Il calapranzi (1960): attesa, minaccia, comicità, la cifra specifica del teatro dell’assurdo di Pinter al Franco Parenti

Il calapranzi (1960): attesa, minaccia, comicità, la cifra specifica del teatro dell’assurdo di Pinter al Franco Parenti

@ Rinaldo Caddeo, 21 febbraio 2025

Stanza di un seminterrato, muri bianco sporco, due letti di ferro rugginoso, due porte, due personaggi, tavolino, attaccapanni, un interfono. Il calapranzi, un montacarichi che scende con le richieste scritte di un bar e dovrebbe risalire con i piatti cucinati, entra in scena dopo, quando viene aperto il portellone che lo cela.

Silenzio.

Ben legge il giornale sdraiato a letto ma è su Gus che si focalizza lo sguardo: si alza dal letto, si mette le scarpe, cammina, si ferma. Si toglie una scarpa e ne tira fuori un pacchetto di sigarette ciancicato che scuote. Fa pochi passi e si riferma. Estrae dall’altra scarpa una scatolina piatta e la getta.
Prima ancora che parlino lo capiamo dai gesti chi siano i due giovani protagonisti e quale sia la loro relazione. Entrambi ben vestiti, giacca e cravatta, Gus è negligente, distratto, trasandato. Parla e fa cose strambe. È il buffo di turno ma anche colui che si interroga e interroga Ben e cerca e trova delle risposte, sia pure bislacche, e proprio per questo viene redarguito da Ben. Ben è il capo: è serio, parla poco, legge il giornale. Il suo interesse si sofferma sulla cronaca. Attirano la sua attenzione notizie paradossali e raccapriccianti, che legge ad alta voce al suo compagno: un vecchio che si getta sotto un camion per attraversare la strada e muore, una bambina di otto anni che ammazza un gatto. Cronaca minima, crudele, assurda.
È Pinter. Il Pinter migliore, quello più accanito, arrabbiato, quello delle prime opere. Bastano poche battute, in apparenza buttate lì, sciatte, senza arte né parte, a farci entrare in un microcosmo che non è il mondo del teatro normale ma è il teatro, assurdo, del mondo in cui viviamo. Un palcoscenico ricco di tensioni, stupidità minuscole, incongruenze macroscopiche. Non è teatro di regole affiatate ma l’algoritmo affilato e scompigliato del suo funzionamento.

Che ci fanno lì, in quello squallido seminterrato, i nostri due eroi?
All’inizio sembrano solo perdigiorno che ammazzano il tempo e non sanno bene come farlo.
Poi, poco a poco, viene a galla una verità: si scopre che hanno un lavoro. Uno strano lavoro che li fa dormire di giorno e agire la notte. Un lavoro saltuario, in apparenza poco impegnativo: una volta la settimana o anche meno ma che li costringe ad aspettare. Aspettare una persona che dia loro una disposizione, un ordine. Stanno aspettando Godot, anche loro, come i due clochard di Beckett?
No. Ben e Gus sono due impiegati, hanno un lavoro. Affine per comicità inconcludente dei dialoghi, linguaggio sbrindellato, non è una messa in scena metafisica, straniata. La pièces di Pinter è tranche de vie di un mondo sconosciuto, squarcio in cui siamo caduti come in un sogno senza sapere il perché e il percome. In Beckett sappiamo fin dal titolo chi stanno aspettando Estragone e Vladimir, anche se poi non arriva. Qui no. L’assurdo si crea e si gioca sul piano inclinato della realtà. Non siamo altrove. Siamo qui e ora.

Quale lavoro, appunto?

Lo scopriamo gradualmente quando Gus fa un’atroce, fosca allusione ad una ragazza spappolata e prima ancora quando i due estraggono e puntano la pistola, spaventati dall’arrivo di una busta, scivolata sotto una porta, e poi dall’irruzione del terzo incomodo, l’intruso misterioso, annunciato con un boato. In questo caso non è una persona ma un oggetto: il calapranzi. Gus ne cava un pizzino. È l’ordinazione del bar soprastante: due brasati con patate fritte. Ne seguiranno altre sempre più astruse: pasticcio di maccheroni, Ormitha Macarounada, un Char Siu con soja ecc.
I due si agitano. Non sapendo e non potendo cucinare, dato che il gas non funziona, mettono nel calapranzi quello che reperiscono nella cartella di Gus: una merendina, un sacchetto di patatine, una bustina di thè… Gridano nell’interfono. Si fermano. Il panico si avvince a momenti di attesa e silenzio. Come sempre in Pinter, il silenzio e l’attesa (l’enigma, il non-senso, il vuoto) sono l’ordito del dramma. I gesti, le parole, i rumori, la trama.
Dario Aita, Giuseppe Scoditti, uno alto l’altro più basso, uno ciarliero l’altro taciturno, diffidenti/solidali, oltre a funzionare a menadito come coppia comica, con i tempi e i movimenti giusti della comicità, rintracciano e sviluppano l’assurdo tipico di Pinter in un crescendo di angoscia con la comicità che si allea all’incombere di una minaccia. Sicari maldestri attendono ad attuare il loro lavoro di killer con crescente, agitata e ansiogena, esilarante indeterminatezza. La rappresentazione non è l’azione ma la sua attesa dispersiva eppure irresistibile. Il pubblico attende con loro, con loro soffre e spesso ride.

Ben riceve l’ordine ma Gus è uscito per bere un bicchier d’acqua. Gus! Gus! Gus non c’è. Ricompare dopo un lungo silenzio: è stranito, curvo, sbrindellato, inciampa, cade. Altro lungo silenzio. I due si fissano a vicenda.

Che cosa è successo? Gus è stato ferito? È moribondo o è solo esausto? Finale aperto: decida lo spettatore!

Il calapranzi di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Roberto Rustioni
con Dario Aita, Giuseppe Scoditti
produzione Teatro Biondo Palermo