Padri & Figli nell’attualità di un difficile ensemble de-generazionale
Un padre ancora vitale in odore di Alzheimer, una figlia stretta tra l’amore e il dovere, una storia come tante, atroce come tante. Una commedia comico-patetica che non redime e non consola, ma svela e affronta con leggerezza e garbata ironia, sostanziale pregio di questo spettacolo, un tema delicato e scottante: “Il padre”, del francese Florian Zeller, in scena dal 2012 e vincitore del premio Molière 2014. Da questo testo drammaturgico nel 2015 il regista Philippe De Guy (Le donne del 6° piano e Molière in bicicletta) ha tratto un bel film “Florida”, con la formidabile coppia Rochefort/KiIberlain.
Sullo sfondo di un candido impianto scenico si susseguono quadri drammaturgici segnati dal buio delle pause, come le intermittenze della memoria di un uomo ancora in salute nel corpo, ma non più nella mente. Osservatori impotenti assistiamo in diretta alla inesorabile débâcle di un padre, assistito dalla figlia, anche se esasperata e stanca per le imprevedibili, quotidiane e continue incursioni nel crescente disagio, tra fughe di badanti e la minaccia incombente (caldeggiata dall’intollerante marito della figlia) di un ricovero nell’anonima stanza di un istituto. La vicenda ci trasporta nell’ininterrotta sequenza di frasi e gesti ripetuti fino all’esasperazione di questa degenerazione inarrestabile qui però accesa da risvolti umoristici. Comicamente confuso l’uno, tra figlia e genero, quattro personaggi nei due ruoli per rappresentare lo spaesamento (espediente interessante), tristemente esasperata l’altra, si fronteggiano, senza scivolare nel dramma e nella retorica, nella palude di una reiterata pietà filiale in balia del rovesciamento di ruolo e in lotta con l’ostinazione del genitore-figlio per un’indipendenza impossibile.
Il pregio dell’ironia, unica nota veramente innovativa, rimane imbrigliato tra le candide geometrie di un elegante appartamento parigino, divenendo pressoché monocorde. La regia lineare e rigidamente strutturata offre un supporto alla leggerezza del padre e alla pesantezza della figlia che navigano su cliché e stereotipi, senza affondare pienamente la chiglia.
Haber offre un’interpretazione efficace, forte dei variegati risvolti di una personalità disturbata. La Della Rovere, prigioniera di una fissità di ruolo conflittuale, appare meno flessibile e comunque fortemente pregnante, avvenente tout court nella sua chioma rosseggiante e nel suo sobrio vestito blu elettrico.
Nel complesso una garbata esposizione di una malattia sociale che incide profondamente nel nostro vissuto contemporaneo su cui l’occhio dello spettatore si posa con iniziale emozione e curiosità per poi attestarsi su un pacato turbamento.
IL PADRE
Al teatro Verga di Catania