Campana e la musica. Un bel catalogo di mostra documentaria ripercorre il tragitto della musica a Firenze negli anni di Dino Campana

@ Antonio Castronuovo, 24 gennaio 2025

Proprio così: Dino Campana – e’ matt, come alcuni lo chiamavano – suonava il pianoforte, o meglio improvvisava pezzi allo strumento. Nell’abitazione di Marradi c’era un pianoforte verticale, che poi a metà Novecento finì venduto. Che suonasse, Dino lo dichiarò durante il ricovero al manicomio di Castel Pulci al dottor Carlo Pariani, il medico psichiatra destinato a diventare il suo primo biografo: «Suonavo il piano nei caffè dell’Argentina, quando non avevo danaro; suonavo nei ritrovi, nei bordelli». Sempre col Pariani, Dino ricordò che a Bologna, quando nel 1913 era studente universitario, aveva ripreso a esercitarsi sullo strumento: «Volevo studiare chimica, ma poi non studiai più nulla perché non mi andava; mi misi a studiare il piano. Un po’ scrivevo, un po’ studiavo il piano. Così finii per squilibrarmi completamente».

Si coglie da questi cenni che era un dilettante della musica, uno che non si applicò mai seriamente, ma questa sua vita da strimpellatore spiega anche perché nei versi cercò sonorità e ritmi secondo un modo assimilabile al comporre musicale, tale per cui la sua poesia non è solo una provocazione spirituale, anche acustica. E quali siano le suggestioni sonore che costellano le poesie viene ricostruito in un gradevole saggio che fa parte del bel catalogo Arco teso, una mostra di documenti, libri, riviste, spartiti che, aperta presso la Biblioteca Marucelliana nella seconda metà del 2024, è diventata anche un bel catalogo di immagini e saggi imperniato sulla vita musicale di Firenze negli anni in cui Campana vi scese col malloppo poetico manoscritto intitolato Il più lungo giorno, consegnato a Papini/Soffici, non restituito, considerato perduto, ritrovato, custodito oggi dalla Marucelliana e pubblicato postumo. Ma mentre si dannava inutilmente per farsi restituire i propri versi, Dino intanto li aveva riscritti – in parte a memoria e in parte grazie ad appunti residui – facendo nascere una delle opere poetiche fondamentali del Novecento: i Canti orfici.

Erano gli anni in cui anche Firenze fu toccata dall’onda del Modernism, l’inclinazione a liberarsi dalle tradizioni credute immutabili e crearne delle nuove, fenomeno che spirava anche sulla vita musicale, all’epoca legata soprattutto all’istituto musicale “Luigi Cherubini” e arricchita da musicisti e compositori come Ildebrando Pizzetti, Edgardo Del Valle de Paz, Felice Boghen, Giannotto Bastianelli, Mario Castelnuovo-Tedesco. Erano anche gli anni in cui il futurismo tentava, con Pratella e Russolo, una nuova via espressiva musicale o rumoristica.

Che spirasse un vento di cambiamento e si volesse rompere col passato, lo prova il lancio della rivista «Dissonanza» che nel 1914 rimase in vita solo per tre numeri ma riuscì a pubblicare brani e pezzi critici di autori con esperienze le più varie: Bastianelli, Malipiero, Pizzetti, Bruno Barilli, per citarne alcuni. Non fu nemmeno esperienza irrilevante: se anche di breve durata e molto eterogenea nei contenuti, l’idea della rivista fu comunque un momento rilevante del distacco che la musica stava realizzando dagli stilemi del tardo Ottocento. E questo accadde anche a Firenze, proprio negli anni in cui il buon Dino vi scendeva dal Mugello, lui poeta che stava innocentemente producendo un linguaggio moderno fatto di un amalgama di suoni e colori, così come appunto stava facendo la musica.

 

Arco teso. La musica a Firenze al tempo dei «Canti Orfici», Vicchio, LoGisma, 2024.