“Europa ’51”: Rossellini analista della contemporaneità
Roberto Rossellini inventò il Neorealismo e, già, nel 1950, con “Stromboli, terra di Dio”, ne prese le distanze. Egli aveva capito, sempre in anticipo su tutti, che il disastro della guerra, che aveva informato tutto il suo cinema precedente, aveva oramai lasciato il campo ad altre urgenze, anche da quel dramma scaturite. Questo, quando tutti, invece, vi si accostavano, sotto le più varie forme e formule (romanzo popolare, neorealismo rosa) che sarebbero perfino diventate redditizie. Il film successivo, “Europa ’51”, 1952, è la seconda tappa di una tetralogia della solitudine (gli altri titoli sono “Viaggio in Italia, ’53, e “La paura”, 55, tutti interpretati da una insuperabile Ingrid Bergman) destinata a cambiare il modo di raccontare la realtà, indagata nei modi più utili per conoscerne i motivi esistenziali più reconditi.
L’identità dell’uomo, tutta da ricostruire, dopo l’ecatombe di oltre 60 milioni di vittime, insieme alle urgenze del presente, veicolate da una coscienza sempre più labile ed in crisi, imposero all’artista romano di battere nuove strade formali e contenutistiche per dare una risposta valida a questi ineludibili interrogativi universali. E se “Stromboli, terra di Dio”, era stato il modo per aprire un varco verso nuovi orizzonti narrativi, “Europa ’51” rappresenta la forma più alta di racconto della contemporaneità, fino ad allora messa in scena. La vicenda dell’altoborghese Irene, che perde il figlioletto, suicida perchè da lei trascurato (significativo fil rouge con il tragico finale dell’ancora stupefacente “Germania anno zero”, 1948), catapulta lo spettatore in uno scavalcamento di campo emotivo senza precedenti.
I sensi di colpa della madre sono tali da portarla a rendersi conto della fatuità ed inutilità della sua vita precedente. E dopo aver sperimentato l’alienazione della vita di fabbrica, quando l’amico comunista la illuderà sul lavoro come panacea di tutti i mali, in questo Rossellini anticipando perfino l’Antonioni de “Il grido”,’57, ella sarà unicamente desiderosa di un rapporto “umano” con il mondo, sola soluzione alla sua indicibile sofferenza. Girerà per la periferia di Roma pronta ad occuparsi di chiunque necessiti di amore, pietà e tenerezza, da sempre “obiettivi” principali del cinema rosselliniano. Pause contemplative per meglio farci capire, stasi drammatiche cariche di trascendenze, piani sequenza necessari al trionfo dell’umano, queste le modalità con cui l’artista romano disegnerà l’incedere di Irene e il suo assistere orfani abbandonati, prostitute ammalate, e tutti gli “scarti” di un mondo che non ha imparato nessuna lezione e che continua imperterrito a mietere vittime innocenti, stavolta in maniera subdola e silenziosa.
La risposta della famiglia di Irene non sarà che una. Rinchiuderla in una casa di cura per malattie mentali. Chi non si adatta al pensiero dominante, è destinato a restarne fuori. Per Rossellini il mondo è di nuovo spaccato in due, ma stavolta i “buoni” hanno perso. E non potranno nemmeno ribellarsi, privati come sono perfino della loro volontà (il manicomio come metafora, prima di tragica realtà). Allora, in molti si chiesero se questa opera somma della cinematografia di ogni tempo volesse rilanciare, nella figura della protagonista, il dilemma santità-follia. Nè santità, nè follia, solo la ragione era alla base del dire del suo autore.
Ma anche la ragione può poco se è vero che, nel commovente finale, a salutare Irene, relegata dietro le sbarre del manicomio, ci sono soltanto tutti i suoi “straccioni”, che il resto della società ritiene solo tali e non uomini vittime di ingiustizie indicibili e invincibili, simbolo del bene perennemente sconfitto dal male. E’ l’individuo che soccombe dinnanzi alla Storia più grande di lui il protagonista di questa immersione di Rossellini nella assurda logica vincitrice del suo tempo, diventato, inevitabilmente, anche il nostro. Sbarre comprese, anche senza più manicomi!