Fare la differenza si può (e non si sbandiera ai quattro venti). La storia vera di Nicholas Winton
@ Lisa Tropea, 28 dicembre 2023
Viene da chiedersi, andando a vedere un film imperniato sulla Seconda Guerra Mondiale, se non sia già stato detto tutto e il contrario di tutto su quel periodo storico, che tanto ha forgiato l’identità europea contemporanea. Parimenti però non si può non avvertire il rischio della perdita della memoria, nella nostra epoca così abbarbicata all’immediatezza e quasi condannata all’eterno presente della narrazione dei social media: non è forse compito anche dei cineasti custodire e ribadire gli eventi del passato alle nuove generazioni? A maggior ragione oggi, davanti alla scomparsa fisica, per ragioni anagrafiche, di tutti i testimoni oculari non solo della Shoah, ma anche della resistenza, della propaganda, della mancanza di libertà, dell’incapacità di tanta parte della popolazione a rendersi conto di quel che stava succedendo, della banalità del male e delle conseguenze cui ha portato l’abitudine a subire impassibili quanto imposto dai regimi.
Il film narra di come un uomo benestante nella Londra del 1939 abbia salvato la vita a quasi 600 bambini cecoslovacchi di famiglie ebraiche, salvandoli dal destino dei campi di concentramento, appena prima dell’invasione tedesca del paese, trasportandoli nel Regno Unito e facendoli adottare da famiglie inglesi. La memoria di tutto questo era custodita in un registro, con nomi e cognomi e fotografie dei profughi minorenni, in una borsa che il fautore di questi rocamboleschi viaggi per la sopravvivenza aveva sepolto nel suo studio di accumulatore seriale. Si chiamava Nicholas Winton e doveva partire per una settimana bianca con una scolaresca, in supporto a un suo amico che faceva l’insegnante (questo lo si apprende meglio leggendo il libro da cui è tratto il film, scritto dalla figlia di Nicholas, Barbara); ma quando questo stesso amico gli chiede di accompagnarlo, in alternativa alla settimana sugli sci coi suoi alunni, in Cecoslovacchia per toccare con mano la realtà di tante famiglie ebraiche rifugiate in campi di fortuna a Praga, egli accetta di buon grado di cambiare destinazione e rendersi conto lui stesso di quanto grave fosse la situazione. Una volta rientrato a Londra, il giovane Nicky (interpretato da un sorprendentemente garbato e contenuto Johnny Flynn) si attiva immediatamente per espatriare in Inghilterra quanti più bambini possibile. E ci riesce, con l’aiuto della madre, una incisiva Helena Bonham Carter che in più di un’intervista ha sottolineato l’originalità del ruolo non solo di madre ma anche di collaboratrice del figlio in un’impresa umanitaria, in un rapporto fuori dalle classiche dinamiche familiari ma finalizzato a uno scopo più alto, in cui Babette Winton si confronta con una dimensione più istituzionale e professionale che intimistica.
Ma la parte più sorprendente del film è scoprire come il salvatore di tante vite avesse tenuto per sé questo pezzo di attività giovanile e non la considerasse se non deficitaria, per il fatto che avrebbe voluto fare di più e che non aveva potuto terminare la sua missione per l’improvvisa invasione di Praga da parte dei nazisti. La modestia e l’umanità del personaggio interpretato da Anthony Hopkins, il Nicky Winton degli anni ’80, un uomo anziano e riflessivo, spesso perso in pensieri e ricordi, restano davvero impressi nella memoria. Il suo sentire di non aver fatto abbastanza, pur essendo riuscito nell’impresa di far salire centinaia di bambini sui treni per l’Inghilterra invece che su quelli per i lager nazisti, è commovente e interpella la coscienza di tutti noi.
Il regista britannico James Hawes è al suo esordio nel lungometraggio cinematografico, ma mette a frutto la sua lunga esperienza in ambito televisivo (dove, tra l’altro, ha ricevuto riconoscimenti per alcune puntate della prima serie di Doctor Who): un sapiente utilizzo della camera a spalla durante le giornate di Nicky nei campi profughi a Praga ci avvicina al punto di vista dei giovanissimi fuggitivi e umanizza la descrizione, portando lo spettatore al centro vibrante della scena, ma anche le soggettive del signor Winton anziano, quando guarda dalla sua stanza il giardino della sua bellissima casa inglese mentre pensa a chissà quale dei bambini “perduti”, ci portano dentro il punto di vista di quest’uomo che vuol fare ordine nella sua vita e che decide di fare finalmente pulizia nel suo studio, esaudendo un desiderio della moglie ma senza trovare davvero pace. Fino a che la sua opera non viene riconosciuta, fino a che il cerchio non si chiude e quel libro mastro con nomi e indirizzi non trova posto tra le mani di una storica, che resta sbigottita dell’impresa, e Nicky riesce infine a realizzare che tanti di quei ragazzi strappati dalle loro famiglie a Praga, senza quell’incontro con quel giovane mite e speranzoso, con ogni probabilità non sarebbero qui a raccontarlo. Non vale davvero la pena di rivelare la scena più toccante del film, che va gustata con calma e climax. Ma l’umiltà di questo personaggio resta attaccata al cuore, un uomo che ha davvero fatto la differenza per centinaia di persone (alcune delle quali hanno poi fatto parte del cast e collaborato nel film a diverso titolo) e non lo ha quasi nemmeno confessato a se stesso, figuriamoci vantarsene con altri. Davvero il contrario dell’iperesposizione cui siamo abituati ultimamente e decisamente un altro modello di “eroe” rispetto al combattivo Liam Neeson di Schindler’s list. Un’autenticità e una discrezione dei sentimenti che ha da insegnare, in ogni ruga di Anthony Hopkins. E no, non si è ancora detto tutto della Seconda Guerra Mondiale.
One Life
Un film di James Hawes
Con Anthony Hopkins, Helena Bonham Carter, Johnny Flynn, Jonathan Pryce
Durata 110 minuti
Nelle sale italiane dal 21 dicembre