La molestia è guerra. “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana
Sono circa quarant’anni che Marco Tullio Giordana si occupa di cinema. Esordì nella regia nel 1980 con l’appassionato Maledetti, vi amerò, incentrato sui postumi del controverso 1968 e ben addentro anche a tutti i rovelli sociali, psicologici di quella tormentata stagione. Da allora, l’oggi più attempato Giordana (veleggia ormai verso i settant’anni) ha realizzato oltre dieci lungometraggi, tra i quali sono da ricordare almeno Notti e nebbie, Pasolini, un delitto italiano, I cento passi, La meglio gioventù, ecc.
Ora, basandosi su un soggetto e una robusta sceneggiatura di Cristiana Mainardi, Giordana viene di nuovo in campo con un tema, all’apparenza dettato dall’emergenza tutta attuale del dilagare di pesanti molestie sessuali iniziata a Hollywood con il “caso” Weinstein, ma in effetti scelto come progetto arrischiato ben tre anni fa con preveggente sensibilità. Del resto, il film adesso sugli schermi, dal sintomatico titolo Nome di donna, si prospetta subito come una storia di quei particolari fatti legati patologicamente a certi personaggi inclini a comportamenti abietti nei confronti delle donne. E ancor più condannabili perché praticati con disprezzo assoluto di ogni scrupolo morale.
L’elemento centrale di Nome di donna, un dramma tutto contemporaneo evocato con refrattaria oggettività da Giordana e specialmente dalla figura di Nina (una Cristiana Capotondi al meglio delle sue risorse espressive), una giovane ragazza-madre risucchiata in un ingranaggio devastante di molestie, ricatti, oltraggiosi metodi persecutori. Il tutto sciorinato con un andamento ritmato con ostentata “normalità” – anche in contrappunto con gli esterni ambientali ritagliati in una Milano spettrale – attorno ai casi in cui appunto Nina, vittima predestinata, soccombe, in un primo tempo, alle insidiose offese di uno squallido presidente della casa di riposo per anziani facoltosi.
C’è inoltre un suo brutale tirapiedi, un sacerdote indegno, che non recede davanti ad alcuna bassezza per solidarizzare con lo spregevole dirigente. L’aspetto più desolante, peraltro, viene fuori dal contagio che le soperchierie del vile molestatore e del suo cinico complice innescano tanto nella sontuosa casa di cura, quanto nelle restanti infermiere e cameriere che in quel luogo lavorano sempre esposte alle molestie oltraggiose e alle intimidazioni ricorrenti, fino a provocare di riflesso una oggettiva collusione con i tristi figuri di questa storia malata.
Affiora poi nel fitto di una vicenda per sé sola tristissima lo sguardo freddo, apparentemente distaccato di Giordana e ancor più dei suoi puntuali interpreti, in realtà dettato da un intuibile sdegno per tante e tali mascalzonate. Già il fatto di intervenire con rigore e vigore su un tema così attuale depone, certo, a favore del cinema di Marco Tullio Giordana, un cineasta di cui si è scritto su certi suoi film: “A volte i risultati sono discontinui… Ma spesso ispirati e sobri come l’investigazione di Pasolini, un delitto italiano e I cento passi, veemente e partecipe testimonianza della vita di Peppino Impastato e della sua morte per mano della mafia. La storia di Nome di donna è sicuramente meno cruenta ma più ravvicinata, più esemplare, forse una guerra tutta divampante.