C’era una volta. La fiaba nera di Sylvia Plath

C’era una volta. La fiaba nera di Sylvia Plath

 

“Io sono verticale, ma preferirei essere orizzontale…stare sdraiata è per me più naturale…Sarò utile il giorno che  resto sdraiata per sempre. Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.” Una voce fuori campo. E’ il coinvolgente testo poetico “Io sono verticale” di  Silvia Plath, poetessa-icona degli anni sessanta, tragicamente morta suicida a trent’anni infilando metaforicamente la testa nel forno, come le sue torte.

Così inizia l’omonima  pièce liberamente ispirata alla sua poetica e alla sua vita, vista a Catania in un pomeriggio quasi primaverile. Un fulminante, inarrestabile monologo teatrale su cui scorre la linfa della letteratura underground degli anni ’60 dalla Plath a Bukowski, al Wallace delle “Brevi interviste con uomini schifosi” fltrata dalla ricerca del  gruppo S.E.T.A, talentuosi artisti  coesi in un fertile progetto di inesplorati cammini drammaturgici. Questa sottile consapevolezza  di una verticalità acuta e difforme dalla piattezza di un mondo orizzontale, sconfinata in un gesto estremo, esploso dopo una serie di inequivocabili segnali,  svela l’inquietudine e il malessere di una generazione  che sente il peso di una lacerante inadeguatezza. Sarebbe  riduttivo relegare la poesia della Plath a banali schematizzazioni femministe o postfemministe. Sicuramente rompere gli schemi oppressivi senza costruirne altri è stata ed è  la grande sfida dei movimenti femministi e rivoluzionari sessantottini su cui  ci si continua a misurare, ma la sensibilità dei poeti va ben oltre, sconfinando in un disagio esistenziale dai contorni indefiniti.

Sylvia Plath

In questa verticalità dissonante, padrona incontrastata del suggestivo spazio scenico del Teatro Machiavelli si muove una donna dalle inquietanti sfaccettature, in preda a sogni e bisogni, una outsider colta nel suo disagio straniante, nonostante  gli gnomi maledetti della sua vita l‘abbiano confinata in un mondo illusorio di torte e scarpette.

La bambola-donna-Sylvia, una formidabile Alessandra Barbagallo,  trangugia torte e mele dai devastanti effetti collaterali, raccontando dei suoi fiabesco-corrosivi  orrori, in un intimo diario dalle venature ironiche, collusive, solcate da toni leggiadri improvvisamente elevati alle stelle, fuor di retorica, con la rabbia dolente di chi vive suo malgrado destini al vetriolo, nella nuda sottomissione al potere maschile, alter ego di una favola che traligna, lasciando i denti scoperti e un vuoto gigantesco. Bisogna trovare altri sentieri. Il lieto  o tragico fine  è riduttivo. Tarpa le ali al sogno, alla fertilità di diverse angolazioni.

Tutto questo tracima sul palco da una messinscena surreale, dove il pianto è riso e viceversa, dove gli oggetti in scena tradiscono la loro natura, in  ameni guizzi di disambiguazione, dove l’attesa del lieto fine è disattesa, senza drammi. Ineludibili le sterzate asciutte della regia  di  Silvio Laviano, un uomo che ha saputo raccontare  di una donna, con un articolato linguaggio senza compiacimenti, in equilibro tra realtà e sogno, tra accordi e ricordi, rimembranze infantili di bambole, calandosi, con  sguardo lucido e al tempo stesso partecipe,  in un mondo a lui estraneo, svelando con humour meccanismi perversi, evitando facili slittamenti nel patetico, muovendosi con delicata attenzione tra muliebri  aspettative, puntualmente scolpite nella sabbia da  spudoratamente falsi lieto-fine, a esclusione  dei presenti. La fiaba  nera di Sylvia Plath nella realtà non ha un lieto fine. Si può  immaginarne un altro però, dove uomini e donne, al di là degli steccati sessuali, uniti in un nuovo  progetto conducano lontano dal precipizio.

Un’insolita eco dal sapore acido di sano  straniamento è ciò che resta dopo. Un senso di gradevole fallimento ci coinvolge tutti, intenti ad esplorare  questo vecchio   gioco al massacro che la sinergia drammaturgica ricompone nella faconda collaborazione artistica, additando salvifici, inediti  percorsi.

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IO SONO VERTICALE

Drammaturgia della Compagnia

Regia  Silvio Laviano

Con  Alessandra Barbagallo

Scene e costumi Vincenzo La Mendola

Progetto fotografico Gianluigi Primaverile

Progetto grafico Maria Grazia Marano

Illustrazione       Graziano Messina

Progetto S.E.T.A  in residenza

Al Teatro Machiavelli di Catania