo, passando da un broker all’altro, tutti uguali, tutti controllati e asettici, molto professionali e muniti di un sorriso inquietante da Stregatto. Dopo una sosta a Londra, giungono alla destinazione finale in Svizzera, dove viene creata in pochi minuti una Onlus fittizia, con tanto di consiglio di amministrazione; in questo modo, protetti dalle finalità benefiche della medesima (nessuno indaga sui bambini malati), i veri proprietari sono liberi di attingere ai fondi in qualunque momento e nella misura desiderata per mezzo di note spese, rimborsi ecc. ecc.
Solo che stavolta a disporre del denaro occultato sono dei veri benefattori, persone che respingono l’idea stessa di Stato e di Governo, perché guardandosi intorno vedono solo dittatori africani che distolgono intere voci di bilancio per investirle nei propri conti all’estero, capitalisti cinesi che come termiti divorano le materie prime dei paesi poveri (poveri solo perché sfruttati), ministri occidentali, in questo caso canadesi, dediti alla corruzione sfrenata, grandi e piccoli professionisti ossessionati dal desiderio di arricchirsi sempre di più non pagando le tasse.
Con raccordi di montaggio perfetti, dal passo musicale, questa cruda ed esilarante fiaba dell’utopia possibile attira verso una dimensione meno aspra, di riconciliazione con se stessi, persino Carla e Pete, i due poliziotti pieni di amarezza, convertendoli alla solidarietà.
https://youtu.be/L6IPg1RH4qc
LA CADUTA DELL’IMPERO AMERICANO
Canada, 2018
durata 129 minuti
Regia e sceneggiatura Denys Arcand
Con Alexandre Landry, Maripier Morin, Rémy Girard, Louis Morissette, Maxim Roy, Pierre Curzi, Florence Longpré
Fotografia Van Royko
Art Director Patrice Bengle
Set Decorator Michèle Forest
Montaggio Arthur Tarnowski
Musiche Mathieu Lussier, Louis Dufort
Sound Design Marie-Claude Gagné
Costumi Sophie Lefebvre