Gli aforismi devozionali di Alberto Casiraghy. “I miei labirinti felici”, Edizioni Joker
@ Amedeo Ansaldi, 08-11-2022
È uscita nel settembre 2021 per i tipi di Edizioni Joker di Novi Ligure (AL), nella Collana Athanor che ormai da quindici anni pubblica volumi di aforistica italiani e stranieri, la silloge di aforismi poetici I miei labirinti felici di Alberto Casiraghy, con postludio del curatore Sandro Montalto. Il libro, che si avvale delle belle, incisive illustrazioni dello stesso Casiraghy, si articola in due sezioni: primo e secondo ‘movimento’. La prima raccoglie solo aforismi inediti; la seconda è una cernita, operata dal curatore, di alcuni fra i migliori testi brevi pubblicati negli anni da Casiraghy e selezionati anche da pubblicazioni introvabili da anni: scelta non facile ma condotta con grande competenza e sensibilità e più che mai opportuna, che aiuta il lettore a orientarsi nella selva della foltissima produzione dell’autore, che appare ahinoi poco interessato al destino cui vanno incontro i suoi testi una volta licenziati – o anche solo pronunciati a voce.
Alberto Casiraghy (Osnago, 1952) è liutaio, illustratore, poeta, aforista, nonché fondatore delle note, preziose Edizioni Pulcinoelefante (che stampano ‘mini-edizioni per libridinosi‘). Sulla sua figura di artista-tipografo e intellettuale semplice, schivo, autentico verte in larga misura il bellissimo documentario Il fiume ha sempre ragione, diretto nel 2016 da uno dei più importanti registi cinematografici italiani, Silvio Soldini (altri documentari e interessanti video-interviste sono reperibili su Youtube).
La minuscola casa editrice aprì i battenti nel lontano 1982, quando il fondatore aveva già alle spalle un decennio di esperienza presso la tipografia SAME, dove all’epoca si stampavano quotidiani ‘storici’ come Il Giornale e La Notte; dieci anni più tardi sarebbe avvenuto l’incontro decisivo con Alda Merini, con la quale Casiraghy doveva dar vita a un più che ventennale, felice sodalizio, non solo artistico ma anche umano, scandito da telefonate e incontri pressoché quotidiani, dal quale nacquero fra l’altro oltre mille edizioni Pulcinoelefante (si veda in proposito il catalogo I 1189 pulcini di Alda Merini pubblicato da Luni Editore).
“L’unico editore che stampa in giornata, come un panettiere della letteratura”, secondo la felice definizione di Vanni Scheiwiller, lavora ancora oggi su una ‘gloriosa’ stampante meccanica a caratteri mobili, una Audax Nebiolo risalente agli anni Settanta, “piccolo capolavoro dell’ingegno umano: si apre in due, si mette l’inchiostro, e non si rompe mai”.
L’abitazione a due piani nel paese natale Osnago, che Alda Merini aveva affettuosamente ribattezzato “manicomio privato” (cucina-redazione, salotto con stampante, ingresso-biblioteca e camera da letto-archivio) rivela molto dell’uomo come dell’artista, versatili e inesausti entrambi – stipata com’è di foto, disegni, quadri, stampe, locandine, statuette, strumenti musicali e un’infinità di cimeli, ognuno dei quali riconduce la memoria a un episodio, un incontro, un’amicizia più o meno lontani nel tempo: da qui sono passati centinaia di persone comuni (soprattutto aspiranti poeti) ma anche personaggi noti quali Lawrence Ferlinghetti (esponente di spicco della beat generation americana, mancato recentemente) e Fernanda Pivano (studiosa di quello stesso movimento), poeti come Franco Loi e Dario Bellezza, il romanziere Sebastiano Vassalli (che veniva a trovarlo ad ogni ferragosto), e ancora Maurizio Cattelan, Bruno Munari, Gillo Dorfles, Enrico Baj, Vivian Lamarque, perfino Lucio Dalla, ciascuno di loro per farsi realizzare da Alberto un pulcinoelefante recante una breve sentenza di proprio conio…
Sul retro della casa vagavano fino a qualche tempo fa alcune caprette morte ormai di vecchiaia, mentre si trovano ancora un orto e un pollaio con galline, sane e fortunate, che razzolano liberamente e fanno le uova ogni giorno. Difficile dire a chi Alberto Casiraghy possa essere accostato; forse, a certi maestri del Tao o saggi orientali, compresi solo dell’attimo presente e del tutto indifferenti alla fama, oppure, per citare una figura più vicina a noi, ad Antonio Porchia, il grande aforista italo-argentino caro a Borges, André Breton e Henry Miller, tipografo, carpentiere e intrecciatore di cesti di paglia, che si nutriva anch’egli dei “prodotti del suo orto e regalava le sue straordinarie Voci agli amici, spesso solo in forma orale” (Fabrizio Caramagna): un modo di procedere altrettanto generoso e dispersivo, ai nostri occhi, che quello di Alberto Casiraghy.
In radicale controtendenza rispetto alle convenzioni oggi imperanti, Casiraghy respinge la logica delle grandi tirature e delle ferree leggi di mercato. Ogni suo prodotto costituisce un pezzo raro, una piccola opera d’arte costruita a mano sullo spunto di una frase, un pensiero, una massima abbinati solitamente a un’illustrazione: “pillole di saggezza raccolte in forma di librini devozionali; dentro, per meglio addomesticare la nostra dura cervice, ci sono anche le illustrazioni che […], lievi e surreali, hanno forza d’urto potente e ironicamente sinistra” (Luigi Mascheroni).
Nel 2019 la Casa Museo Boschi Di Stefano, su impulso del Comune di Milano, ha acquisito il suo intero archivio (quasi 11.000 titoli), patrimonio di inestimabile valore, non solo documentario: “un piccolo monumento all’editoria” intesa nel suo senso più genuino, oggi risistemato nelle sale dell’ex-Scuola di ceramica e liberamente visitabile.
Nei libretti di Pulcinoelefante confluiscono organicamente tutti i talenti e le competenze di scrittore, tipografo, musicista e disegnatore di Alberto Casiraghy che, come accennavamo dianzi, non stampa solo aforismi e pensieri altrui, ma è egli stesso autore, e fra i più notevoli, nella sfera dell’aforisma poetico nel nostro Paese, come attesta anche l’ampio spazio riservatogli nel fondamentale saggio di Stefano Elefanti Origini e sviluppo dell’aforisma poetico nel Novecento italiano (Edizioni Joker, 2013).
Niente sarebbe più fuorviante che cedere alla fallace impressione che spesso, forse, coglie chi si accosti per la prima volta all’uomo e all’artista: quella cioè di trovarsi di fronte a un autore piuttosto ‘ingenuo’. Legittimamente Cesare Vergati parla di “delicata malizia, soave armonia, surreale umorismo, espansa leggerezza”, e Casiraghy mantiene – questo è vero – una capacità quasi fanciullesca di sorprendersi di fronte allo spettacolo quotidiano del mondo e della natura – una facoltà che si coniuga tuttavia, sulla pagina, con gli accenti pienamente disincantati dell’uomo provvisto di una conoscenza profonda e amara delle vicende terrene. La serenità che spira dai suoi testi non è davvero quella, dilettantesca e corriva, che precede la consapevolezza delle storture della società, viene bensì dopo, oltre la dolente presa d’atto di una realtà ingrata sotto molteplici punti di vista: sociale, umano, morale. La prima impressione può essere dunque sì quella di “essere immerso in un mondo fiabesco, dolce, leggero, tuttavia ad una lettura più ampia e attenta emerge come non manchino asprezze e provocazioni, come lo sguardo innamorato verso il mondo non possa né voglia dimenticare le brutture e le violenze” che ne sono elemento costitutivo: «A volte un graffio fa scoprire ferite profonde»; «Conosco inganni indispensabili per capire». Diventa allora evidente che non siamo immersi in un mondo idilliaco, bensì in un campo di forze che, seppur orientato verso il bello, non nasconde ferite, spine, voragini” (Sandro Montalto). Su questo aspetto, quello di un Casiraghy solo all’apparenza eternamente dolce e leggero, spensierato e luminoso, ma in realtà allo stesso tempo (e coerentemente) ferito, consapevole della violenza e dei dolori che caratterizzano il mondo, insiste il curatore nell’ampia postfazione, nella quale è affrontata anche, in modo finalmente serio e organico, la produzione visiva di Casiraghy: i suoi aforismi, tanto spesso corredati di illustrazioni, sono, certo, fiabe, ma fiabe al confine con l’incubo – un incubo sempre incombente del quale non subiscono peraltro il fascino: lo impediscono il connaturato senso della misura, il ripudio di ogni retorica, la visione fortemente etica, un sicuro e sano, seppur contrastato, amor vitae.
Se l’autore, come ogni persona sicura di sé e salda nei propri principi, è generosamente aperto, pur senza corriva indulgenza, agli altri, è capace anche di sondare a fondo il proprio stesso animo. La sua opera vive della risonanza che gli spunti quotidiani in arrivo dal mondo circostante hanno nella sua interiorità; l’introspezione è l’aspetto che più e meglio caratterizza i suoi aforismi, che molti hanno cercato, e tuttora cercano, senza grande successo, di emulare:
“Dico molte bugie ma amo la verità.”
“Ho un’orchestra infinita nel cervello.”
“Sono anni che vado alla ricerca di nuovi dubbi.”
“Dall’uovo che dorme dentro di me prima o poi nascerà il mio destino.”
“Al momento giusto regalerò la mia anima al primo venuto.”
Casiraghy si spinge, per la verità, anche oltre; in questi suoi ‘labirinti felici” non mancano riflessioni disilluse, comunque non fideistiche, quasi al limite dello sgomento ‘cosmico’, sul destino ultimo dell’umanità e sul senso di quel fenomeno singolare e misterioso che sono le nostre labili ed effimere esistenze:
“Ogni teschio ha il suo numero progressivo nel corso della storia del mondo.”
“Forse non siamo altro che ostaggi della polvere.”,
riflessioni che non si limitano al destino della nostra – sopravvalutata – specie, ma si estendono all’insieme del creato e nulla concedono a comode, convenzionali visioni antropocentriche; e non è mera curiosità rilevare qui come Casiraghy sia vegetariano per motivazioni essenzialmente etiche. Nei suoi aforismi è anzi ricorrente la presenza di elementi del mondo animale e vegetale:
“Ogni balena è un mistero che canta.”
“Le farfalle vivono alla giornata.”
“La verità è un rinoceronte che dorme.”
“L’acqua è un’emozione che cammina.”
“Quando è nata la prima foglia anche Dio ha pianto.”
A proposito di Dio – figura che si affaccia non di rado nei suoi scritti – i limiti posti all’uomo, dal Creatore o chi per Lui, nella conoscenza del creato sono pienamente – e laicamente – accettati dall’autore. Egli percorre i propri labirinti interiori con una serena umiltà, da riconquistarsi giorno dopo giorno:
“Nel mistero che ascolto c’è tutto il mio sapere.”
Altri testi risultano di più difficile collocazione, e come sempre accade sono i più riusciti e originali, quelli che rivelano, nel loro curioso candore, la natura schietta della sua ispirazione:
Chi sa vedere sette balene in un bicchiere è salvo.
Ovunque ti porta il destino nutrilo con fragole e clavicembali.
Ormai nella vita posso fare a meno di tutto: tranne del giallo di cadmio.
Su Dio ho delle perplessità che sorprenderebbero lui stesso.
L’innocenza dell’autore non conosce, del resto, ostacoli di sorta; non si arresta davanti a nulla, neanche laddove altri rischierebbe di cadere nell’osceno.
“Gli inguini caldi sono il posto migliore dove accordare il violino.”
“Quando le donne pungono troppo è perché hanno bisogno di cambiare letto.”
Ma nessun aforisma riflette forse in maniera altrettanto netta ed efficace la condizione esistenziale dell’autore che questo: “Sono un uomo felice ma non spensierato.”
Nei suoi scritti, Casiraghy è sempre molto attento alla forma, e rifugge da qualunque tipo di esagerazioni, intuendo del resto quanto vi sia di ambiguo e pericoloso nel potere della parola, ad esempio quando si pone la fatidica domanda: “Fino a dove porterà l’alfabeto?”: interrogativo eterno, se pensiamo a come il fascino esercitato dai discorsi e dalla retorica, dalla fatale oltranzistica concatenazione dei pensieri, storicamente trascini più spesso gli uomini al delitto, all’illecito e all’infamia, che non ad atti di generosità.
“I piccoli e semplici disegni” che corredano e illeggiadriscono i suoi testi e nei quali sono spesso presenti piccoli rivelatori dettagli disturbanti “non nascondono punte, angoli che potrebbero ferire, equilibri precari, scale che non portano da nessuna parte, fili che adornano e strangolano”… (Sandro Montalto): altrettanti elementi che sottolineano l’inquietudine sotterranea dell’ispirazione, mai disgiunta dalla cruda consapevolezza della precarietà e ingratitudine della vicenda umana.
Pure, alla preveggenza degli infiniti mali del mondo, che continuamente si affaccia alla mente dell’autore, incapace di dimenticarli, si accompagna tenace, incrollabile, invitta, l’intuizione fondamentale sull’origine della felicità – fine ultimo della vita di noi tutti:
“L’estasi è ciò che porta dove sono nate tutte le foglie.”