Per rendere omaggio a Ermanno Olmi, scomparso oggi, riproponiamo la nostra recensione di “Centochiodi”. Addio Maestro, ci sentiremo molto soli.
La restaurazione del vuoto. ‘Centochiodi’ di Ermanno Olmi (2007)
Regia: Ermanno Olmi
Con: Raz Degan, Luna Bendandi
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In molti si sono dilungati sui libri e sui chiodi – bellissimi, implacabili chiodi di cui Olmi ci mostra il peso e la lunghezza, finanche le lievi irregolarità della forma e le tracce di ossidazione; chiodi quasi estinti perciò cari all’occhio del regista, funzionali alla storia -, quindi è preferibile accostare lo sguardo al battello fluviale onirico, liminale, che ospita sul ponte gli incantamenti melanconici delle feste e dei balli organizzati dalla gente di Bagnolo San Vito. Dalla riva del Po le persone agenti (per una sorta di pudore e di rispetto non si riesce a chiamarle “personaggi”) si guardano sull’imbarcazione; osservano il momento felice ed hanno la contemporanea percezione del suo svanire. Ascoltano nella musica l’invocazione alla memoria corale (non ti scordar di me…), affinché custodisca, al di là di tutto, l’emozione suscitata dall’epifania.
Allo stesso modo, una bambina ottuagenaria (una lieta Parca dimentica del grave compito di filatura), in uno spazio fra gli alberi opportunamente allestito, davanti ai membri della piccola comunità fluviale, declama con qualche inciampo una filastrocca riguardante un gallo ribelle e la sua punizione; litanìa scaturita da un altro tempo che la salva dal buio di un presente polveroso di ruspe e di scooter.
La luce blu cupo dell’acqua nel crepuscolo che avanza si porta via la spoglia del professore, una giacca lanciata dal ponte che pare un corpo parzialmente affiorante, rappresentativa dell’(in)esistenza appena abbandonata. E’ la prima soglia invisibile che il protagonista si trova ad attraversare nel suo percorso iniziatico di ascolto e visione (del verso dei grilli, del suono solitario e molteplice della pioggia, delle casupole dai colori sbrecciati, dei lunghi tavoli conviviali).
Da qui si produce un aggraziato, quasi impercettibile, slittamento che porta la narrazione a svaporare in allegretto antropologico.
Olmi si unisce al quieto imperativo di Zanzotto (restauriamo il vuoto che c’è nel mondo) e all’auspicio addolorato della Ortese (non ne usciremo senza tornare indietro. Ma molto, molto indietro). L’intento non è tanto quello di rievocare un mondo perduto (forse in questi termini mai esistito), quanto di mostrare come l’atteggiamento di rispettosa comunione con la natura possa rendere questa salvifica per gli ospiti che la abitano transitoriamente (e dare origine a modalità relazionali fra individui non legate al verbo e alla legge).
La mai mancante neve di maggio continuerà a salvarci finché continueremo a notarne la presenza e a cercare di interpretarne il linguaggio fisico.
Il professore giungerà al termine del suo percorso di purificazione quando, durante la compilazione dell’istanza da presentare al Comune per salvaguardare quel tratto del Po, farà proprio il pensiero rammemorante della comunità, utilizzandolo per trasformare in ribellione all’assenza di senso della parola specialistica la timidezza-ostilità contadina verso le “carte” incomprensibili, sorde e vessatorie fabbricate in serie dall’Autorità (in qualunque palazzo essa alberghi).
E’ un richiamo manzoniano (che si ritrova anche nella Lettera a una professoressa) l’accenno al senso di inadeguatezza degli umiliati e offesi davanti alla macchina capziosa della burocrazia e ai suoi ingannevoli documenti, soggetti a infinite interpretazioni e per questo potenziali, malleabili servi di ogni forma di potere.
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