“Amleto²” di e con Filippo Timi: nulla è stabile, tutto si mischia a tutto. È il mondo del teatro o il teatro del mondo in cui viviamo?

Amleto² di e con Filippo Timi: nulla è stabile, tutto si mischia a tutto. È il mondo del teatro o il teatro del mondo in cui viviamo?

@Rinaldo Caddeo, 30 dicembre 2024

Gli attori sono rinchiusi in una gran gabbia da circo che circonda il palcoscenico. Qualche volta escono davanti. A un certo punto Amleto/Timi si arrampica in cima. Gabbia di tigri o gabbia di matti?

Due registri linguistici e recitativi si alternano ma più spesso si contendono la scena, si accavallano, s’intrecciano, cozzano, mandano scintille e a volte sembrano cercare di strangolarsi l’un l’altro in quest’ultima, più stringata, un po’ meno luttuosa ma non meno sconvolgente versione di Amleto² di Filippo Timi.

C’è il registro tragico, serio, grave, nitido, notturno, severo. Il registro shakespeariano di frasi sentenziose tipo: il male è inattaccabile. Si ritira fino a ridursi al suo stesso nulla. Ci osserva come una spia. Con lui si precipita in un abisso, o con aforismi, tipo: nulla è pratico se non tacere, si credono qualcuno perché hanno gli occhi per evitare gli spigoli, o con atti linguistici performativi e profetici, tipo: il teatro è la trappola con cui catturerò la coscienza del re, a proposito della messa in scena dei comici itineranti, deputati a rappresentare la morte del padre.

Le parole, in questo registro, sono pronunciate con una voce lesinata o dilatata, cavernosa, con pause eloquenti, lapidarie, cariche di tensione, toni dissipati, stravolti, furenti alla Carmelo Bene. Lunghi silenzi.

C’è, poi, un secondo registro, il registro comico, affabulante, faceto, frivolo che si alterna o si interpone al precedente. Lo interrompe bruscamente e sull’altro sembra volersi rivalere, capovolgerlo, senza cacciarlo definitivamente, scuoterlo trattenendolo per la collottola. Sembra voler smentire ciò che è stato detto prima o fatto, non accettare più il copione, e lasciare che le battute, identiche nei secoli, vengano contaminate con un’intromissione di Puffi, supermarket e Pinocchio, a folate di impertinente divertissement, di allegro dileggio. La vecchia storia può andare a gambe all’aria, la tragedia evaporare, capovolgersi in burla. Ma i sentimenti stanno lì, implacabili come rocce: l’odio per lo zio, l’amore per Ofelia. La società dei consumi non li abbatte. Non è diversa da quella dello spettacolo, la storia deve andare avanti, la tragicommedia non si ferma.

Amleto, seduto sul trono, dichiara solenne e dolente: siamo tutti topi, topi in trappola. Siamo tutti spacciati. Si fa mettere la corona in testa e poi bacia il suo scudiero.

Dà della puttana alla madre ma poi dichiara che una madre è sempre una madre. E che bisogna volere bene alla mamma. E tutto viene trasceso in danza a suon di walzer del Danubio blu di Strauss. Vestito di nero, con ampia, ondeggiante gonna e candida gorgiera. Vestito femmineo/materno che poi si toglie, facendo riapparire la tunica maschile, la spada in mano con cui gioca o minaccia.

Ci sono tre personaggi femminili. Una simil Marilyn/Barbie, fantasma del padre, di bianco vestita, appare sul palco ridendo, gridando, scuotendo le braccia, capelli biondissimi. Ha provato a cambiare tinta dei capelli, ma è inutile: lei si sente bionda dentro. Lancia al pubblico baci, afferra il microfono, emette ecolalie, trilli, lallazioni infantili, onomatopee seduttive, canta La vie en rose e racconta una storia demenziale riguardo al piacere più grande della sua vita: aver trovato finalmente parcheggio davanti a casa, dove non si trova mai.

Un’Ofelia implorante o evocante la propria fine, una Gertrude vulcanica, cinica, feroce.

Attrici strepitose, Marina Rocco (Marilyn Monroe, nonché spettro paterno), Elena Lietti (Ofelia), Lucia Mascino (Gertrude), che si ritrovano a recitare splendidamente in posture ardite e ardue, spesso improbe. Bravo anche il giovane Gabriele Brunelli che fa Laerte, e pure il comico e il paggio. 

Recita con straordinaria mobilità mimica, versatilità, controllo della voce e del corpo. La sua farsa è veemente, provocatoria, a volte eversiva, urticante. Filippo Timi è un dottor Stranamore dello straniamento estremo, del nulla che diviene qualcosa e di tutto che si fa nulla, dopo. Sotto e sopra, sottosopra, oltre Carmelo Bene. C’è una logica in questa follia? È il mondo del teatro o il teatro del mondo in cui viviamo?

La malvagità incombe su tutte le azioni, su tutte le parole. Una crudeltà tanto per finta quanto senza fine e senza fondo.

Il pubblico acclama, se la gode, applaude, alle battute da Commedia dell’Arte, ride come a uno spettacolo di varietà. È un meritato tripudio per tutti. A volte tace, però, pare attonito, come quando Ofelia evoca la sua morte per annegamento, l’acqua, gravida di fango che arriva al cervello, la pressione che lo fa esplodere. Tutto diventa buio, la pelle di vetro. Non è avanspettacolo.

Sbranato Il testo shakespeariano, Timi interpreta e reinventa Il sarcasmo saturnino e sulfureo di Amleto, strappandolo al milieu elisabettiano, traducendolo in una lingua schizofrenica più attuale, più a noi vicina, raggiunge vette di sublime bassezza/grandezza, sconcerta, facendo ridere anche quando fa paura.

 

Amleto²

uno spettacolo di e con Filippo Timi
e con Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti e Gabriele Brunelli
luci Oscar Frosio

produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana

assistente alla regia Beatrice Cazzaro
direttore di scena Mattia Fontana
elettricista Federico Calzini
cura del suono Emanuele Martina
sarta Giulia Leali
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti