Ci lascia Lindsay Kemp, una farfalla che rapiva l’anima con la grazia di un gesto

Ci lascia Lindsay Kemp, una farfalla che rapiva l’anima con la grazia di un gesto

 

(redazionale)- Si è spento oggi a Livorno Lindsay Kemp, nato nel 1938 sull’Isola di Lewis e cresciuto nel nord dell’Inghilterra. Sin dall’infanzia s’innamora della danza, del teatro, del cinema. Terminati gli studi al Bradford College of Arts, si trasferisce a Londra dove frequenta la scuola del Ballet Rambert, quindi si perfeziona con Sigurd Leeder, Charles Wiedman, Marcel Marceau e tanti altri. Lavora in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, ecc. Infine, nel 1962, forma la sua prima compagnia, The Lindsay Kemp Dance Mime Company.

Verso la fine degli anni sessanta continua a sviluppare la propria sintesi fra diversi linguaggi teatrali privilegiando un approccio personale e innovativo alla danza e al teatro, così nel 1968-1969 nasce la prima produzione di Flowers… una pantomima per Jean Gênet. Durante gli anni vissuti a Edimburgo (1966-1970) crea per una nuova compagnia le opere Turquoise PantomimeCrimson Pantomime e Legend. Nel 1974 debutta con una nuova versione di Flowers in un piccolo teatro londinese ottenendo un tale successo che quasi subito deve trasferirsi in un teatro più grande, poi al West End, infine, dopo mesi di trionfo assoluto, a New York On Broadway.

Ha così inizio un ventennio ricchissimo di successi che porta Kemp e la sua compagnia in ogni angolo del mondo ma soprattutto in Spagna e in Italia dove, dal 1978 in poi, torna puntualmente per onorare le sue migliaia di affezionati e fedeli estimatori. Precursore di un genere di danza onirico ispirato alla féerie secentesca di Purcell, ricco di suggestioni, al limite dell’acrobatico e forte di effetti spettacolari ancorché ottenuti in modo semplice attraverso l’uso sapiente della musica e delle luci, Kemp ha forse ispirato il nascente Cirque nouveau ma certamente ha influenzato molte compagnie che soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta hanno contribuito a rinnovare i fasti della danza classica e contemporanea (Momix ecc.).

È proprio fra gli anni Settanta e Ottanta che Lindsay Kemp lascia un segno indelebile: dapprima con la sua messa in scena dei concerti Ziggy Stardust dell’ex-membro della sua compagnia David Bowie (che trasforma per sempre il modo di presentare concerti rock), quindi producendo le sue opere più significative e conosciute: il già citato Flowers (nelle versioni del 1968-1969 e del 1974), Sogno di una notte di mezza estate (1980) Salomè (1977), Mr. Punch’s PantomimeSogno di Nijinscky Nijinscky il matto(1983), The Big Parade (1984, omaggio al cinema muto), Alice (1988, con le musiche straordinarie tratte dall’opera omonima di Sergio Rendine e Arturo Annecchini – Ricordi/Rai Radio 3, Audiobox), e Duende.

Nel 1975 crea il balletto The Parades Gone By per il Ballet Rambert, e nel 1977-1978 per la stessa compagnia Cruel Garden, ispirato a Garcia Lorca, riproposto negli anni successivi dall’English National Ballet, il Berlin Deutschoper e il Huston Ballet. Nel cinema, oltre ai film  Celestino CoronadoLindsay Kemp Circus e Sogno di una notte di mezza estate, lavora in più film di Ken Russell e Derek Jarman e, in Italia, in Cartoline italiane di Memè Perlini.

Negli anni ’90 continuano i successi della Linsay Kemp Company: Onnagata (1991), Cenerentola (1994) e Variété (1996), che lancia in Inghilterra il cantante sperimentale Ernesto Tomasini. Innumerevoli i suoi allievi/amici e le sue collaborazioni: una su tutte quella con Kate Bush che lo ospita nel video musicale prodotto per il lancio del suo LP The Red Shoes (1993). Kemp non ha mai smesso la sua attività di pittore allestendo mostre dei suoi dipinti e dei suoi disegni in tutto il mondo, e di insegnante, attraverso incontri, conferenze e stage.

Sempre negli anni novanta realizza Rêves de Lumière e Dreamdances. Nel 1996 crea e interpreta per la compagnia del Teatro Nuovo di Torino il balletto Sogno di Hollywood. Nel 1995 debutta nella regia lirica con una versione de Il barbiere di Siviglia che affascina il pubblico e conquista la critica. Nella stagione 2005/2006 interpreta il ruolo della fata Carabosse ne La bella addormentata del Balletto del Sud. Nel 2006 lo spettacolo Elizabeth, dopo il debutto in Spagna va in Giappone e segna un ritorno a temi a lui cari.

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Le Metamorfosi, la poesia del dormiveglia

(a. pizz.) A una settimana (circa) dal defilato, ineffabile addio di Lindsay Kemp ci capita (per caso?) di leggere un  pensiero del poeta Gian Pio Torricelli che, parafrasandolo, enuncia una verità banale ma sferzante, se non perfida. “Durante il sonno dei sogni accadono cose che il giorno si prende cura di cancellare”. A fin di bene.  Immediato l’accostamento emozionale e mnemonico con il teatro, con l’arte soffusa e porporina del caro Lindsay: che, a quel che credo, smentiscono come il marameo d’un bambino una concezione dell’inconscio turpe e irriferibile. Perché? Perché tutta la vita umana e professionale del coreografo, regista, interprete britannico è la negazione incorporea ma tangibile dell’ appressamento olistico -“timorato e pavido”- con i vaghi fantasmi  di nostri territori onirici. Aventi nel teatro l’estro, le difese immunitarie, la panacea terapeutica di  ogni nostra angoscia, isteria, cedimento al panico.

A quali condizioni? A condizione che- come fu per la lanterna magica rispetto al cinema- lo spazio scenico, possibilmente liberato dalla sua quarta parete, diventi una stanza delle meraviglie dove orchi e falene, ermafroditi e sciantose, crisalidi e ‘machi’ in crisi di identità possano convivere senza reciproco fastidio: se non in arcadica armonia, almeno nel reciproco rispetto delle loro differenze. E nella consapevolezza che sia l’inconscio, sia l’umana natura non ammettono confini, sbarramenti, frontiere  alle potenzialità del “divenire”, del poter essere “altro, altro e poi altro ancora”.

Non solo nella innocua convenzionalità della fiaba (che per Lindsay iniziava da Wilde e si completava idealmente con Lewis Carrol, salvo scoprire, nel 1984, lo sfondamento disneyan-hollywoodiano della “Big Parade” in varianti di burlesque, nuovi afrori e altri incantesimi del cinema muto) ma nella prassi di una quotidianità che ti inchioda, volenti o nolenti, al confronto con il diverso, con l’altro da te, con “l’insospettato-inaspettato” che esigono farsi interlocutori, compagni di viaggio, comprimari di quel dionisiaco “piacere” dell’esistere “al suo stato nascente” tramontante in lungo addio e cognizione di ulteriori, persecutori dolori (mai messi in conto).   Non “a parole”- un artista come Kemp si esprime in prossemica, in spontanea gentilezza della sinuosità- tantomeno qual manifesto del suo teatro, credo però che il l’ultimo Punk di Marseyside   percepisse e  perorasse  il suo universo quale fine ultimo (semantico, morale, estetico) di un ‘preistorico’ lavoro delle ombre platoniche e della relativa, ininterrotta prassi didattica (il cuore di Lindsay cessò di battere, senza disturbo, poche ore dopo aver concluso  l’ ultima ‘evocazione’ agli stagisti di Livorno). Tutta centrata su passaggi, presagi e variopinti paesaggi mentali, inattuabili senza l’abbinamento di parsimonia, talento, magnetismo immaginifico- e nonostante gli antichi “sfarzi” (mai fine  a se stessi) delle più celebri sue messinscene.

Sembra un nonnulla, un mero gioco retrospettivo. Eppure non esisterebbe l’idea di  Teatro del Secondo ‘900- per gran parte di noi- se non avessimo avuto fortuna, curiosità, avventura di assistere ad un gruzzolo di titoli formativi e non più concepibili (nel cyberspazio dell’ultraweb, nell’interagire fra umanoidi e avatar sui social). Cito in ordine sparso (e per gusto personale): “Paradise now” del Living Theatre, “Orlando furioso” di Luca Ronconi, “120 giornate di Sodoma” di Vasilicò, “La classe morta” di Kantor, “Caffe Muller” di Pina Baush, “Flowers” di Kemp.  Tralasciamo i primi (ad altre occasioni?) e rianimiamo quest’ultimo alla nostra coscienza (ri)affiorata e selettiva.

Quasi dissolto ogni alone “maudit” derivante dal testo di Genet, lo spettacolo di Kemp (allora affiancato, nella vita  e sulla scena, dagli inseparabili David Haughton e dall’Incredibile Orlando, prematuramente scomparsi) è stato il più lancinante affresco sull’impossibilità della frase, del canovaccio, dell’ intreccio avvincente-psicologico di farsi “totalità del teatro”: anche se a suo supporto interviene il più possente degli impianti scenici. Non perché la “parola” non serva(più) , ma poiché essa esiste solo se dissolta nei “flussi dell’immagine” congrua, pertinente, ma in totale anarchia di accostamenti e contrasti.

“Celebrazione di amore e di morte, violenza e sesso estremo, naturismo hipppie e trasformismo  dei corpi” (L. Bentivoglio  in direzione di una favola di elfi e di fools- e verso la beatitudine del polimorfico che strappa l’imprinting delle bollature anagrafiche (l’identità è concetto più sottile, sfuggente…): quello di Kemp era un contributo al ribaltamento, alla rivolta dal basso (anzi, dai “gironi infermali” impartiti da Buoncostume e Potere) di un sulfureo emisfero popolato da angeli, ballerini, meretrici, galeotti, mercenari d’ogni risma sedotti (e purificati) dalla magnetica  presenza  di una Salomè bianco lattea, saffico-siderale che immaginammo divinità del fiume Lete mentre  dava  requie ed oblio ai naviganti senza più tragitto.

 Ostico, totalizzante, messo all’indice, “Flowers” fu l’essenza   fruttifera di una squisitezza, di una poderosa affermazione del ‘siamo quel che siamo (e che saremo ancora)’ superiore ad ogni studio di antropologia comportamentale negli anni in cui – per convenzione- si credeva che la fantasia fosse andata a far da vertice e guida  di un’umanità affrancata dal bisogno e dalla dannazione del mercimonio (capitalista). Nel suo vispo cromatismo di eccitanti labilità: dalle categorie sessuali sfumate nelle plausibilità ‘ante litteram’ del gender in divenire al piccolo dedalo di stoffe, arazzi, costumi variopinti su alcove segrete ma non “perverse, turpi o scellerate”. Semmai candeggiate per ingentilite luminosità di stupefatto appeal, mai lezioso o torbido, casomai aggraziato (come tesoro cui dar la caccia) proprio perché educato a non esserlo. A non essere ipocrita come accade nelle lusinghe, negli   intervenuti commerci  di  prezzolato (non)amore del  tempo in cui ci tocca sostare. Senza che si intraveda l’ombra di alcuna insurrezione, dissenso, negazione  di corpi ‘reificati’ dalle Divinità dello scabroso. Del merchandising. Nel caos non più iridescente che adesso si consuma fra tante passioni diventate macchiettistiche, inanimate

Grazie per esserci stato,  Lindsay.