Kafka, 100 anni dalla morte: il buco nero de “Il Castello”

Kafka, 100 anni dalla morte: il buco nero de Il Castello

@ Rinaldo Caddeo, 19 luglio 2024

«Era sera tardi quando K. arrivò. Il villaggio era seppellito nella neve. Il monte del Castello non si vedeva. Lo circondavano nebbia e tenebre. Neppure il più debole lucore lasciava trapelare il grande Castello. K. rimase a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduce al villaggio, a scrutare in alto nel vuoto apparente».

Nel primo capoverso è racchiuso il senso del romanzo: il suo stimmung. Nebbia, neve, tenebre. Siamo davanti al grande Castello ma non si vede un lucore. K. scruta nel vuoto. Quanto meno vede, tanto più vi guarda.

C’è un dato strutturale che fa di Kafka, in particolare per Il Castello, uno scrittore della reticenza. Non una reticenza episodica che, come in un giallo, tiene nascosto il colpevole, quanto una reticenza visiva e cognitiva diffusa che costruisce una latenza spettrale, un alone che circonda le persone e le cose in un fascino sinistro. Qualcosa di nascosto incombe, spaventoso e ammaliante. Si potrebbe sostituire reticenza con attesa, sospensione, seduzione, angoscia. Tutte queste parole, adatte ai diversi contesti, sono legate insieme, parenti mute di una sola famiglia. Centro vuoto che le smista, interdizione spaesante che le incita, il Castello interroga K. e il lettore. Il Castello è un non-luogo che funge da motore immobile, un buco nero che risucchia vita e luce, facendola ruotare la divora.

Una reticenza ostile alimenta gli sguardi, innesca dialoghi lancinanti. I ragionamenti è come se fossero stirati, commossi, allungati e ritorti.

Rimaniamo in attesa di un Godot che non arriva o che è irraggiungibile. Il protagonista, cercherà di entrare nel Castello per avere un incontro con il mitico Conte di West-West e definire i termini della sua permanenza presso il Castello, ma non ci riuscirà. Oltre a una congrega di personalità minori, conosce i clowneschi aiutanti, Artur e Jeremias, irritanti burloni, agenti insolenti del Castello. Riceve dal messaggero Barnabas la lettera di assunzione di Klamm, alto funzionario del Castello. Conosce Amalia e Olga, sorelle di Barnabas, la loro storia di angherie, emarginazione e indigenza. Diventa l’amante di Frieda, l’addetta alle mescite, precedente amante di Klamm. Ma né Barnabas né Frieda si riveleranno tramiti attendibili per ottenere qualche risposta credibile ai suoi quesiti dai vertici elusivi del Castello. Dopo avere incontrato il sindaco che gli spiega l’inutilizzabilità della lettera di assunzione di Klamm, si adatta alle più umili mansioni, come quella di bidello.

Abbandonato anche da Frieda, si perde nei meandri di corridoi e di monologhi capziosi, accompagnando, infine, il carrettiere Gerstäcker nel buio della sua capanna.

Ennesima reticenza, manca un finale. Il romanzo, come la vita per Pirandello, non conclude.

Quella de Il Castello è un’interruzione brusca. K. sparisce in un inghiottitoio: la capanna di Gerstäcker. La narrazione sfocia nel non-finito come un fiume che s’inabissa. Non è una conclusione ma non è una fine illogica.

Come e più che in precedenti narrazioni di Kafka, non sappiamo in che luogo e in che tempo ci troviamo. Il nome del protagonista, K., è allusione e mutilazione del cognome dell’autore. K. è lo straniero, il cavaliere senza macchia e senza paura, l’ebreo errante, l’ulisside, il don Chisciotte, il Messia, (come suggerisce la critica kafkiana), ma di lui non sappiamo niente: da dove venga, perché si trovi lì, se non che ha ricevuto dal Castello l’incarico di agrimensore.

C’è la reticenza dei potenti, la casta dei funzionari del Castello, che non dicono niente, tra poche e scarne comunicazioni scritte, di chiaro e definito. C’è la reticenza dei sottoposti del villaggio, dettata e dominata dalla paura.

Nel romanzo precedente, Il processo, la reticenza fondamentale è il capo d’accusa ovvero il reato di cui sarebbe colpevole il protagonista. Reticenza che ottiene l’effetto di dilatare un reato ignoto in colpa, nonché in senso di colpa e alla fine in sentimento di vergogna.

Ne Il Castello la reticenza fondamentale è il castello stesso. Tutti ne parlano o alludono a esso ma nessuno sa o vuole dire dove sia, come sia, che cosa sia, chi lo abiti, come si possa raggiugere, quali siano i suoi confini e la sua giurisdizione.

Ci sono due descrizioni, nel I e nell’VIII capitolo.

In queste descrizioni il Castello appare un complesso di basse costruzioni. Spunta e si profila una torre, coperta di edera, che emerge da un’accozzaglia di case rustiche dai muri scrostati. L’aspetto architettonico del Castello, oltre che deludente, è evanescente e sembra sul punto di sgretolarsi. Chi lo guarda riceve l’impressione di essere osservato da ciò che osserva, un misterioso spettatore che ti guarda ma che non puoi vedere. Il Castello è intimidatorio e inguardabile: “gli sguardi dell’osservatore non potevano fissarsi e scivolavano via”. Tanto è vero che annega nella penombra.

Tutta la vicenda labirintica dell’agrimensore K. dà l’idea di uno spazio metamorfico che affonda in se stesso. I personaggi si perdono nella neve, nei corridoi o tra le carte. K., dopo aver trascorso la notte nella Locanda del Ponte, cercando di raggiungere il castello, sprofonda nella neve, senza riuscire ad andare né avanti né indietro. Lo stesso aspetto fisico dei personaggi spesso risulta vacillante, come nel caso di Klamm che cambia a seconda del luogo in cui si trova, tanto da mettere in dubbio la sua identità. Già Gershom Scholem, a proposito di Kafka e delle sue opere, parlava di “una vita che sprofonda in se stessa”.

Nel III capitolo, Frieda, mentre fa l’amore con Frieda, tra pozze di birra e il sudiciume del pavimento dell’Albergo dei Signori, il protagonista, oltre che per gli altri, diventa lo straniero di se stesso: «K. aveva la sensazione costante di smarrirsi o di essersi inoltrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui, in un paese dove l’aria stessa non aveva un solo elemento in comune con l’aria del paese natale, dove il sentimento di estraneità toglieva il respiro e tuttavia non si poteva fare altro, in mezzo a quelle seduzioni insensate, che andare avanti e smarrirsi ancora di più». L’amore non è incontro e condivisione ma seduzione insensata, estraneità assoluta.

Ne Il Castello c’è la prospettiva costante di uno spazio-tempo che più avanza la quête di K., più l’obiettivo si allontana, eclissandosi nei paesaggi ambigui o nelle distanze anguste ma inesauribili degli interni del villaggio, nella claustrofobia delle camere, nei recessi dei corridoi, nei dialoghi, a volte mancati, a volte circonvoluti, carichi di intrighi, insomma, in un’estraneazione senza ritorno.

 

Tra le più recenti e interessanti traduzioni/letture:

Franz Kafka, Il castello, traduzione di Alessandra Iadicicco, Il Saggiatore, Milano 2023.

Franz Kafka, Il Castello, traduzione di Elena Franchetti, BUR, Milano 2005.

Franz Kafka, Il castello, traduzione di Paola Capriolo, Einaudi, Torino 2002.