Il fragile suono della vita. ‘Riparare i viventi’ e ‘Il medico di campagna’ a confronto
@ Lucia Tempestini, 16-05-2017
RIPARARE I VIVENTI
presentato alla 73^ Mostra del Cinema di Venezia nella Sezione Orizzonti
regia di Katell Quillévéré dal romanzo di Maylis de Kerangal
con Anne Dorval, Alice Taglioni, Dominique Blanc, Emmanuelle Seigner
produz. Francia 2016 distribuzione italiana Academy Two
IL MEDICO DI CAMPAGNA
regia di Thomas Lilti
con François Cluzet, Marianne Denicourt
produz. Francia 2016 distribuzione italiana Bim
Sono presenti tutte le stazioni della nostra esistenza in questi due toccanti film francesi, rigorosi come un teorema eppure così capaci di partecipazione intima e immedesimazione nelle circostanze umane più quotidiane – e a un tempo estreme – da plasmare uno stile che, pur in presenza di eccellenti sceneggiature, quasi non ha necessità di ricorrere alla comunicazione verbale.
In Riparare i viventi, sentiamo attraverso le palpebre la sottile crosta azzurra del mattino aprirsi sulle prime notti d’amore di due ragazzi, vediamo l’asfalto correre via sotto le ruote di una macchina con la quale tre amici poco più che adolescenti stanno per raggiungere il mare, il loro abbandonarsi all’impulso primario, fisico, della vita; condividiamo la sfida costituita dal surf, l’ebbrezza di percepire ogni muscolo del proprio corpo, di sentirsi immortali, perché tutto abita soltanto nell’attimo, di imparare a prevedere il movimento di onde smisurate, a volarvi dentro, letteralmente, come in un ventre ancestrale, mantenendosi in perfetto equilibrio. Gallerie di acqua blu, in incessante metamorfosi, stordenti, fragorose.
Gli inciampi fatali spesso non avvengono sui campi aperti dell’impatto con la Natura, con la sua potenza terribile e vivificante; si verificano durante l’azione banale, ripetuta mille volte, che per questo affrontiamo con disattenzione, e forse con un pizzico di superbia. Il Caso, mai veramente casuale, tende agguati dentro un riflesso di sole sul parabrezza dell’auto, su una strada monotona; utilizza la stanchezza della mente, del fisico, il senso di appagamento derivante da una prova superata.
Basta così poco, pochi secondi, perché un incidente spenga per sempre tutta quella corrente elettrica che lega i neuroni, producendo i pensieri sui quali si edifica la nostra unicità. Un essere vivente diventa all’improvviso un corpo ancora pulsante ma non più vivo, che le persone care non accettano di abbandonare, le cui funzioni vitali di base vengono mantenute attive dalla tecnologia. Di fronte ai tentativi dei medici di spiegare l’irreparabilità della situazione, nessuno all’inizio comprende. Risuonano le domande di chi non vuole capire per non precipitare nel vuoto: cosa si può fare? quali sono le soluzioni, gli interventi possibili?
Dunque? Dunque il luogo dove ci muoviamo adesso è l’ultima striscia di roccia e licheni prima del dirupo, non esistono più soluzioni, non c’è la possibilità di alcun intervento. Solo la straziata cerimonia degli addii. Il pianto, le carezze, il desiderio di onorare comunque le spoglie di chi abbiamo amato così profondamente. In fondo, muore anche una parte di noi.
Cosa resta? Il cuore intatto del ragazzo potrebbe salvare la vita di Claire, signora parigina resa quasi inferma da una cardiopatia. Ripararla. Difficile accettare lo smembramento di un figlio, eppure i genitori, dopo un iniziale, comprensibile rifiuto, accordano il permesso. Un chirurgo sensibile farà ascoltare al giovane, durante l’espianto, le sue musiche preferite. Perché rispetto e premure non devono venir meno in nessuna fase della nostra vita, compreso il momento della morte.
La malattia ferma il tempo della vita, che non va più avanti né indietro. Ne riduce progressivamente le dimensioni, ne offusca i colori. Toglie dignità rendendo dipendenti dagli altri. Condiziona le vite degli altri. Claire (interpretata da Anne Dorval con commovente misura, la prova più intensa della stagione cinematografica dopo quella di Amy Adams in Arrival) per pudore, per non deviare il destino di un’altra persona, ha in precedenza allontanato da sé la giovane concertista Anne, cui era legata da una profonda relazione amorosa. Senza fare parola della malattia, senza dare spiegazioni. La cercherà il giorno prima del trapianto, per confidarsi, per ritrovarla. E la ritroverà, insieme al fragile battito della vita che piano piano riprende il giusto suono.
La dignità umana da conservare a qualunque costo è anche il tema principale di Il medico di campagna, commedia dai toni malinconici e talvolta amari che racconta con delicatezza la storia del dr. Jean-Pierre Werner (François Cluzet) e della sua assistente, dr.ssa Nathalie Delezia (Marianne Denicourt), che giorno e notte, con qualsiasi tempo, percorrono chilometri e chilometri di strade sterrate per raggiungere e rassicurare i pazienti, spesso soli e anziani. Perennemente stanchi e infangati, consapevoli che nonostante tutte le cure prodigate con passione e dedizione è nell’ordine naturale delle cose che qualche volta le persone muoiano, cercano la giusta misura fra il dovere di curare e una necessaria pietas, intesa come rispetto per qualcosa che viene considerato sacro (la dignità, appunto, e la volontà dell’individuo di spegnersi il più tranquillamente possibile, nella propria casa, fra i propri ricordi, preparato alla morte da mani affettuose).