America amara. Film USA di ieri e di oggi

America amara. Film USA di ieri e di oggi

Julia Roberts in Erin Brockovich

All’Ovest qualcosa si muove. Parafrasando (e contraddicendo) il titolo del vecchio film (1930) di Lewis Milestone (a sua volta desunto dall’omonimo romanzo pacifista di Eric Maria Remarque) si potrebbe supporre che, nell’arco di alcuni decenni, il clima, il tono, le storie dei film hollywoodiani abbiano assunto coloriture, riflessi via via sempre più eccentrici e al più caratterizzati da ambientazioni, spunti narrativi significativamente “altri” rispetto ai convenzionali lungometraggi. Ovvio che si tratta di indizi, esempi di una spettacolarità più realistica e, per giunta, contrassegnata da componenti marcatamente polemiche o persino da discorsi anche moderatamente civili.

Stiamo parlando di una materia che, specie negli ultimi tempi, si è andata configurando in lungometraggi di massima di produzione indipendente abitati in genere in desolate zone urbane da individui anche esteriormente marcati da condizioni sociali e di riflesso subalterne e chiamati a vivere situazioni penose. Insomma, vicende, personaggi, storie tutto e sempre fallimentari. Si tratta di una sensazione più che di dati certi, ma individuabile di tanto in tanto in film strutturati proprio con intenti manifestamente critici verso gli aspetti biasimevoli della way of life americana e particolarmente di quella dell’ “era Trump”.

Prendiamo la questione alla larga tirando in campo un film del 2000 di Steven Soderbergh con una irruenta Julia Roberts al meglio delle sue risorse e con un Albert Finney di superlativa maestria. Il titolo Erin Brockovich si rifà ad una storia autentica opportunamente arricchita da intrusioni brillanti destinate a sostanziare il racconto di rifrangenze, digressioni causticamente graffianti. Dunque in una polverosa periferia di Los Angeles una stropicciata e sfortunata donna, a suo tempo malmaritata, e ora con scarsi mezzi di sostentamento, con tre bambini a carico, a seguito di un incidente d’auto si aggrega ad uno studio di avvocati pur di campare la vita. Ma l’esistenza è dura. Erin, peraltro, è volitiva, irriducibile. Si impegna in una battaglia legale contro una potente multinazionale colpevole di inquinare furtivamente l’acqua, il terreno di sua proprietà, oltretutto accampando il pretesto di non essere per niente responsabile dei guasti fisici e morali che provoca in una ben definita zona.

Con un ritmo incalzante e un estro aggressivo l’azione legale intrapresa dalla indomita Erin tocca presto, nonostante le soperchierie della multinazionale, un risultato più che positivo, costringendo alla resa della criminosa azienda inquinatrice, condannata a risarcimenti onerosi per le disgraziate vittime del disastro ambientale. Al di là del racconto incalzante come una favola felice (benché ispirata da un fatto reale) il film di Soderbergh si impone di slancio principalmente per la caratterizzata ambientazione fisica del teatro dell’azione – un’America spoglia, desolata – e ancor più per il resoluto piglio polemico col quale un esemplare episodio di malversazione capitalista viene schematizzato in un apologo insieme giusto e rivelatore di un’America amara.

Senza enfatizzare, poi, troppo il peso di un film come Erin Brockovich ma mettendo nel debito spazio un’opera significativa di determinato cinema civile, ci è parso che, anche a distanza di quasi due decenni, ovvero proprio nel periodo oggi presente, anche altri cineasti sono stati tentati, come Soderbergh, di occuparsi appassionatamente di vicende, personaggi segnati vistosamente da esperienze esistenziali devastanti e da più che laceranti sconfitte. Ci riferiamo, in particolare, al film di Sean Baker Un sogno chiamato Florida, a quello di Greta Gerwig Lady Bird e all’altro ancora di Craig Gillespie Tonya tutte opere grintose ove i casi ora drammatici, ora patetici di figure al limite di insidiose patologie si danno ad una vita tribolata sia per naturale tendenza, sia per la congiuntura di scelte clamorosamente sbagliate.

C’è, ad esempio, una ragazzaccia in Un sogno chiamato Florida con due bambini allo sbando in uno squallido motel dove soltanto un volontario custode salvaguarda dal peggio una bistrattata umanità che sopravvive al margine della radiosa isola felice di Disneyland. E c’è anche, in Lady Bird, una giovane donna umiliata da una famiglia disgraziata e soltanto a stento salvata dal caso. Poi ci sono, infine, in Tonya, la brillante ascesa e la rovinosa caduta della irosa pattinatrice perdutasi per rabbia. Ecco una intiera casistica ove “interni-esterni” rozzi, squallidamente dilatati danno palmare evidenza di un Paese, al contempo grande e spossessato di ogni idealità o conclamato sogno. Soltanto una realtà dura e cruda. Proprio come si diceva all’inizio all’Ovest qualcosa si muove. Il cinema ne dà tempestivamente conto. A modo suo, s’intende.