Voci dall’Olocausto. “Sai che tornerò. Tre grandi scrittrici ad Auschwitz” di Mercedes Monmany, Somara!Edizioni
@ Amedeo Ansaldi, 11-07-2022
Somara! Edizioni è un progetto, partito nel 2018 dietro iniziativa e impulso dell’Associazione di Promozione Sociale ‘Sentieri sterrati’, che si prefigge di far emergere e promuovere scrittrici, artiste, intellettuali, e insomma tutta quella cultura femminile che nel nostro Paese è ancora, in larga misura, sommersa o misconosciuta. Esemplare, nel tentativo di ridurre tale – colpevole – ritardo, la pubblicazione (aprile 2022) di Sai che tornerò. Tre grandi scrittrici ad Auschwitz, della critica letteraria e saggista spagnola Mercedes Monmany. Il libro, testimonianza umana prima ancora che saggio storico-letterario, è tradotto da Sonia Manfrecola, mentre la prefazione italiana, partecipe e puntuale, reca la firma della nota scrittrice e accademica Nadia Fusini.
Sarebbe sbagliato pensare che il testo si rivolga esclusivamente a un pubblico di genere; la ricostruzione delle tragiche esistenze delle tre grandi scrittrici e la descrizione vivida e circostanziata dello sfondo storico sul quale esse si svolsero possono essere lette con altrettanto profitto da chiunque: si tratta di un libro che, partendo dalle vite di donne (e accessoriamente uomini) che hanno lasciato una traccia profonda del loro passaggio nel mondo, entra concretamente nel cuore di vicende dalle quali ci separano – e non sembrerebbe – meno di ottanta anni: una lettura coinvolgente, che emoziona, scuote, sconvolge, trasforma e in definitiva ci fa comprendere, in modo forse più efficace di tante commemorazioni, che cosa sia stata la Shoah – almeno se risponde al vero il concetto per cui nessuno è in grado di conoscere un fenomeno meglio delle sue vittime.
Il libro, corredato da splendide foto, ritratto delle tre donne e di tanti altri protagonisti della vita culturale del tempo, è incentrato sulle figure nodali della diarista Etty Hillesum (1914-1943), della poetessa Gertrud Kolmar (1894-1943) e della romanziera Irène Némirovsky (1903-1942), ma nel corso della narrazione incontriamo molti altri importanti interpreti dell’epoca che furono, ciascuno a suo modo, segnati dalla tragedia epocale della Seconda Guerra Mondiale e, segnatamente, della Shoah: eminenti scrittori e intellettuali come Joseph Roth, Stefan Zweig, Walter Benjamin (cugino di primo grado di Gertrud Kolmar), Arthur Koestler, Elias Canetti, Georges Perec, Danilo Kiš, Martin Buber, Paul Celan, Alfred Döblin, Max Jakob, Primo Levi; registi cinematografici come Fritz Lang; donne (in qualche caso adolescenti, dalla fortuna postuma più o meno grande) che hanno lasciato vibranti testimonianze della loro esperienza quali Edith Stein, Anne Frank, Simone Weil (la famosa filosofa e mistica francese morta in esilio in Gran Bretagna nel 1943), Hannah Arendt, Milena Jesenska (già fidanzata di Franz Kafka), Clarice Lispector, Simone Weil, Ana Novac, Ruth Klüger, Germaine Tillion, Ilse Aichinger; e perfino un geniale adolescente, diarista e disegnatore, da riscoprire e rimpiangere, come Petr Ginz, assassinato ad Auschwitz all’età di 16 anni. Non facciamo ovviamente tutti i nomi, ma basterebbe l’importanza di quelli testé citati a suggerire la portata della tragedia, non solo dal punto di vista umano, ma altresì culturale.
In tutte le protagoniste, anche nelle adolescenti come Anne Frank, è presente la consapevolezza di attraversare in prima persona, nella civilissima Europa del XIX secolo, una parentesi di orrore ineguagliato: l’esperienza terribile e straordinaria, pressoché indicibile, di ritrovarsi da un giorno all’altro, inopinatamente, straniere in patria, nella propria stessa città; di assistere al crollo del mondo nel quale si era fin allora vissuti, non già come semplici testimoni, ma come coloro sulla cui testa rovinano le macerie; di conoscere un’atroce iniziazione alla vita e alla morte ai confini dell’assurdo che, almeno nelle sopravvissute (e non è il caso delle tre protagoniste del libro), sarebbe rimasta scolpita per sempre nel ricordo.
Hanna Lévy-Hass, fra le poche superstiti a Bergen-Belsen (e madre di Amira Hass, la nota giornalista israeliana vicina alla causa palestinese), annoterà nel suo Diario, fortunosamente vergato all’interno del campo su pezzi di carta rimediati qua e là: “Ho passato molto tempo a pensare; sto imparando molto in mezzo a questa miseria, capisco molte cose della vita che prima mi sfuggivano.” E Anne Frank, dal suo malcerto rifugio di Amsterdam, scriveva: “Ho vissuto qualcosa di cui nessuno della mia età ha fatto esperienza.”
In Sai che tornerò la catastrofe è per lo più incombente, sottaciuta; la barbarie della Shoah traspare non grazie al racconto degli atti di inaudita ferocia di cui le vittime poterono raramente lasciare testimonianza diretta, ma attraverso l’angoscia implicita che accompagna l’attesa di un destino inappellabile.
Va d’altra parte riconosciuto che, al di là di qualche oscuro presentimento, quasi nessuno, neanche fra gli ebrei, era preparato ad affrontare un programma di sterminio così vasto e capillare, che superava qualsiasi umana immaginazione: il solo termine di paragone che il passato poteva offrire erano i cosiddetti pogrom, periodi connotati da violente esplosioni di rabbia popolare, caratteristiche in primo luogo dei Paesi dell’Est Europa, talvolta spontanee, più spesso fomentate ad arte dalle stesse autorità locali.
Non tutti gli ebrei che descrissero le proprie vicissitudini di perseguitati erano scrittori per indole e formazione; molti lo diventarono sotto l’impulso degli eventi, nell’estremo tentativo di attestare e tramandare l’orrore o nel momento stesso in cui essi si svolgevano o, nel caso di diversi sopravvissuti, a distanza di anni, o perfino di decenni. Ruth Klüger, per es., deportata a Terezin a soli 11 anni di età prima di essere trasferita ad Auschwitz, pubblicherà le sue memorie solo nel 1992. In un passaggio del libro, l’autrice illustra con estrema lucidità la fondamentale diversità di significato che corre fra l’essere stati deportati nell’infanzia (o adolescenza) o da adulti, differenziando nettamente la propria esperienza personale da quella, per es., di un Primo Levi. Come riporta Mercedes Monmany:
Proprio una delle questioni che, come dirà la stessa Ruth Klüger nel suo libro, l’avrebbero distinta da adulti che sopravvissero ai campi come nel caso di Primo Levi, è il non aver vissuto molto tempo nella vecchia e solida civiltà: «Levi arrivò ad Auschwitz con la sicurezza di sé dell’europeo adulto, completo, solidamente radicato, spiritualmente inserito nel razionalismo e geograficamente nella sua patria italiana. Per me, ancora bambina, la cosa era diversa, poiché nei pochi anni in cui ero esistita come persona cosciente, mi avevano tolto a poco a poco il diritto alla vita, cosicché per me Birkenau non era privo di una certa logica…»
Tutti i racconti dei sopravvissuti convergono nell’individuare due aspetti, sempre presenti, di una prigionia terribile e bifronte: da un lato catene di solidarietà fra parenti, conterranei, compatrioti, fino alle amicizie meravigliose e commoventi che si instauravano fra sconosciuti che non parlavano nemmeno la stessa lingua; dall’altro l’egoismo inscalfibile di chi, catapultato in un inferno indecifrabile, voleva sopravvivere a ogni costo, anche a quello di passare sul cadavere degli infelici compagni di sventura. Per inciso, quello dei Consigli Ebraici, istituiti in tutti i Paesi invasi dai nazisti, resta una delle pagine più dolorose e controverse della Shoah: i cinici incentivi al collaborazionismo, cui taluno cedeva; le divisioni create ad arte fra ebrei provenienti da aree geografiche lontane; ebrei fedifraghi che si ritagliavano le loro piccole, effimere porzioni di potere al servizio dei carnefici. (Del caso di Adam Czerniakov, leader del Consiglio Ebraico del Ghetto di Varsavia nel momento forse più tragico della persecuzione, avevamo già parlato in altra occasione: https://www.articolo21.org/2021/02/lantisemitismo-dal-mito-cristiano-alla-soluzione-finale-passando-per-shakespeare/).
I rari superstiti dovranno tutti, in un modo o nell’altro, la loro sopravvivenza, oltre che al caso, alla fortuna o all’eccezionalità della tempra, a quel residuo di umanità che era rimasto a loro e a quelli, meno fortunati, che ne avevano condiviso la sventura e li avevano sorretti, vuoi moralmente, vuoi dividendo con meravigliosa generosità il pochissimo pane. In molti fra i sopravvissuti rimarranno per il resto della vita il rimorso e la vergogna per non aver fatto la stessa fine degli infelici fuggevolmente incontrati in quel luogo di tortura e morte quotidiane.
Vi sono, è bene sottolinearlo, aspetti che accomunano le tre protagoniste del libro: la pressoché totale assimilazione sociale e culturale all’Occidente laico; il recupero delle radici ebraiche solo a persecuzione in atto (fa eccezione la Némirovsky, che non si sentì probabilmente mai ebrea); il rifiuto, nella piena consapevolezza della ineluttabilità della sorte, a sfuggirvi pur avendone la concreta possibilità, vuoi per non abbandonare parenti o amici, vuoi per una inderogabile questione di principio; nonché, ovviamente, la morte ad Auschwitz. Tutte e tre hanno raccontato, ciascuna a suo modo, nella loro opera e nelle lettere giunte fino a noi, gli eventi che hanno preparato l’orrore dell’ultimo capitolo della loro vita, del quale non abbiamo testimonianza diretta e che possiamo ricostruire solo sulla base di documenti lacunosi e talora discordanti e di quanto abbiamo saputo poi, più in generale, sui campi di sterminio. Parlavano tutte a un futuro dal quale – e non lo ignoravano – sarebbero state bandite; le loro sono pagine che si rivolgono, anche e principalmente, a noi uomini del XXI secolo – almeno a quanti fra di noi hanno la forza di ascoltarle: esercizio di verità non necessariamente grato, ma che ripaga e arricchisce umanamente chi lo compie.
Detto questo, le vicende personali delle tre scrittrici hanno caratteristiche e risvolti fra loro molto dissimili, ben individuati, che però in certo modo assurgono, pagina dopo pagina, a valore universale: con la loro narrazione e documentazione restituiscono voce a milioni di volti anonimi dei quali hanno condiviso un crudele destino.
Le testimonianze provenienti dai campi di sterminio, che pure non mancarono, si scontreranno nell’immediato dopoguerra con la disinvolta, frettolosa, strisciante incredulità di gran parte del pubblico e di interi popoli restituiti dopo anni di guerra e di privazioni alla ‘vita normale’ e soltanto ansiosi di – in qualche caso direttamente interessati a – dimenticare le pagine sgradevoli del loro recente passato. L’erosione progressiva della memoria collettiva, coniugata con il persistere e l’insostenibilità del ricordo personale, indusse forse diversi sopravvissuti, anche a decenni di distanza, a togliersi la vita come estremo atto di protesta. Da citarsi, fra queste possibili vittime collaterali e tardive della Shoah – limitandosi ovviamente ai nomi noti – almeno Tadeusz Borowski e Primo Levi.
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Etty (Ester) Hillesum, ebrea dei Paesi Bassi, morta ventinovenne del novembre del 1943, due mesi dopo essere entrata ad Auschwitz, proveniente dal campo di transito di Westerbork, è la prima delle tre scrittrici di cui il libro parla più specificamente. Da Westerbork sarebbe passata pure Anne Frank. Anche la Hillesum ci ha lasciato un importante Diario, meno noto forse in quanto scoperto solo all’inizio degli anni ’80, ma che, impostosi subito all’attenzione di critici e storici per il suo eccezionale valore letterario e filosofico, destò forte emozione nell’opinione pubblica olandese, riaprendo ferite mai del tutto rimarginate. Di lei sono rimaste anche diverse lettere, testimonianza puntuale e diretta, vivissima, degli anni della persecuzione, dell’internamento e della deportazione che, fra il giugno del 1942 e quel settembre del 1944 a cui data la partenza di Anne Frank sull’ultimo convoglio per Auschwitz, investiranno ca. 100.000 ebrei olandesi.
Nonostante il sinistro presentimento della fine imminente (“riguardo al nostro sterminio non è lecito nutrire alcuna illusione”) lo stile di Etty Hillesum non perse mai nulla della sua naturale persuasiva levità; evidente, nelle sue pagine, l’intento di conservare residui di umanità in un mondo che, giorno dopo giorno, cedeva quasi insensibilmente alla barbarie. Reagendo alla crescente solitudine spirituale, l’autrice intratterrà in questo periodo un dialogo serrato e intenso con un Dio immaginario, interiore, non ascrivibile a nessuna religione precisa, tanto meno l’Ebraismo. In sintonia con l’indole coraggiosa e il connaturato senso di responsabilità, e in coerenza con la fermezza dimostrata anche in tutta la sua vita precedente, la Hillesum rifiuterà di abbandonare la sua famiglia e tutti gli ebrei internati nel campo di Westerbork e di “essere assorbita dalla marea turbolenta della sua epoca”, come avrebbe potuto fare abbastanza facilmente data la sua appartenenza al Consiglio Ebraico, che le garantiva una relativa libertà di spostamento (“Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo da poter spiegare agli altri quanto accaduto, e se questo non mi sarà concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al posto mio, continuerà la mia vita dov’essa è rimasta interrotta. Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto daccapo, e con tanta fatica.”). Personaggio estremamente libero ed emancipato, che nel corso della sua vita aveva avuto anche diversi amanti – come usava dire allora – fra cui il noto psico-chirologo di formazione junghiana Julius Spier; socievole, popolare, circondata da innumerevoli amici, ma spiritualmente solitaria (“Sei sempre e daccapo rimandata a te stessa.”), Etty seppe descrivere con crudele lucidità l’odissea delle crescenti restrizioni alla libertà imposte agli ebrei dei Paesi Bassi e nella vita quotidiana sfruttò la sua posizione nei Consigli ebraici per aiutare, per quanto possibile, tanti compagni di sventura.
Come riporta Mercedes Monmany in una sofferta pagina sulle condizioni di vita, e ancor più morali, degli internati di Westerbork, anticamera dell’inferno:
“I convogli, che partivano il martedì, come racconta Etty Hillesum, scandivano la vita nel campo e proiettavano sui suoi occupanti una costante e terribile minaccia. «Dopo essere stata da papà – dirà Etty in una lettera scritta il 29 giugno del 1943 da Westerbork alla sua amica Milli Ortmann – ho attraversato l’intero campo per arrivare alla grande baracca della mamma, dove quasi tutti si preparavano a partire. Erano dignitosi, tranquilli e disciplinati. Ho visto partire molti buoni amici. […] Dopo una notte di deportazione come questa si è tutti malati e distrutti. Segue un breve momento di riposo, poi si riprende a vivere aspettando la prossima deportazione.» Ogni fine settimana la tensione nell’aria aumentava fino a culminare nel lunedì notte, la «notte del convoglio», in cui i capi delle baracche convocavano coloro che sarebbero partiti. È questa incertezza, questa angoscia, ciò che rendeva Westerbork un «inferno», come dirà più volte Etty, e non le condizioni di permanenza lì, che comunque erano dure.”
Respinto un’ultima volta l’aiuto offertole da amici per nasconderla in luogo sicuro, nel luglio del’43 nuove restrizioni imposte dagli occupanti le revocavano il permesso di viaggiare. Il 7 settembre, nonostante la disperata mobilitazione degli amici per salvarla, Etty Hillesum partiva per Auschwitz insieme a un fratello e ai genitori che non aveva voluto abbandonare. Delle 987 persone (170 bambini) deportate quel giorno, sopravvissero in otto. Etty morirà il 30 novembre.
La Monmany riporta la testimonianza diretta della partenza di Etty per Auschwitz da parte di “uno dei migliori amici di Etty, Jopie Vleeschhouwer: «Ed ecco Etty sulla banchina che lei aveva descritto, nel suo modo indimenticabile, solo quattordici giorni fa. Parlava allegramente, ridendo, una parola gentile per tutti quelli che incontrava, piena di umorismo brillante, anche se forse un pochino malinconica: proprio la nostra Etty come tutti voi la conoscete. «Ho con me i miei diari, la mia piccola Bibbia, la mia grammatica russa e Tolstoj e non so quante altre cose». Uno dei nostri capi è andato ancora un momento a salutarla e a dirle di aver fatto il possibile, ma tutto era stato inutile. Etty lo ha ringraziato «di aver fatto comunque tutto il possibile». E mi ha pregato di raccontarvi ogni cosa e che lei e i suoi erano partiti così bene. […]. L’ho persa di vista e ho vagato per un po’ nelle vicinanze. Ho cercato di trovare ancora qualcuno che potesse intervenire, è stato tutto inutile. Vedo la mamma, papà H. e Mischa salire nel vagone n. 1. Etty finisce nel vagone n. 12, dopo essere passata a salutare una sua buona conoscenza nel vagone n. 14, che all’ultimo viene fatta scendere. Il treno parte, un fischio acuto, e i mille «abilitati al trasporto» si mettono in movimento. Ancora una visione fuggevole di Mischa che saluta con la mano da una fessura del vagone merci n. 1, poi un allegro ciaaao di Etty dal vagone n. 12, e sono partiti. È partita: ci sentiamo derubati, ma non restiamo a mani vuote. E ci rivedremo presto». Jopie concludeva la sua lettera dicendo: «È stato un giorno pesante per tutti. […] per tutti quelli che a lungo erano stati in stretto contatto con lei. La vicinanza fisica di una persona è ben diversa dalla sua prossimità spirituale. Si sente un vuoto, all’inizio. Ma si va avanti, mentre scrivo queste cose tutto va avanti e anche lei va avanti, sempre più verso quell’Est in cui aveva tanto desiderio di viaggiare. […]. Fatevi coraggio. Ritorneremo tutti un giorno, persone come Etty sanno cavarsela nelle situazioni più difficili». Una piccola cartolina fu gettata da Etty dal vagone che la conduceva alla morte. Trovata da alcuni contadini, fu inviata agli amici che indicava l’indirizzo. Nella cartolina Etty aveva scritto: «Mi aspetterete, vero?»”.
Queste sono le ultime parole di Etty Hillesum giunte fino a noi. Si avviava verso l’ultimo atto l’esistenza di questa “disinibita, entusiasta, perspicace, esuberante e libera Santa Teresa dei nostri giorni.” L’Olocausto era stato “la sua scuola di vita e di amore, la sua finestra aperta sulla morte, sulla sofferenza, sull’unione con gli altri…” e l’aveva rivelata all’arte della scrittura e alla filosofia nella loro forma più alta.
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Di tutt’altra indole rispetto a Etty Hillesum la poetessa ebrea berlinese Gertrud Kolmar, morta a 48 anni dopo due anni di lavoro forzato in varie fabbriche della città. Deportata il 2 marzo del 1943, è incerto solo se sia morta durante il tragitto o finita nelle camere a gas dopo l’arrivo ad Auschwitz. Cugina preferita e ‘anima gemella’ di Walter Benjamin, dal quale solo la violenza della Storia poteva separarla, in vita aveva pubblicato tre raccolte di poesie, lasciando però inedita la maggior parte del materiale. Con Nelly Sachs, che fu tra quelle che maggiormente si impegnarono nella sua riscoperta come autrice, e Rose Ausländer, Gertrud Kolmar costituisce una grande ideale triade di poetesse ebreo-tedesche del XX secolo.
Questa “forgiatrice di mondi onirici e spettrali, di immagini surreali dall’aspetto profetico e favoloso” aveva visto la propria giovinezza segnata da un’esperienza estremamente dolorosa quando, rimasta incinta in seguito alla relazione con un ufficiale dell’esercito tedesco sposato, cedendo alle pressioni della famiglia, per soffocare lo scandalo si era indotta ad abortire: un’esperienza traumatica, che avrebbe pesato sul suo animo per il resto della vita, ispirando molta parte della sua opera, nella quale la mancata madre avrebbe continuato a rivolgersi al bambino mai venuto al mondo come se fosse vivo.
Un aspetto singolare della sua opera, che la pone in netta contrapposizione con la grande maggioranza degli ebrei assimilati, che si rivolgevano immancabilmente a un Occidente libero e felicemente emancipato, è il suo guardare nella direzione opposta, a un Oriente immaginifico e ancestrale, a una mitica accogliente ‘Madre Asia’. Nei suoi versi, l’angosciosa realtà del periodo non è mai affrontata in modo diretto, ma espressa sempre in termini allusivi, traslati, e come in Kafka, cui è stata spesso accostata, il mondo delle sue poesie “è popolato da piccole cose senza gloria.”
Anche la Kolmar, al pari di tanti altri, si indurrà allo studio dell’ebraismo solo a partire dall’evidenza delle persecuzioni; dal 1936 si applica nell’apprendimento dell’ebraico, lingua dei suoi avi.
D’indole riservata (di lei conserviamo solo una foto); profondamente estranea alle febbrili avanguardie della provocatoria effervescente Berlino degli anni ’20 e primi anni ‘30, fucina di innumerevoli sperimentazioni artistiche e culturali; insofferente delle mode; refrattaria alla vita mondana, Gertrud, al contrario dei fratelli postisi in salvo per tempo, si rifiutò tuttavia di lasciare la sua città, ai margini della quale si era sempre mantenuta. Sulla decisione non incideranno soltanto motivazioni familiari e affettive – la ferma determinazione e a non abbandonare il padre vedovo – ma anche irrinunciabili questioni di principio: “Mi sono rifiutata di andarmene. Sarebbe una partenza dettata unicamente da circostanze esterne e io non intendo fuggire da ciò che devo vivere interiormente.”
Le sue lettere conservatesi hanno, al di là dei pregi stilistici, grande valore documentario; attraverso di esse noi possiamo ricostruire il crescendo di restrizioni via via intollerabili e di aperte persecuzioni a cui erano sottoposti gli ebrei nel cuore stesso del Terzo Reich. Vi avverti e respiri tutta l’angoscia sull’orlo della catastrofe. In quella che era stata fino a pochi anni prima l’edonistica insonne capitale culturale della Germania, la ‘Babilonia rossa’ del dott. Goebbels, la metropoli tentacolare, fulcro di ogni libertinaggio, culla della cosiddetta ‘arte degenerata’, che al frenetico ritmo del jazz predicava il sovvertimento e il collasso di tutti i valori tradizionali, descritta fra gli altri da Bob Fosse nel film Cabaret (1972), a Berlino insomma, l’aria per molti esponenti della Diaspora, perfettamente assimilati alle nuove tendenze, stava diventando irrespirabile, fugando l’equivoco nel quale si rifugiavano tuttavia ancora molti ebrei, riluttanti ad aprire gli occhi sull’inevitabile tramonto di quella tormentata e affascinante parentesi che era stata la turbolenta Repubblica di Weimar: un equivoco in base al quale l’adesione piena alla cultura e civiltà tedesche, e il ripudio dell’ebraismo d’Oriente di stampo medievale – quello dei caffettani neri, dei boccoli laterali degli hasidim, degli shtetl insalubri e maleodoranti – avrebbero dovuto costituire una bolla protettiva sufficientemente salda contro anacronistiche tentazioni antisemite…Bolla destinata a scoppiare di lì a poco, con tutte le conseguenze che oggi conosciamo.
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La più famosa fra le tre grandi scrittrici oggetto di Sai che tornerò è senza dubbio Irène Némirovsky, grazie soprattutto al progettato ciclo di romanzi, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, Suite francese (2004), evento letterario nella patria d’adozione dell’autrice a più di sessant’anni di distanza dalla tormentata stesura, compiuta in condizioni oppressive e disperate, “possente affresco, folto di personaggi memorabili, denso di storie avvincenti, dotato di un ritmo impeccabile”, dal quale è stato anche tratto il fortunato omonimo lungometraggio diretto nel 2015 da Saul Dibb.
Irène era nata a Kiev (come Bulgakov, come Scerbanenko) nel 1903; poco dopo lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre il padre, facoltoso banchiere ebreo-ucraino, era riparato con la famiglia prima nella Finlandia scossa dalla guerra civile, quindi in Svezia, per stabilirsi poi definitivamente in Francia. E pienamente francese Irène si sarebbe sempre sentita e considerata, esprimendosi anche letterariamente nella lingua del Paese d’adozione, senza annettere nessuna particolare importanza alle origini ebraiche.
Anche la Némirovsky avrebbe probabilmente potuto scampare alla morte se non avesse deciso, di concerto col marito Michel Epstein, che già era stato costretto alla fuga dalla Russia bolscevica, di non prendere per l’ennesima volta la via dell’esilio verso un paese sicuro.
Scrittrice già affermata, ammirata negli anni ’20 da intellettuali antisemiti di estrema destra quali Robert Brasillach (che finirà fucilato come collaborazionista nel febbraio del ‘45) e Horace de Carbuccia (che le consentirà fino all’ultimo di continuare a pubblicare con uno pseudonimo, eludendo la censura imposta dagli occupanti), Irène sarà quasi completamente dimenticata nei decenni successivi, fino all’inattesa scoperta dello straordinario romanzo corale postumo (sorta di Guerra e pace francese), il cui spirito sarà riassunto con queste parole dall’autrice stessa appena un mese e mezzo prima della deportazione e la morte: “Unificando e semplificando, il libro (nel suo complesso) deve sempre risolversi in una lotta fra il destino individuale e il destino collettivo. Senza doversi schierare”.
Suite francese è ambientata al tempo del tracollo militare (ma anche politico, morale, sociale) della Francia del giugno 1940, quando la patria adottiva, amata e fedifraga, si avviava a “perdere l’onore e la vita”. Acclamata subito come un capolavoro, Suite francese era stata concepita inizialmente come un ciclo di cinque romanzi. La Némirovsky ebbe il tempo di scriverne, in un paio d’anni convulsi, in condizioni a dir poco critiche, i primi due: Temporale di giugno e Dolce. Il 13 luglio 1942 veniva infatti arrestata. Prima della deportazione, avvenuta già il 17, fa a tempo a scrivere a Michel e alle due figlie un’ultima lettera: “Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiamo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti”.
“Il suo convoglio, composto da 809 uomini e 119 donne, arriverà ad Auschwitz il 19 luglio. Secondo un certificato «ufficiale» del campo, Irène muore, probabilmente di tifo, quello stesso giorno. Aveva trentanove anni.”
Rileva la Monmany:
“Bisogna ricordare che in quei giorni “il marito di Irène Némirovsky, disperato, invia una lunga lettera all’ambasciatore tedesco in Francia, Otto Abetz, col proposito di intercedere per la moglie, che sta per essere deportata. In questa lettera, non solo la ricorda come una grande scrittrice, ma segnala anche la scarsa «simpatia» dimostrata nelle sue opere nei confronti dei personaggi ebrei. «Mia moglie – scrive Michel Epstein – è una scrittrice molto nota. I suoi romanzi sono stati tradotti in diversi Paesi […]. In nessuno dei suoi libri […] troverà una parola contro la Germania e benché sia di razza ebraica mia moglie scrive degli ebrei senza alcuna simpatia. I nonni di mia moglie, così come i miei, erano di religione israelita; i nostri genitori non professavano alcuna religione; quanto a noi, siamo cattolici come le nostre bambine, che sono nate a Parigi e sono francesi. Mi permetto inoltre di segnalarle […] che il giornale al quale collaborava come scrittrice di romanzi, Gringoire, diretto da H. de Carbuccia, non ha simpatie né per gli ebrei né per i comunisti […]. Mi pare ingiusto e illogico che i tedeschi mettano in prigione una donna che, pur essendo di origine ebraica, non ha – come dimostrano tutti i suoi libri – alcuna simpatia né per il giudaismo né per il regime bolscevico.»”
Per redigere questo patetico, vano appello, Michel Epstein doveva evidentemente attribuire all’ideologia nazional-socialista una lucidità e onestà intellettuali che le erano del tutto estranee. Impossibile capire se se ne rendesse conto e fino a che punto. Non si trattava infatti più di una ragionata avversione all’ebraismo (non agli ebrei in quanto persone!), quale potevano aver nutrito grandi intellettuali come Voltaire o Nietzsche, che in quanto tale poteva essere, ed effettivamente era, condivisa anche da molti ebrei (un esempio per tutti il geniale filosofo ebreo misogino e antisemita Otto Weininger, al quale accenna anche Zeno Cosini nella Coscienza sveviana [ma al fenomeno non erano del tutto estranei nemmeno figure come Marx o Freud, o la stessa Irène Némirovsky]), bensì di un elementare e acritico razzismo biologico impermeabile a qualsiasi seria argomentazione contraria, a qualunque considerazione semplicemente umana.
Sul presunto antisemitismo della Némirovsky, autrice ed intellettuale intransigente, che non accettava alcuna limitazione al libero esercizio della verità, mette conto fare chiarezza; è curioso osservare come certi suoi romanzi (non la Suite francese, dove il tema è assente) siano stati giudicati, per una singolare e significativa convergenza di giudizi, antisemiti sia dagli ebrei che dagli antisemiti stessi: fraintendendoli gli uni e gli altri. Paradigmatico il caso del romanzo d’esordio, pubblicato all’età di 26 anni, David Golder, nel quale si racconta l’esemplare parabola terrena di un vecchio e spregiudicato businessman ebreo privo di qualsiasi scrupolo, una autentica macchina per far soldi capace di passare sopra a tutto, anche al suicidio del socio, pur di conseguire lo scopo principale della sua vita, la speculazione finanziaria. Solo negli ultimi momenti della sua vita, costretto dall’incombere della morte a uno spietato bilancio, Golder si renderà consapevole della miseria umana che ha caratterizzato il suo squallido sordido passato. Pur conscia degli equivoci che i suoi romanzi avrebbero potuto generare, la Némirovsky sdegnava di fugarli. Come ammetterà: “Credo che alcuni ebrei si riconosceranno nei miei personaggi. Mi serberanno forse rancore per questo? Io so di dire solo la verità”. Come ogni artista intellettualmente integro e ‘impegnato’, la Némirovsky assumeva un atteggiamento fortemente critico nei confronti dell’ambiente circostante (ebraico, nel suo caso), additandone senza nessuna ipocrita reticenza le piaghe sotterranee. Avrebbe dovuto forse, come artista, regolarsi altrimenti; occuparsi delle cose che funzionano (se mai ve ne sono)? Che interesse avrebbe potuto presentare questo agli occhi di un lettore appena esigente?
Singolare la vicenda della conservazione e pubblicazione, a distanza di decenni dalla stesura, della Suite postuma. Michel Epstein avrebbe seguito l’infelice destino della moglie a brevissima distanza. Nel giorno dell’arresto, che l’ufficiale incaricato di eseguirlo si rifiuterà di estendere alle due figliolette, il padre affidò a queste ultime una valigia contenente il manoscritto. La minore, che aveva allora tre anni, la serbò per decenni senza osare aprirla. Lo fece solo molto più tardi. Un giorno, incontrando casualmente un importante editore, si presentò con il suo nome di Elisabeth Epstein. “Lei sa” le domandò quello “che porta lo stesso cognome da sposata di una grande scrittrice francese del passato, Irène Némirovski?” “Era mia madre”, ammise con semplicità Elisabeth, “a casa ho anche un suo romanzo postumo”. L’uomo ebbe un sobbalzo: “Me lo porti domani, firmiamo subito il contratto. Non ho nemmeno bisogno di leggerlo.”
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“Sai che tornerò”, ripeteva in una lettera a un amico, nel tentativo di confortarlo circa la sua sorte, una giovane ebrea parigina, studentessa alla Sorbona, alla vigilia della deportazione, Hélène Berr, che, dopo essere passata da Drancy, Auschwitz e Bergen-Belsen, sarà uccisa nell’aprile del 1945. Non sono tornate Etty Hillesum, né Gertrud Kolmar, né Irène Némirovsky… né milioni di altri. Eppure, in certo modo, le tre protagoniste del libro hanno mantenuto quell’impegno, sono ritornate. Non, beninteso, in carne ed ossa; ma tornano a noi, a distanza di decenni, in un mondo radicalmente mutato (in meglio?), le loro parole e le loro pagine, inviolabili, al contrario dei corpi. Giungono ancora fino a noi le loro voci, ferme, chiare, libere.
Mercedes Monmany
“Sai che tornerò. Tre grandi scrittrici ad Auschwitz”
Somara! Edizioni
Euro 18.00
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