La tragedia del ripudio. “Gerico Innocenza Rosa” al Maggiore di Verbania
@ Amedeo Ansaldi, 15 novembre 2023
Dopo diversi anni in cui è stata impegnata prevalentemente in sceneggiati televisivi di successo (Anita Garibaldi, Il Commissario Maltese, Rocco Schiavone, L’Alligatore), Valeria Solarino è tornata a quella che probabilmente è la sua vocazione più autentica, la scena teatrale, cimentandosi in un monologo dell’autrice e regista Luana Rondinelli. Il 10 novembre 2023 l’attrice ha recitato, in un incalzante assolo, Gerico Innocenza Rosa, testo crudele e asciutto vergato con impeccabile professionalità e centrato sul tema dell’identità di genere, presso il Teatro Maggiore di Verbania.
Valeria Solarino aveva già impersonato in passato, con ammirevole sorprendente credibilità, un ruolo maschile, quello di Palamede, infelice e misconosciuto eroe della mitologia greca, figura magistralmente introdotta, in quell’occasione, da Alessandro Baricco; nel caso presente, conferma le sue non comuni doti calandosi, con eccezionale capacità di immedesimazione, nel personaggio di Vincenzo – uomo che si sente donna, o meglio: donna che vive e soffre in un corpo maschile – offrendo al pubblico un’interpretazione ipnotica, di rare efficacia e drammaticità.
La scena (a cura di Ortiche Spazi), sobria e quasi spartana, è caratterizzata da due semplici piani inclinati sui quali l’unica interprete evoluisce abilmente, grazie anche a invidiabili doti ginniche.
Spicca sul palco una vecchia valigia luminosa, forziere di care e crude memorie.
Le musiche di Massimiliano Pace, puntuali e calzanti, ora evocative, ora aperte a squarci di forte drammaticità, sottolineano gli snodi cruciali del racconto. Ottimi anche i costumi di Alessandro Lai e perfettamente sincronizzato allo svolgimento della narrazione il disegno luce di Daniele Savi.
Il copione ripercorre, narrate in prima persona, le tappe dell’esperienza contrastata e infelice di Vincenzo, dapprima bambino e adolescente sgomento per la sua diversità emotiva e sessuale, a fatica dissimulata, e presto vittima di atti di brutale e gratuita prevaricazione da parte dei coetanei ‘normali’, infine essere umano, in senso lato, consapevole della sua condizione di donna costretta in un corpo maschile, alieno.
L’attrice si esprime, come esige il testo, in un dialetto siciliano non stretto, quindi – quasi – pienamente comprensibile, dando principalmente voce alle tre protagoniste della storia: una madre volgare e offensiva, donna conformista che subisce supinamente le stringenti costrizioni della società a cui vuole appartenere in tutto e per tutto e che, dipendendo totalmente dal giudizio degli altri, non ha altra preoccupazione che di prevenirne gli strali, arrivando a invitare il figlio a soprassedere agli insulti e atti di bullismo di cui è quotidianamente vittima; la nonna Innocenza, di ben altra tempra e dal passato infelice, a lungo vittima della violenza domestica del marito, la quale intuisce prima degli altri il dramma del nipote (che fa di nascosto uso di rossetto e mascara) e lo difende contro tutti, in primis la sua stessa figlia, e non manca di ricordare a Vincenzo (lei che nutre molti rimpianti per la strada sbagliata che un giorno imboccò per inesperienza, credendo esservi emancipazione nel matrimonio) che – certo, in una prospettiva futura, in un mondo, per lei, di là da venire – “il cielo è grande e c’è posto per tutti”; e naturalmente il narratore, il cui cammino verso la libertà sarà impervio e faticoso, scandito da umiliazioni e violenze fisiche come psicologiche, ma infine compiuto come in tutti i Bildungsroman (sofferte storie di formazione interiore). L’attrice dà voce anche a semplici comparse – cugini, compagni di scuola, vicini di casa che hanno intuito il doloroso segreto del protagonista, simboli efficaci e osceni del più vieto conformismo sociale.
Nell’inquieto, incalzante flusso di coscienza, nel quale si alternano sommessi ricordi e disperati scoppi d’ira troppo a lungo repressi, e che coinvolge emotivamente lo spettatore, Valeria Solarino, con la capacità mimetica delle grandi interpreti, sa immedesimarsi anima e corpo nei vari personaggi, proprio come se ne condividesse, in profondità, le motivazioni – per sordide e meschine che siano.
D’altra parte, la figura scostante, ottusa, indegna della madre, contraltare della amata nonna, è rievocata da Vincenzo senza rancore né giudizi inappellabili; nello spettatore suscita legittimo sdegno, ma alla fine prevale, in un’ottica di rigorosa contestualizzazione che esclude qualsiasi facile manicheismo, l’umana pietà.
La repressione di cui il ragazzo è vittima incolpevole parte infatti da molto più lontano; è il frutto avvelenato di una tradizione radicatasi nella società nell’arco di intere generazioni. Velleitario quindi sarebbe limitarsi a condannare i suoi spregevoli interpreti, spavaldi e sprezzanti sulla scena: nella loro violenza fisica e verbale essi non sono, a ben vedere, che docili inconsapevoli strumenti di pregiudizi che si trasmettono e perpetuano di padre in figlio e che sopravvivono, in modo strisciante, anche quando siano ufficialmente banditi, come accade al giorno d’oggi – l’età del politically correct, che, se esclude e punisce la aperta discriminazione, ancora concede il più ampio margine all’esercizio dell’ipocrisia: quel che è cacciato dalla porta rientra destramente dalla finestra.
Il tema trattato dallo spettacolo è, indubbiamente, quello dell’identità di genere, tuttavia l’interpretazione vissuta e trascinante di Valeria Solarino, sostenuta da un profondo istinto drammatico, conferisce alla rappresentazione significati più ampi: è un invito rivolto a tutti, senza eccezioni, a essere – o, ancor meglio, a diventare – sé stessi, a perseguire tenacemente il riscatto della propria identità negata al di fuori di qualsiasi condizionamento esterno.
I diversi stadi della transizione attraverso cui passa il protagonista sono suggeriti, senza peraltro essere enfatizzati didascalicamente, anche dalla calzatura indossata (o dalla mancanza di calzatura): scarpacce da uomo, piedi nudi, scarpe col tacco.
Al di là della riuscita estetica – indubbia – lo spettacolo vuol essere insomma un’esortazione, prontamente raccolta dal pubblico in sala, a una riflessione etica su un tema delicatissimo; a considerare e rispettare sempre la persona al di là degli stereotipi, il più tenace dei quali resta proprio il sesso di appartenenza.
Vincenzo vive la tragedia del ripudio, contrastato ma ineludibile, del ruolo assegnatogli d’ufficio dalla società, non per gratuita volontà di rivolta, ma per un disperato insopprimibile bisogno di essere stesso. La sua dignità di persona è negata fra le stesse mura di casa, dai suoi stessi congiunti; ed è il rapporto con la madre, insofferente dell’effeminatezza del figlio e spaventata dalle prevedibili reazioni del mondo circostante, il più difficile e doloroso: i due restano divisi lungo tutta la durata dello spettacolo (un’ora circa) da lunghi ostili silenzi e fraintendimenti quotidiani.
Solo alla fine, al tramonto della sua vita sbagliata, ormai malata di Alzheimer, l’anziana genitrice, a un’infermiera della casa di cura nella quale è ricoverata che le chiede chi sia la bella ragazza che viene tanto spesso a trovarla, in un accesso più grave di demenza, o piuttosto in un soprassalto di lucidità, risponderà: “Gerico Innocenza Rosa, mia figlia”, chiamando Vincenzo, il piccolo che portò nove mesi in grembo, con il nome e il titolo che davvero gli spettano: Innocenza, come la nonna indimenticata; e Rosa, il colore del fermaglio che essa, presaga, gli metteva fra i capelli.
Il pubblico ha accolto l’epilogo con un interminabile e convinto applauso, durante il quale Valeria Solarino ha avuto modo di invitare a salire sul palco, per ricevere la sua meritata parte di acclamazioni, la – pur riluttante – autrice e regista Luana Rondinelli, presente in sala.
Gerico Innocenza Rosa
con Valeria Solarino
scritto e diretto da Luana Rondinelli
scene Ortiche spazi in Scena
costumi Alessandro Lai
musiche Massimiliano Pace
disegno luci Daniele Savi