Il signor Max e la propaganda inconscia
Le coordinate del cinema di propaganda si sono sempre mosse su due direzioni maestre: esaltazione del beneficiato, denigrazione dell’avversario. Inevitabilmente, anche il cinema fascista ha messo in campo queste armi quando ha deciso di usare la settima arte come strumento per ribadire le ragioni del suo essere. Risulta chiaro, dunque, che film direttamente fascisti come, ad esempio, “Camicia nera”, di Giovacchino Forzano, ’33, e “Vecchia guardia”, di Alessandro Blasetti, ’34, regalano allo spettatore percorsi narrativi che tendono ad essere più ribadenti che non convincenti. Il fascismo è bello, è necessario, è perfino logico, quindi fai bene ad amarlo! Il discorso diventa più ampio e periglioso, in termini di input e output, quando la propaganda cerca di essere convincente.
Film indirettamente fascisti come “Scipione l’Africano”, di Carmine Gallone, ’37, ed “Ettore Fieramosca”, di Alessandro Blasetti, ’38, attivano la loro opera di convincimento partendo da dati storici e quindi incontrovertibili. E’ vero o no che la disfida di Barletta, protagonista del film di Blasetti, fu uno dei primi esempi di italianità cui solo il fascismo ha dato degna continuità? E’ vero o no che solo il fascismo sta edificando, con la conquista dell’Etiopia, un impero degno di questo nome come solo l’antica Roma di Scipione l’Africano aveva saputo fare? L’uso della Storia, piegata alle esigenze del momento, è quindi tale da ingenerare, nello spettatore medio dell’epoca, un convincimento su quello che sta accadendo nella realtà, fuori dal cinema, dalla finzione. Il saluto romano, che lo spettatore attiva quotidianamente nella realtà, è esistito prima del fascismo. E’, appunto, della gloriosa Roma, e lo spettatore deve prendere atto che solo Mussolini sta facendo grande il suo paese.
Il fuoricampo, stavolta, non è cinematografico, è reale. L’opera di convincimento è matematica, scientifica, quindi inoppugnabile. Ma la propaganda per immagini sa essere ancora più sottile e al discorso diretto e indiretto sa aggiungerne anche un altro ancora più potente: quello inconscio. Frutto dell’interiorizzazione della cultura dominante, la propaganda inconscia, che potremmo definire anche involontaria, mette in campo le ragioni dello status quo prevalente, del sentire comune consolidato, dell’anima corriva che sposa tutti i luoghi comuni facili da condividere. E’ una propaganda inconscia in chi la fa e in chi la subisce. Entrambi i protagonisti della comunicazione si sostengono e si rafforzano a vicenda.
Campione di questo modello propagandistico è stato il regista Mario Camerini, autore di una famosa serie di commedie piccolo borghesi, con sforamenti significativi nell’alta borghesia e nell’aristocrazia, che fece grande il sottogenere dei “telefoni bianchi”: “Gli uomini che mascalzoni!”, ’32,”Darò un milione”, ’35, “Ma non è una cosa seria”, ’36, “Il signor Max”, ’37, “I grandi magazzini”, ’39. In particolare, “Il signor Max” è il più “efficace” dal punto di vista propagandistico, una vera e propria bomba in mano allo spettatore pronto ad assistere soltanto ad una semplice commedia d’intrattenimento, dove il fascismo sembrerebbe non entrarci per niente, e invece…La trama, nonostante l’intreccio, è molto semplice. Gianni (Vittorio De Sica) è un giornalaio scapolo e discretamente benestante, con ambizioni di scalata sociale. Per questo, quando può, si mette in viaggio alla ricerca di avventure galanti che lo allontanino dal suo grigio tran tran quotidiano. Durante una traversata in piroscafo conosce un’avvenente aristocratica, donna Paola, e, spacciandosi per un nobile, ribattezzato incidentalmente Max Varaldo, riesce ad inserirsi nella comitiva di questa. Al seguito del gruppo nobiliare c’è anche Lauretta (Assia Noris), dama di compagnia e istitutrice della sorella minore dell’aristocratica. Di umili origini ma brava nel suo lavoro, che implica anche una forte capacità di mediazione, Lauretta, che aveva incontrato precedentemente Gianni in edicola, rimane colpita dalla somiglianza di questi con Max Varaldo.
Da qui, una serie di equivoci, che si chiuderanno con il disvelamento finale dell’identità di Gianni, che nel frattempo, resosi conto della pochezza di quell’ambiente da lui idealizzato, abbandona i panni di Max Varaldo per ritornare giornalaio e convolare a giuste nozze con Lauretta, da sempre innamorata di Gianni e finalmente dimissionaria dal suo faticoso e “innaturale” lavoro, stanca di convivere con gente così diversa da lei. Dunque, alla fine tutti felici e contenti. E soprattutto, tutti al loro posto! L’aristocrazia da una parte, il popolo dall’altra. La prima vista come portatrice di vizi e corruzione. Lo spettatore sente gli aristocratici parlare di divorzio e di denaro sperperato nel gioco, e coglie nelle movenze erotiche femminili delle protagoniste altolocate quel senso di peccato allora strettamente legato al corpo esibito.
Altrettanto evidente è la necessarietà di questa classe come motore economico, in quanto possidente, proprietaria e sapiente manipolatrice del necessario ma peccaminoso denaro, quello che stava portando Gianni, significativamente, alla rovina. Prima di essere “salvato” dalla semplice “donna di casa”, Lauretta, il cui corpo abbiamo sempre visto ingessato in rigidi e formali tailleur. Solo così ella ha potuto salvare la sua verginità e offrirla all’uomo “giusto”, con cui darà seguito alla “integra” razza italica. Il popolo incarna tutte le virtù italiche: famiglia, patria, onore, dedizione femminile silenziosa, anelli inscindibili della spina dorsale fascista del nostro paese. Tra l’una e l’altra classe la separazione è netta e impossibile da colmare. La lotta di classe, da sempre ridotta dal fascismo a invidia di classe, non avrebbe neppure senso, secondo la prospettiva del film. Perchè il popolo dovrebbe invidiare chi è corrotto e carico di vizi? La rivoluzione sarebbe soltanto un farsi del male, allontanarsi dalle proprie virtù, già lì e solo da conservare. Siamo a quell’anticapitalismo di destra che fu alle origini del fascismo e che rispunta quando il fascismo realizza un relativo benessere, che dopo pochi anni sarebbe stato travolto dall’inevitabile avventura bellica.
E a conferma delle dinamiche di questa propaganda, involontaria ma potente, inconscia ma fattiva, valida anche, e forse ancora di più, in democrazia, ricordiamo il remake de “Il signor Max”: “Il conte Max”, di Giorgio Bianchi, ‘56 con protagonista Alberto Sordi. Le motivazioni del primo film sono ancora lì, e non per caso. Quanto di cultura fascista c’era ancora nell’Italia popolare degli anni ’50! veicolata da una forte tradizione clericale e dalla vulgata catto-comunista, che soltanto il boom economico del decennio successivo avrebbe cominciato a mettere in crisi. E, relativamente ai nostri giorni, quanta propaganda consumistico-capitalistica si cela, ad esempio, dietro la facciata comicarola dei cinepanettoni dei fratelli Vanzina…
Danilo Amione è docente di Storia del cinema e del video presso l’Accademia di Belle Arti di Ragusa ed ha collaborato con l’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sezione Master di Siracusa, come docente in seminari su Cinema e psicopatologia. Critico cinematografico, ha partecipato come relatore a convegni e dibattiti su film o autori e ha scritto per varie testate quali La Sicilia, Pagine dal Sud, Primafila, Cinemasessanta, Inscenaonline, Rapporto confidenziale, A Sud’Europa, Articolo 21. Nel 2011, ha ricevuto il “Premio Kiwanis Club Ragusa” per la sua attività di critico e storico del cinema.