“Il misantropo” di Molière o della virtù di tollerare l’umana imperfezione

Il misantropo di Molière o della virtù di tollerare l’umana imperfezione

@ Lisa Tropea, 26 novembre 2024

foto di Filippo Manzini

 

Il Misantropo è un testo di Molière sull’autenticità delle relazioni umane, sull’ipocrisia della società e sulla possibilità stessa di agire coerentemente coi propri principi morali, specie se innamorati. Nella prima rappresentazione del 1666 Molière stesso interpretò il protagonista, Alceste, che si presenta dalla primissima battuta come integerrimo e deluso dalla falsità dei comportamenti di cui è testimone, ed è tuttavia innamorato di Célimène, la più arguta e affascinante delle pettegole di corte.
Nello spettacolo del Teatro Franco Parenti di Milano vediamo un palcoscenico molto sobrio, con pochissimi oggetti di scena che fanno risaltare gli abiti d’epoca ricchi e colorati. L’interpretazione sottolinea i momenti paradossali e aggiunge un ulteriore sottotesto ironico scegliendo di sottolineare alcuni passaggi nei dialoghi, dove l’interprete crea ulteriori  e gustosi effetti comici grazie a pause e ammiccamenti al pubblico. Il primo atto entra subito nel vivo e ci presenta un Alceste – il convincentissimo e altezzoso Fausto Cabra (l’unico vestito di nero) – deluso dal vecchio amico Philinte per via della sua facilità nel prodursi in manifestazioni affettuose con perfetti sconosciuti, tradendo in qualche modo l’autenticità dell’abbraccio e dell’autentico sentimento di amicizia che ne dovrebbero essere il presupposto. Oltre all’incandescenza idealistica, Alceste mostra i tratti della rigidità e dell’incapacità di non prendere troppo sul serio i difetti altrui. La vita di Corte, con le sue mille finzioni, pose e malcelate derisioni, proprio non si confà alla purezza d’intenti del protagonista, che dichiara di odiare tutti e tutte coloro che si adattano, per convenienza sociale, a queste evidenti falsità e doppiezze, cui lui invece non intende piegarsi, nemmeno quando la sincerità comporta evidenti imbarazzi e dispiaceri, come nell’occasione in cui, con ruvidezza giacobina, dichiara insulsi i versi di Oronte.

foto di Filippo Manzini

Lo sviluppo della trama ci mostra altre due damigelle, ben più virtuose di Célimène, offrire, una dietro l’altra, le proprie grazie ad Alceste, lodandone l’altezza morale e cercando di aprirgli gli occhi sulla doppiezza della sua preferita. Ma senza successo, perché egli ammette che l’amore lo induce a glissare su alcune frivolezze nell’amata, pur manifestamente meno onesta, almeno in apparenza, di quanto pretenderebbe da Alceste.
Nemmeno le benevole alzate di sopracciglia dell’amico Philinte, che nell’interpretazione di Angelo Di Genio acquisisce una saggezza salda e insieme accattivante, nemmeno i suoi tentativi di ridimensionare le mille delusioni dell’amico di fronte a un’umanità imperfetta, valgono a distogliere Alceste dall’idea di abbandonare la società, da cui si sente così lontano, e rintanarsi nell’isolamento.
E quando gli viene disvelata, con prove alla mano, l’abilità di Célimène a fare il doppio gioco, dicendo cose diverse a seconda dell’interlocutore che si trova di fronte, Alceste non riesce a portarle rancore e la chiede comunque in sposa, promettendo di perdonarle il torto, a condizione che lei lo segua nel suo ritiro da tutte le frivolezze e meschinità della vita di corte. L’unico modo, insomma, di averla solo per sé… Ma naturalmente ella rifiuta seccamente di rinunciare alla propria libertà.

foto di Filippo Manzini

La grande considerazione di sé e il desiderio di distinguersi da tutti gli altri lascia infine Alceste solo e senza speranze, poiché anche Eliante, cui egli si volge per un matrimonio di consolazione, non è disponibile ad essere la sua seconda scelta, essendosi infine, e saggiamente, innamorata del più modesto e caloroso Filinte.
L’incapacità di accettare un mondo pieno di difetti, imperfezioni e disillusioni, si rivela dunque incapacità di vivere tout court. Il misantropo finisce per scegliere l’unica via che consente all’uomo di restare puro e incontaminato, ossia chiamarsi fuori dal mondo e rinunciare all’invito di considerare la mancanza di virtù altrui una possibilità per esercitare la propria e accrescerla. Ma il narcisismo di Alceste, come scriveva Lacan nel Discorso sulla causalità psichica, non gli consente di vedere che anche lui “concorre allo stesso disordine contro il quale insorge”.
Non si può concludere senza una nota di merito per la splendida musicalità della traduzione in rima di Valerio Magrelli, che cattura lo spettatore almeno al pari dell’abilità registica e attoriale di questo capolavoro attualissimo di Molière.

IL MISANTROPO di Molière

regia: Andrée Ruth Shammah
traduzione: Valerio Magrelli
con: Fausto Cabra e, in ordine di apparizione: Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Angelo Di Genio, Filippo Lai, Margherita Laterza, Francesco Maisetti, Marina Occhionero, Guglielmo Poggi, Andrea Soffiantini, Maria Luisa Zaltron e la partecipazione di Corrado d’Elia