“La locandiera” al Piccolo di Milano: una rivoluzione del canone rappresentativo di uno dei classici della commedia italiana
@ Rinaldo Caddeo, 24 febbraio 2024
Nell’epicentro della sua vasta produzione teatrale, al culmine della sua riforma del teatro comico, a metà del XVIII secolo, Goldoni crea La Locandiera. La prima rappresentazione risale al 26 dicembre 1752, al teatro Sant’Angelo in Venezia, con la Compagnia Medebac. È subito un successo sia di critica sia di pubblico che non subisce battute d’arresto e si protrae per più di due secoli e mezzo, fino ai nostri giorni. Un caso più unico che raro. Come è stato possibile?
Non c’è una risposta univoca.
In primo luogo, dipende dalla personalità della sua protagonista: energica, vitale, coraggiosa ai limiti della temerarietà, ma anche calcolatrice, ambigua, menzognera. Mirandolina, la locandiera, risulta sia falsa sia sincera, sia fraudolenta sia onesta, sia infida sia leale, sia sottomessa sia dominatrice, sia astuta sia ingenua, sia seria sia civetta ecc. Questa duplicità è stata una calamita e ha inevitabilmente portato molti suoi critici e interpreti, con posture diverse, a disporsi a un polo o al polo opposto o, con più difficoltà, al centro della sua ambivalenza.
Goldoni ne è consapevole e spiega in una nota introduttiva, L’AUTORE A CHI LEGGE, tra il serio e il faceto, il meccanismo della seduzione della locandiera: «Mirandolina fa altrui vedere come s’innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l’avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui veggendo scemare la ruvidezza, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch’ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover’uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l’arresta, e con uno svenimento l’atterra, lo precipita, l’avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali siano le arti loro, e dove fondino la speranza de’ loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi dell’inimico».
Occorre dire che la strategia della seduzione ingannevole di Mirandolina non è o non è soltanto azione gratuita, fine a se stessa, gioco perverso di una Sirena incantatrice.
Nasce da una teatrale sfida: «È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia già trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. […] voglio usar tutta l’arte, per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.» (Atto primo, Scena Nona). È dentro questa sfida seria e comica, umoristica, in senso pirandelliano, che germoglia la strategia di Mirandolina.
Inoltre il funzionamento oppositivo e conflittuale delle coppie (il Marchese e il Conte, Ortensia e Dejanira, ma poi anche il Marchese e il Cavaliere, Mirandolina e Fabrizio ecc. oltre che Mirandolina e il Cavaliere) fa sprizzare scintille irresistibili di ironia che alimentano un fuoco soffuso ma costante di comicità.
Infine in questa come in molte altre commedie di Goldoni o come nei libretti mozartiani di Da Ponte, la lingua toscana sgorga schietta, cristallina, ammaliante in una pungente e inesauribile colloquialità, come acqua di fonte, ancora perfettamente godibile quasi tre secoli dopo.
Sarà nel secolo successivo, con il Romanticismo, sia per la lirica sia per la prosa, che le cose si complicheranno tremendamente e Manzoni dovrà andare a sciacquare i panni in Arno per cercare il lessico corretto e per trovare le giuste intonazioni.
Lo spettacolo di Latella rivoluziona il canone della rappresentazione e nello stesso tempo riesce a collocare Mirandolina al centro dell’ambivalenza. Non è tanto il vedere un Marchese in jeans e maglioncino o un Conte con il cappellino a tesa lunga o un Cavaliere con le infradito o Mirandolina in un candido déshabillé, ma sono i ritmi sincopati, la mimica, la gesticolazione, le accelerazioni, le urla improvvise, i rallentamenti, le pause prolungate, abissali, con l’intromissione di brani di musica elettronica o jazz, a sconcertare e a incatenare l’ascolto e l’attenzione. Il testo arcaico, divenuto archetipico, si fa centro energetico di scansioni che generano assetti nuovi, sfumature inattese, insolite vibrazioni.
Un testo classico è uno spartito musicale a cui la regia e gli attori donano corpo, pelle, cuore, voce, movimento. Non è una maschera di ferro ma una stanza da illuminare e abitare, un corpo in cui insufflare un’anima. Le note, gli accordi, cioè le parole, le frasi, sono gli stessi nel tempo ma possono, dovrebbero anzi essere, ogni volta, giocati e legati, teatralizzati, in modo diverso.
Arredamento, vestiti, stile di recitazione dello spettacolo allestito da Latella sono più post-moderni che moderni, astratti e concreti insieme. Né il testo di Goldoni prescrive come devono essere pronunciate le battute o arredate le scene o come devono essere vestiti gli attori. È una certa tradizione, para o pseudo-filologica che ha abituato l’occhio dello spettatore ad accogliere gli arredi, gli usi e i costumi di un’altra epoca e l’orecchio a sentire un modo vetusto o arcadico di recitare.
Il regista reinventa la filologia. Qui le forme di recitazione, l’ambientazione, i vestiti sono nuovi, attuali. È attuale il messaggio che Latella e i suoi attori ci comunicano attingendo ai portati di Massimo Castri e di Pina Bausch. Ma è un’attualità scavata nei filoni di una miniera linguistica inesauribile, una testimonianza antica e ancora viva, riportata alla luce.
È come se gli antichi paludamenti fossero stati lacerati e fossero sbucati gli stessi personaggi ma nudi nella loro autenticità drammatica. È come se i personaggi fossero stati denudati per mostrare qualcosa di nascosto che la sfida di Mirandolina tira fuori, nasconde ed esibisce. Movimenti dissintonici, spasmi, ridde, gridi, urti, risate feroci, balbettii, oggetti simbolici (le asticelle dello shanghai, tazze, piatti, fazzoletti, bottiglie, bicchieri, mele sbucciate, ecc.) con una gestualità che li accudisce ripetitiva e nevrotica, tra finzione e realtà, innescano il punto in cui si trova la verità del teatro, un verità altra, che non cancella la perspicuità del testo letterario, anzi, mettendola sotto una nuova estranea luce, spostandola altrove, la evidenzia, quasi, la moltiplica.
È stato un altro uomo di teatro, Luigi Squarzina, a parlare di «qualcosa di irriducibilmente altro, un abisso extra-storico, una attrazione e un terrore delle contraddizioni di fondo dell’esistenza nelle quali Goldoni, si direbbe con delizia pari all’angoscia, immerge i suoi personaggi cercando di ritrarli fuori prima che la crisi, o meglio le crisi, diventino irreparabili.» (Luigi Squarzina, Goldoni come Strindberg ed Euripide, in Il punto su Goldoni a cura di Giuseppe Petronio, Laterza, Bari 1986, p.189).
Non solo Sonia Bergamasco (Mirandolina) fa una formidabile prova d’attrice, con quella (ancora più convulsa e sfrangiata) mobilità del corpo, del volto, dei toni, dei timbri della voce, già sperimentata ne Le avventure della villeggiatura sempre di Goldoni (regia di Massimo Castri), ma anche gli altri attori sono all’altezza del cimento.
Applauso, lungo e meritato, alla fine dello spettacolo.
LA LOCANDIERA di Carlo Goldoni
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa
dramaturgia Linda Dalisi
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente alla regia Marco Corsucci
assistente alla regia volontario Giammarco Pignatiello
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Al Teatro Strehler di Milano dal 20 febbraio al 3 marzo