Dorme sulla collina*
LUCA RONCONI
Regista, attore- Coltissimo, indagativo, ma non cerebrale- Con lui il ‘teatro di regia’ divenne la ragion d’essere della messinscena
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Non permetteva alla malattia di fargli da freno a mano, Luca Ronconi, scomparso a Milano nel pomeriggio di sabato scorso. Nato in Tunisia nel 1933, il regista ed ex attore (attivo ed acclamato non solo in Italia), noto già a fine anni cinquanta per le sue partecipazioni a ‘storici’ sceneggiati televisivi (anche nella serie del “Tenente Sheridan”, con Ubaldo Lay), si era diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma nel 1953. Essendo stato il teatro la sua quasi esclusiva passione fin da bambino, raccontava. “Devo tutto a mia madre, donna forte e separata da mio padre. E con cui ho preferito non avere alcun rapporto” La madre che gli fu vicina quel tanto da accorgersi delle sue capacità ed andare fiera del figlio in ascesa “Fu lei – proseguiva Luca- che mi portò per la prima volta in un teatro romano, a vedere una commedia in genovese con Gilberto Govi. Mi pare si parlasse di una strana gallina, ma soprattutto ricordo il mio stato sovreccitazione”.
Da interprete, Ronconi aveva esordito Tre quarti di luna di Luigi Squarzina, accanto a Vittorio Gassman, recitando ancora per alcuni anni per meglio sedimentare il suo rapporto con “la fatica e le alchimie” del retropalco “prima di chiedere agli attori sacrifici e fatiche di Sisifo che non avessi provato sulla mia persona: mente e corpo, senza differenza” Solerte e intellettivamente fervido a passare quindi ‘al timone di tavolino e platea’ con “La buona moglie “ e “La putta onorata”, dittico goldoniano (di forte impronta naturalista) ricomposto in un’unica serata televisiva dal titolo “Bettina” – indirizzando la sua attenzione non solo all’analisi ‘non convenzionale’ dei testi (“mai lavorare con orologio al polso e troppa fretta di esibirsi in scena”), ma sulla cesellatura del lavoro attorale, alla luce della lezione post-brechtiana che colloca l’interprete (lo scenografo, il costumista, l’ingegnere delle luci) a vero coautore dell’accadimento teatrale, né più né meno di una bottega rinascimentale, evolutasi nei secoli mediante la conoscenza di psicanalisi, strutturalismo, rivalutazione di quella ‘macchina barocca’ che affida al teatro la creazione di una ‘realtà’ diversa, onirica, immaginifica- comunque parallela e trasfigurata rispetto alla realtà “che non dovrà essere imitata”, ma inventare ‘calco’ umanitario, affabulativo di diversi canoni, convenzioni, registri espressivi.
Il successo del Ronconi regista ha inizio nel 1963, con le compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volonté, prima, e quelle di De Lullo, Costa, Squarzina, dopo: da “Romagnola” a “Tre quarti di luna”, da “Te e simpatia” a “Il diario di Anna Frank”, cui seguiranno strenue collaborazioni con Vittorio Gassman (“Riccardo III”) e Anna Maria Guarnieri (“Lunatici” di Middleton e Rowley, in cui il rapporto con la follia è mutuato da Peter Brook e dal Teatro della Crudeltà). Va da sé che il primo capolavoro di Ronconi si celebra nel 1969 con l’Orlando furioso di Ariosto (per fortuna reperibile in edizione dvd\Rai), adattato per il teatro dal poeta Edoardo Sanguineti: uno spettacolo- rivelazione, spiazzante e perturbante (per il pubblico del tempo), ove gli attori che recitavano consentaneamente in spazi plurimi, dislocati, impensabili, muovendo a vista enormi oggetti scenici, secondo la lezione tramandata dal teatro rinascimentale. Fu un successo internazionale che proietterà Ronconi sulla stratosfera dei grandi registi europei (poco più che trentenne) accanto a grandi come Strehler, Stein, Visconti. In estrema sintesi, considerati i brevi tempi della nostra scrittura, Luca Ronconi va ricordato inoltre per tutto il suo fertile biennio 1977 – 1979 dedicato ai laboratorio del Fabbricone e del Metastasio di Prato (dove realizzò un memorabile La torre di von Hofmannsthal 1978).
Cui seguiranno indimenticabili prove quali Ignorabimus di Holz 1986, Tre sorelle di Cechov 1989.
Dall’89 al 94, egli è direttore allo Stabile di Torino dove allestisce un altro caposaldo del suo teatro ‘letterario e intellettivo’: Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto (1991). Nominagto poi alla direzione del Teatro di Roma dal 1994 al 1998, dove nel 1996 firma Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, in cui prende corpo quel suo particolare modo di intendere (anzi, inaugurare) il ‘teatro di narrazione’ che esercita l’equidistanza fra la lettura scenica in terza persona ed il ricorso (solo parziale) ad un ‘io narrante’, sempre incline ad ‘entrare ed uscire’ dal personaggio, in ragione di una straneazione morale e ipercritica che non rinuncia al piacere del disegno psicologico, grottesco, urticante, umbratile (secondo gli accordi tra regista e attore). Alla morte di Giorgio Strehler (1999), Ronconi approda al Piccolo Teatro di Milano, in qualità di direttore artistico, dove in sostanza resterà sino alla fine.
E segnando del suo metodo ‘artigianale ma artisticamente ardito’ gli anni della sua gestione. Al suo arrivo, Ronconi mette in scena la trasposizione scenica (strepitosa, cesellata, pluriprospettica, già provvida di un sobrio apporto della computer grafica) del discusso Lolita di Nabokov; nel 2002 dirige in una ex fabbrica, Infinities, tratto da un testo scientifico del cosmologo John David Barrow: cinque azioni sceniche –sempre in in contemporanea- cui assistere come prede di un ‘dedalus’ concepito con logica matematica. Dal Piccolo, come dicevamo, il regista non i staccherà -nemmeno quando in anni recenti lascerà la carica di direttore artistico per restare il regista privilegiato e consulente artistico dell’organismo di via Rovello. Al Piccolo nasceranno quindi gli spettacoli della sua estrema maturità –liddove la febbre della sperimentazione sembra stemperarsi nell’orbita di un teatro pacato ma non pacificato.
Nel senso che la vocazione di Ronconi alla ricerca ed al perfezionismo ‘colto ma non cerebrale’ innervano i nuovi rovelli di uno strutturalismo della frase, della parola, della pagina scritta mai appagata dal ‘senso lineare’ del suo raccontare e raccontarsi. Spesso in quell’apparente babele di spazialità e polifonie che, specie nella ‘impossibile’ reviviscenza di Krauss al Lingotto, seguimmo con frastornato disorientamento. Ma che, ripensandoci ora, dava l’esatta misura di quanto Ronconi amasse scommettere su di un teatro ‘totale’ e ‘totalizzante’, esente da ritualità eleusine (come richiedono, ad esempio, le teorie di Barba e Grotowski), il cui basilare piacere consisteva nell’esigere dall’attore lo ‘spaccare la battuta’ in tonalità contrastanti e sovrapposte (alla maniera di Carmelo Bene? Perché no?). Nei più impervi dedali di una rappresentazione, di una ‘festa mobile’ non ostruita da quarte, quinte o alcun’ altra ‘parete’ di recinzione. Per ‘sfondamenti’ di scene e iconografie da teatro borghese che, personalmente, mi piaceva immaginare quali ‘piani sequenza’ cinematografici, allorchè ciascun spettatore è invogliato a ‘ritagliare’ la propria inquadratura, e poi passare ad altre, ad altre ancora, come nei casi (da manuale) di Angelopous, Jancso, De Palma, Sukarov, Cuaron. In fuga e ritorno (come una scommessa, un elastico che ti risucchia indietro) dai luoghi più confortevoli e dispendiosi della scena ‘dei padri’ (il ‘teatro di regia’ secondo Strehler, Pandolfi, Squarzina) ove sovente andava a rinfrancarsi, ma mai adagiarsi.
Di qui esperienze per noi tutti irripetibili, delle quali citiamo – sul filo della memoria nottetempo- Candelaio di Giordano Bruno, Quel che sapeva Maisie di Henry James, Infinities di John David Barrow, Prometeo incatenato di Eschilo, Le Baccanti di Euripide, Le rane di Aristofane. E poi le esigue repliche del Professor Bernhardi di Arthur Schitzler, Il ventaglio di Goldoni, e la Lehman trilogy (sino a che punto la finanza divora le nostre vite? Cosa ne pensano i patriarchi fautori?) che ha debuttato due settimane fa e che resterà in scena sino al 20 marzo- tanto più che da stanotte in poi sarà il testamento morale di un caro, schivo, laconico Maestro. La cui statura artistica (intellettuale) si nutriva della pluralità degli interessi (dal teatro greco\romano al melodramma, dal romanzo classico ai rapporti tra scienza e ingegno creativo), nel cui ambito si permeava un’idea (un lavorìo) di teatro che è principale categoria, architettura del pensiero, mondato di orpelli emozionali. E che informava di sè ogni attimo, movente, flusso razionale (o passionale) delle nostre vite- che la ‘transustansazione drammatica’ disvela a se stesse. (*Articolo21)