Concerto per fantasmi solisti
“Giro di vite” da James al Teatro di Villa Torlonia di Roma
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ROMA – Pochi dati di cronaca, a riventilare la memoria. “Giro di vite” (The Turn of the Screw) di Henry James, comunemente classificato racconto gotico e “di fantasmi”, fu in origine pubblicato a puntate nel 1898 sulla rivista londinese “Collier’s Weekly”, poi raccolto nel volume “Two Magics”, edito a New York da MacMillan e a Londra da Heinemann. Racconto di “mutevoli, insidiose” atmosfere, esso compendia una sola protagonista palese (gradatamente elevata ad io-narrante per interposta persona dell’autore) ovvero una istitutrice che (crederle sulla parola?), aderendo all’offerta di lavoro di un invisibile, indisturbabile uomo d’affari, accetta di sostituire la precedente collega (morta in circostanze inspiegabili) per occuparsi di due bambini (Flora e Miles) ‘reclusi’ in una remota magione nella campagna inglese, e finendo per “convincersi che essi siano posseduti dalle anime di due malvagi defunti”. Sino al più tragico, magmatico, indecifrabile degli epiloghi.
Secondo la vulgata critica “la genialità del costrutto risulta proprio dalla sua intrinseca abilità nel creare un intimo senso di confusione e suspense nel lettore”. Fascino e sapienza del racconto? I possibili e plausibili “intendimenti” (strati di lettura e interpretazione) che si offrono a chi legge come per sommarsi, neutralizzarsi, vanificarsi a vicenda.
Dimentichiamo, per questa volta, l’omonima opera da camera di Benjamin Britten del 1954, il suggestivo quasi ‘conturbante’ “The innocents”, film del 1961 di Jack Clayton interpretato (magnificamente) da Deborah Kerr, e soprattutto il più recente (seducente) “The Others” di Alejandro Amenabar, protagonista Nicole Kidman, del 2001. Concentrandoci su questo monologo a suo modo iconoclasta e filo claustrale, il cui “giro di vite” è letteralmente la sua capacità di penetrare tempie, fantasia, emozioni errabonde. Come riferirvene ulteriormente e senza tediare? Un’idea, un paragone: prendendo a prestito un’opera a tutti nota come “Psycho” (di Hitchcock si, ma anche del misconosciuto ‘cronista di nera’ Robert Bloch) e immaginiamone un finale diverso dell’estremo delirio di Norman Bates, ormai agghindato e impagliato con gli stracci della ‘dispotica e sepolta’ mamma. Che reazione avremmo (avuto) se, non in conclusione ma ad inizio film, Anthony Perkins avesse proposto a noi tutti un lungo e sinuoso flash back ricognitivo elencante tutti gli accadimenti, le efferatezze, i sobbalzi di cui il film è insuperato (e magistrale) esempio? Lasciando agli astanti, spiazzati e imbarazzati, decidere se si sia trattato di pura invenzione (macabra ma anche beffarda) o di confessione in forma di lucido delirio. E il film si fosse fermato lì.
Qualcosa del genere accade in James che ghermisce e irretisce da sopraffino, neutrale dipanatore di una fola da caminetto vittoriano. Della quale, la scarna, memorabile serata di Valter Malosti e Irene Vivaldi esterna (mediante pertinente dosaggio di luci e sonorità, su buia scena) ipnotiche capacità di “imprigionarti” nei suoi doviziosi canoni discorsivi e impercettibili incantamenti. Fatti, essi, di materia evanescente, del tutto refrattaria alle scorciatoie dell’incubo onirico o convenzionalmente “gotico”. Si pensa al modello di chimico, autogestito sdoppiamento escogitato Stevenson per “Dottor Jekyll e Mister Hyde” (datato 1886). Oppure a Freud e ai suoi studi sperimental-positivisti sull’isteria. Ma siamo fuori strada. Poiché in “Giro di vite” non serve “a nessuno” scindersi visibilmente, vistosamente per far coesistere in una stessa mente due personalità antitetiche e in sommossa, definibili schizoidi per convenzione e classificazione clinica. Ed nella sussistenza di uno “smaterializzato realismo” paranoide, interiorizzato all’ acme del suo “fulgido” parossismo e salto nel vuoto.
Vaticinante, allucinogeno ma non ultramondano (men che mai da oltretomba in terra), del tutto alieno alle peggiori soluzioni esoteriche o psichiatriche, “Giro di vite”, di cui la Ivaldi è vibratile, plurifonica, magnifica protagonista (di se stessa) riporta semmai alla memoria la lezione di Poe e de “I vivi e i morti”. I quali è bene che vivano in dimensioni distinte e parallele, senza che “gli uni siano di intralcio agli altri”. Tuttavia: cosa accade se l’inconscio individuale o collettivo ‘osa’ o si scapriccia a sovrapporle? Se animismo e materia corporea sconfinano nell’indistinto ‘shining’ di uno spiritismo ateo? Se tutto si fa immanente e senza epidermide protettiva? Con le nozioni di tempo, conoscenza, infantile innocenza (che qui è perfidia) “oltrepassanti” la moralità del non-trasgredibile (derivante dalla cultura luterana).
Tutto precipita in perdizione, in hybris, in dannazione per “voler squarciare velari di mistero che devono riposare” se non in pace almeno in laicissima requie ed amabili resti. Conta poco, alla fin fine, se ciò di cui siamo testimoni “è” flusso di coscienza o confessione (in)volontaria, travestita da delazione per pochi intimi. Se ci si “sfoga” di se stessi o di qualcosa di cui abbiamo ‘sentito dire’. In “La voce umana” di Cocteau la protagonista parla al telefono con l’invisibile, sciagurato amante che l’ha mollata; in “Giro di vite” con ipotetiche ombre e ‘voci di dentro’ (su mimetiche vocalità di minaccia e convulsione) che probabilmente stazioneranno nei personali abissi e per sempre. A chi dei due la dannazione definitiva dell’inferno in terra?
Quesito quasi voluttuario, o per anacronistici ‘cultori del pensiero’, se si considera in che razza di neo-oscurantismo, e variegati terrori di complemento, si dispiega oggi la quotidiana routine dei morti\ ignari- ma ‘viventi’ e vigenti.
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“Giro di vite” da Henry James
traduzione Nadia Fusini
adattamento teatrale e regia Valter Malosti con Irene Ivaldi
progetto sonoro e programmazione luci G.u.p. Alcaro Produzione Teatro di Dioniso
con Festival delle Colline Torinesi – Torino creazione contemporanea
e Festival Orizzonti di Chiusi – Per “Trilogia Malosti” (Boito, Tolstoj, James) Teatro di Villa Torlonia – Teatro di Roma