Script & Books

Enzo NATTA- Leuca, come un’infanzia (“In grazie di Dio”, un film di E.Winspaere)


 

Il mestiere del critico



LEUCA, COME UN’INFANZIA

Locandina In grazia di Dio

 

“In grazia di Dio”, un film di Edoardo Winspeare


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Fedele all’insegnamento di Flaubert, secondo il quale la migliore ispirazione è quella del proprio ambito domestico, per angusto e risicato che sia, Edoardo Winspeare continua a coltivare un intenso e poetico rapporto con il suo Salento. E così – dopo Pizzicata,  Sangue vivo, Il miracolo, Galantuomini – ecco In grazia di Dio, vicenda che esce dal privato per collegarsi intimamente al tessuto connettivo dell’intero Paese, alle vicissitudini e ai traumi di una crisi economica e sociale che ha investito  e travolto la comunità nazionale nella sua totalità.

In quell’estrema terra di confine che è Leuca, il Tacco d’Italia, dove l’Europa finisce per lasciar spazio al mare e all’Oriente, una piccola impresa a conduzione familiare deve vedersela con la crisi, con turbative senza scampo (il mercato globale, la concorrenza dei cinesi che praticano prezzi insostenibili, la recessione) e abusi d’ogni genere da parte di banche, apparato fiscale, congegni burocratici che non si sforzano minimamente di andare un po’ oltre rigidi regolamenti per cercare una possibile soluzione che non condanni inesorabilmente alla rovina economica. E non solo.

In quel lembo del “Finis Terrae” rappresentato da Giuliano di Lecce, Corsano, Tricase, quattro donne di una stessa famiglia vivono il doloroso pignoramento della casa in cui abitano in seguito al fallimento dell’impresa familiare che gestiscono. Costrette giocoforza a trasferirsi in una masseria di campagna piuttosto malandata, vedono allentarsi poco alla volta gli stessi legami affettivi che avevano sempre rappresentato una solida garanzia. Tutto sembra compromesso…

Articolato sulla base di un racconto fluido e scorrevole, In grazia di Dio segue i canoni classici di una scrittura in cui confluiscono molteplici elementi di una ben dosata miscela di dramma e commedia.   Edoardo Winspeare è un Olmi del Sud, attuale, moderno, fiero delle sue origini, che sa coniugare il dolente registro dell’Albero degli zoccoli con la leggiadra tenerezza di Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli. Lo stesso impianto drammatico dell’uno e lo stesso impasto ironico e grottesco dell’altro convergono in un film al femminile qual è In grazia di Dio, dove la quota rosa si fa totale nel segno della speranza e della continuità.

La nonna, le figlie, la nipote sono i cardini di un affresco collettivo che sottolineano le fasi di passaggio di una svolta epocale, di una società intera, dei suoi costumi e delle sue abitudini di vita. Il tutto attraverso la messa a fuoco di tre generazioni che si trasforma in un inno alla femminilità. La nonna è l’emblema della famiglia tradizionale, legata alla terra, alla civiltà contadina, a quei valori religiosi radicati in una fede incrollabile e in una speranza che mai viene meno. All’estremo c’è la nipote, il vuoto, l’incertezza, l’instabilità di una generazione cresciuta nel relativismo e nel nichilismo. E nel mezzo le figlie, soprattutto il personaggio di Adele, che fa da cerniera fra due mondi contrapposti e contrastanti, che cerca di reagire, di lottare, senza abbandonarsi alla rassegnazione né all’inedia di un’esistenza senza senso.

In questa composita mescolanza convivono passato e presente, sacro e profano, fiduciose attese e dimesse forme di inazione raffigurati in un’Italia dimenticata, più di ogni altra destinata a essere trascinata dalla corrente impetuosa del dissesto: l’Italia periferica, lontana e dimenticata, che non finisce sui giornali se non negli spazi riservati alla cronaca nera, che non legge i giornali ma che si nutre di tv, estranea alla politica, subordinata agli eventi drammatici che la travolgono.

L’Italia ‘che non ce la fa più’ e che per sopravvivere imbocca le scorciatoie della disperazione: debiti, strozzinaggio, colpi di testa irragionevoli, esposizioni bancarie capestro. Soluzioni avventate, spesso dettate da un avventurismo della peggior specie, ingenuo e incosciente, ma al quale è difficile sottrarsi quando si ha l’acqua alla gola. Desolante e angoscioso scenario dell’Italia “non protetta”, di cui non si occupa nessuno, che deve arrangiarsi da sola, quadro della comunità post-industriale e sconfortante modello umano stretto fra consumi indotti e costumi sempre più invasivi.

Anche se tra le soluzioni adottate dalle protagoniste si affaccia la pratica del baratto, strumento di scambio che si sta diffondendo con sempre maggior insistenza, In grazia di Dio non è un film ecologico o ambientalista, meritevole di segnalazione da parte del WWF. Non è un progetto di ritorno alla natura, allo spirito virgiliano delle Bucoliche e delle Georgiche, ma una riflessione su una fase di passaggio tra un mondo che sta scomparendo e un altro che si sta annunciando, ma che non ha ancora ben messo a fuoco le linee distintive che lo caratterizzano.

Un po’ come, anche se per un altro verso, era nelle conclusioni dei Giovani arrabbiati di John  Osborne/Tony Richardson.   Questo taglio sociologico risulta tutt’altro che invadente e soffocante  per via di una sommessa dimensione etnica e antropologica che si innerva in un microcosmo degno della tradizione documentaristica e letteraria del Salento. Si pensi a scrittori come Amilcare Foscarini e alla sua opera di critico e filologo.

L’autenticità di In grazia di Dio non si respira soltanto dal fatto che il film sia parlato in leccese, con sottotitoli, e sia girato “en plein air” sui luoghi stessi dell’azione, ma soprattutto dalla palpabilità dell’argomento trattato. Parlare di neorealismo è fuori luogo e fuori tempo (anche se al Festival di Berlino, dove è stato presentato nella sezione “Panorama”, qualcuno non ha mancato di farlo), ma la lezione è quella: un cinema lontano dai teatri di posa, con attori non professionisti e messo in opera seguendo le vie dell’immediatezza e dall’improvvisazione suggerite dalla partecipazione emotiva ai personaggi e all’intimo sentire di un’esperienza comunitariamente vissuta.

La coesione “familiare” (la brava Celeste Casciaro, Adele, è la moglie di Edoardo Winspeare, l’altrettanto brava Laura Licchetta, Ina, è sua figlia) contribuisce a rafforzare la sintonia fra autore e interpreti, a corroborarne l’amalgama, a consolidarne gli intenti. Ma anche a coprire piccoli difetti che il gioco di squadra non riesce a nascondere: ripetizioni, incastri stridenti, meccanismi narrativi poco funzionali. Limiti che lo stesso Winspeare riconosce e che tanta sincerità, in un ambiente non certo esemplare per modestia e umiltà, contribuisce a rimuovere.