Il peso dell’Invisibile. ‘Suspiria’ di Luca Guadagnino

Il peso dell’Invisibile. ‘Suspiria’ di Luca Guadagnino

di Lucia Tempestini 03-01-2019

Tilda Swinton in ‘Suspiria’

Nella Berlino degli anni ’70, ancora divisa dal muro, radio e televisioni trasmettono ininterrottamente le notizie inquiete di quegli anni: i dirottamenti aerei dei terroristi palestinesi, i sequestri, gli omicidi e gli attentati della banda Baader-Meinhof. Un rumore di fondo che affiora a tratti nel film, insieme agli echi delle bombe, all’ottusità dei poliziotti, a un reale che fin dall’inizio viene sopraffatto dalla dimensione mitologica e atemporale della narrazione. Più pertinente appare la connessione alle crudeltà naziste, le cui tracce presenti nella memoria rappresentano un dolore (o eterno rimpianto, o sconsolato senso di colpa che punge il cuore come una spina) soltanto rimosso ma mai dimenticato, mai veramente elaborato, dove vivono le radici inestirpabili di questa versione ipnotica di Suspiria, capace di suscitare un turbamento profondo, almeno nella prima parte.

Patricia Hingle, allieva della prestigiosa Markos Tanz Company, attraversa le strade illividite dalla pioggia senza fine, passa accanto, senza neppure vederli, a edifici fatiscenti, dai colori opachi, verde marcio, azzurro sporco, grigio, per raggiungere lo studio del suo analista, l’anziano dr. Klemperer. Entra stillando acqua piovana e angoscia, in preda all’ansia psicomotoria non trova un angolo che le dia qualche istante di pace. Vaneggia, raccontando a Klemperer il terrore che le incutono le direttrici della Compagnia di danza, ed evocando tre figure femminili ancestrali: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum, la cui esistenza precede quella di dio, di qualsiasi dio, e dei demoni, precede addirittura la creazione e ha origine nella materia ignota dell’universo. L’analista classifica inizialmente le parole della ragazza come delirio, tuttavia il delirio può essere una verità talmente insostenibile da incespicare in se stessa, diventando espressione frantumata di ciò cui non si sa dare un nome.

Patricia scompare poco prima dell’arrivo alla Scuola di Susie Bannion, originaria dell’Ohio e cresciuta in una comunità Amish le cui regole morali fanno apparire progressiste quelle de La lettera scarlatta, inducendo la ragazza alla fuga verso l’ammirata Madame Blanc, coreografa e anima della Compagnia. La sparizione di Patricia viene attribuita a una sua adesione al terrorismo, ipotesi che non convince affatto Klemperer, deciso a cercare la verità sulla ragazza e sui troppi misteri della Markos Company.

E’ intorno al complesso rapporto fra Susie e Madame Blanc che si sviluppa Suspiria. Legate dalla simbologia delle mani, che trasmettono il potere e disegnano poesia nell’aria, che curano e uccidono, che creano incubi e inducono al sonno, diventano il riflesso l’una dell’altra, al di là del tempo, ben oltre il legame maestra/allieva. E se Dakota Johnson dimostra una crescente maturità espressiva, rendendo incandescenti i vuoti e i silenzi, Tilda Swinton tocca un vertice artistico difficilmente superabile. Non si muove nello spazio, crea letteralmente lo spazio per mezzo di linee essenziali tracciate dal corpo e dalle mani. Fa percepire il peso degli oggetti invisibili, enuclea la Bestia oscura che vive in ciascuno, sollecita le danzatrici a inseguire il volo, per mezzo dei salti, a superare l’attrazione che il suolo esercita sulla freccia appena scoccata, a inseguire la terribilità dell’Ideale, che non è più la Bellezza, visto che la danza oggi non può essere né bellissima né allegra, ma deve invece rompere gli schemi, mostrare la ritualità e la violenza delle origini trasfigurate in geometrie del corpo e degli istinti. I suoi occhi, in particolare, non sono dimenticabili: febbrili, tormentati, cercano con una disperazione controllata la possibile purezza del potere, in contrapposizione alla ‘fazione Markos’, guidata dall’antica Strega mangiata, corrotta, dalla senescenza, accecata di tenebra, e dalla sodale Miss Tanner, un’intensa Angela Winkler dallo sguardo di onice nero.

Entro il legame fra Direttrice e Allieva si esalta e si scatena la genialità estetica di Guadagnino. L’ingresso di Susie nella Scuola è un gioco mozzafiato di prospettive alterate e angolazioni diverse; le scalinate maestose, l’atrio, le colonne inseriscono Susie in una cornice Jugendstil che fa affiorare suggestioni mitteleuropee raggelate, mostrandola in campo lungo, in primo piano e, quando la scena viene osservata dall’alto da Madame Blanc, in soggettiva.

Ugualmente prodigiose le sequenze che si svolgono nella sala prove; le figure che vivono e si muovono dentro gli specchi, il riflesso come unica forma di esistenza, la fuoriuscita dell’inconscio trasfigurato in rappresentazione sono elementi che rendono Suspiria un’opera imperdibile.

Un vero peccato che le riflessioni e i tempi dilatati caratteristici di Guadagnino, insieme all’originalità figurativa e di contenuti, si trasformino nella seconda parte in un pastiche grottesco e sardonico, in cui le tracce narrative si confondono facendosi pressoché indecifrabili. Purtroppo, nell’ultima mezz’ora il film tradisce la propria cifra stilistica adottando soluzioni tipiche del genere ‘gore’ e abbandonandosi a eccessi d’ogni tipo. Nulla ci viene risparmiato, dalle mascherate stile Pirati dei Caraibi alle porcellane, agli specchi baroccheggianti e ai ‘cuori sacri’ da processione di una qualche Santa Patrona, dal sabba che precipita nella comicità involontaria all’immagine di Susie in tunica nera con vistoso décolleté che cita proprio gli stereotipi femminili antitetici rispetto al progetto, il tunnel degli espedienti sbagliati sembra non avere fine.

Magari, la prossima volta, sarà opportuno tenere conto della lezione di Lovecraft e altri maestri: per ottenere un effetto davvero perturbante l’Orrore più che mostrato va suggerito.