La banalità del Bene. ‘Miss Marple – Giochi di prestigio’ alla Pergola di Firenze
di Lucia Tempestini 16-01-2019
FIRENZE – E’ sempre rischioso misurarsi con modelli narrativi e interpretativi che, nel tempo, si sono incuneati così a fondo nell’immaginario individuale e collettivo da diventare parte della storia e dell’identità di ciascuno di noi. Le mystery stories di Agatha Christie, i baffetti accuratamente impomatati di Poirot, i tweed e le borse di Miss Marple accompagnano la nostra esistenza, la segnano, attutendo i rigori di tutti gli inverni del nostro scontento.
In particolare, le attrici che hanno dato corpo e voce all’anziana investigatrice creata da Dame Christie risultano essenziali al disegno mitopoietico che si è andato formando intorno a questo personaggio. Ricordiamo Margaret Rutheford, nata nel 1892 in un sobborgo londinese, che ha dato vita a una Miss Marple sarcastica, caparbia e volitiva, paladina delle care, vecchie tradizioni inglesi e capace di contenuta commozione durante l’ascolto di Rule, Britannia! (in Murder Ahoy – Assassinio a bordo di George Pollock, 1964). Più moderna e sottile la Jane Marple di Angela Lansbury in The Mirror Crack’d – Assassinio allo specchio di Guy Hamilton, 1980: indagatrice della parte oscura dell’anima umana, ricostruisce con fine attitudine analitica psicologie e moventi, arrivando a ricomporre i mosaici esistenziali attraverso le impercettibili tracce lasciate dal dolore e dalle ossessioni, consapevole che i destini infelici e delittuosi delle persone non possono essere ricondotti entro i confini di un Ordine puramente teorico.
Appare quindi impervia l’impresa tentata da Edoardo Erba e Maria Amelia Monti, anche perché l’approccio teatrale italiano alla materia è troppo spesso culturalmente lontano da quello anglosassone. Molti elementi di questa versione di Miss Marple – Giochi di prestigio entrano in collisione non solo con l’originale, ma addirittura con un’interpretazione plausibile (meglio non usare il termine avvincente, qui fuori luogo) del romanzo e del personaggio principale, nonché di tutti gli altri. A parte certe goffaggini d’insieme (tempi sbagliati, situazioni dilatate oltre il lecito, toni urlati e melodrammatici, scarso affiatamento, stereotipi), è proprio la costruzione della protagonista a lasciare profondamente perplessi. Risulta difficile riconoscere Jane Marple nel costante ed evanescente salmodiare da ‘nata ieri’ scelto da Maria Amelia Monti, costretta dal copione ad agire in uno spazio interiore circoscritto e penalizzante; i tormentoni sulla vita a St. Mary Mead, gli aneddoti banali, l’oca che le lascia nel giardino grandi uova gelosamente avvolte in calze di lana pesante e custodite nella borsa da viaggio, il non riuscire a far emergere il lato metaforico del lavoro a maglia, la sostanziale unidimensionalità da fumetto, fanno della creatura della Regina del Giallo una paesana farisea e noiosa piuttosto lontana dal prototipo.
Sconcerta anche l’idea scenografica di sviluppare la vicenda in una cornice di praticabili e ballatoi costruiti con pedane e tubi metallici scuri, fari rugginosi e rotti da fabbrica dismessa, fumi che simulano le incursioni della nebbia e la costante evocazione dei minacciosi ‘capannoni’ dove vivono i giovani criminali che Lewis intende redimere con ostinazione maniacale. Il tutto assai più adatto agli spettacoli berlinesi anni ’70 dello Schaubühne, sia pure in chiave decisamente minore e inconsapevolmente parodistica.
Debole e didascalica – un finale a coda di pesce – la trovata di ‘svelare’ il meccanismo narrativo di Agatha Christie, ossia situare gli avvenimenti reali nel retrobottega del visibile, stratagemma che lo accomuna al teatro. Tuttavia l’enunciazione meticolosa sottrae agli eventi la capacità di inquietare, che consiste proprio nella graduale presa di coscienza del lettore di non trovarsi mai al posto giusto, nel punto di osservazione ideale, di lasciarsi fuorviare di volta in volta dalle apparenze.