Crisi ciclica verso l’ignoto. “Le Baccanti” di Euripide
Traduzione di Giorgio Ierano
Regia di Antonio Calenda. Scene di Pier Paolo Bisleri. Costumi di Germano Mazzocchetti. Coreografie della Martha Graham Dance Company.
Con Maurizio Donadoni, Gaia Aprea, Francesco Benedetto,Daniele Griggio, Massimo Nicolini, Simonetta Cartia, Daniela Giovanetti, Luca Di Mauro, Alessandro Aiello, Davide Geluardi, Andrea Spatola, Jacopo Venturiero, Giacinto Palmarini
Prod. Inda. Teatro Greco di Siracusa
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E’ una lettura austera ma non solenne, calligrafica ma non ampollosa (ove la cura estetica si decanta nell’ampia spazialità del campo scenico) quella cui mette capo Antonio Calenda per le “Le Baccanti” di Euripide di scena sino a fine giugno al Teatro Greco di Siracusa per l’annuale ciclo di rappresentazioni promosse dall’Istituto Nazionale per il Dramma Antico.
Indispensabile – per qualsiasi analisi critica – è individuare, in prima istanza, il contesto storico-culturale in cui si colloca quest’ultima impresa creativa della tarda maturità dell’autore. Recando specifica testimonianza della complessa crisi civile e religiosa che, alla fine del V sec., minaccia la sopravvivenza del culto tradizionale delle divinità olimpiche strettamente connesso ai ‘fondamentali’ etici della polìs. Perche? Perché la Grecia classica sta per essere travolta da usanze e modelli di quella che verrà a subentrare sotto il nome di ‘età alessandrina’. Segnando così la fine della “paideia” platonica, che Euripide qui individua nella disintegrata armonia ‘fra essenza del femminile e del maschile’ mai disgiunte nel ‘mondo delle idee primigenee’ e nel ‘mito della caverna’ (…prodigiosa intuizione delle tesi del gender, progressivo e autodeterminantesi).
Donde il passaggio da una religiosità intesa come ritualità simbolica (punto d’incontro dei valori e costumi condivisi dai cittadini) a una religiosità a carattere misterico – “a una fede individuale, spesso disturbante, alienante e contraddittoria” –, secondo le acute annotazioni del grecista e traduttore Nuccio Palombo, che ravvede nelle “Baccanti” la travagliata consapevolezza di questa epocale (e nei millenni ciclica) crisi verso l’ignoto.
Un richiamo alla struttura del mito: che ruota intorno all’ambigua ‘signorìa’ del semidio Dioniso nato dall’amore di Zeus e dalla mortale Semele. Le cui sorelle ed il nipote Penteo, nella sventurata città di Tebe (stesso sfondo della tragedia di Edipo) diffidano della sua origine divina, inducendo Dionisio a imporre ‘la sua verità’, mediante l’indotta follia contro la ‘comunità delle donne’, spinte a salire sul monte Citerone in cui scatenarsi al culto, anzi all’idolatria, di una presenza estranea, estrema e destabilizzante. Proprio per la sua forza di sobillare e manipolare le viscere più temute e sconosciute dell’entità femminea.
Penteo, nonostante le profezie di Tiresia e i timori del nonno Cadmo, continua a non credere alla natura divina di Dioniso e si fa convincere a travestirsi da donna per spiare riti, tribalità e prodigi che, si racconta, vengano compiuti dalle divenute ‘menadi’.
Avendo Dioniso per avversario, Penteo è però scambiato dalle donne per un leone e viene ucciso in un loro momento di ‘mistica’ alterazione. Agave, madre di Penteo, ritorna a Tebe con la testa del figlio, ancora convinta che si tratti di un leone (solo quando “rientrando in sé” assume l’onere del compiuto delitto). Al termine della tragedia appare Dioniso, fattosi ‘deus ex machina’, spiegando che è “quella” (di cui siamo stati testimoni) l’esemplare punizione per chi non ha creduto nella sua natura divina. Cedendo ad un effluvio di saggezza e protervia, di lesa maestà e placato furore, da cui sono (comunque) emendati tonali e lessicali cedimenti al roboante e sentenziale.
Ci si chiede però, e al di là dell’affabulazione orfica e sanguinaria: quale ‘pensiero filosofico’ assegnare a questo genere di narrazione, dove allegoria e ambiguità del mito si prestano alle più disparate interpretazioni, secondo che le si osservi – come un parallasse – sotto un diverso profilo antropologico, psicanalitico, metaforico?
Cosa pensa l’intellettuale (paleo-umanista) Euripide della religione e dei suoi riti misterici?
Nelle “Baccanti”, Euripide è un dolente razionalista che vuole denunciare il fanatismo degli uomini e la crudeltà degli dèi (a dimostrazione del come “tantum potuit religio suadere malorum”), essendo però consapevole del ruolo che la religione ‘non eversiva’ (non dionisiaca) svolge a lenimento delle torture cui è esposto l’animo umano. Dunque: come se il cedimento alle fascinazioni, agli allettamenti del ‘nuovo’ fosse premessa di disgregazione, sventura, dannazione.
Certamente, all’interno della tragedia si muovono e interagiscono, tra i vari personaggi, “modi diversi di aderire alla fede religiosa o, addirittura, anche di negarla in parte, o del tutto”.
L’autore, che è discepolo della logica sofistica ‘racconta’ e non condanna il culto dionisiaco; né ritiene – per “cultura e credenza di gruppo” – deplorevole dare agio alle incognite dell’istinto, all’impulso di una ‘esoterica’ escandescenza che nega ragione e obbedienza ‘al mondo dei padri’. Per la legittima affermazione di una femminilità furibonda e devastante che è disvelamento di forze sconosciute, ribelliste, ma prive di progettualità alternative all’ordine, alla struttura maschile della decadente polis.
Elementi di riflessione che lo spettacolo di Calenda tende ad intravedere, ma non scandagliare: quindi senza forzare valenze politiche o di contrasto di ruoli uomo-donna, dando capo ad un allestimento di buona cultura figurativa, esaltato dagli elementi coreografici, decorativi, costumistici, in cui i contrasti cromatici (di nero, rosso e colore oro) assecondano una sorta di liturgia beffarda e funerea che, in definitiva, è la cifra espressiva di un allestimento che allude e non delude (lo spettatore estivo).
*Testo pubblicato dal mensile “Sipario” nel luglio del 2012