Fantastico quotidiano nella banlieu. Note su ‘Asphalte’ di Samuel Benchetrit
@ Lucia Tempestini, 7-05-2016
Può capitare.
Può capitare che una navicella spaziale statunitense, precipitando da quella fascia biancastra e appena luminosa che rappresenta la nostra galassia (un grande disco a spirale, più gonfio al centro, composto da innumerevoli stelle immerse in nubi di gas e polveri interstellari, concentrate qua e là in ammassi e nebulose), atterri sul tetto di un condominio slabbrato e sghembo situato in una delle tante banlieues francesi. Campi desolati, lacerti rugginosi di un passato industriale che appare remoto, edifici alti e grigi, tutti uguali, tutti ugualmente afflitti da derelizione irreversibile; potrebbe persino essere Pittsburgh, come presume il contatto NASA con cui interloquisce telefonicamente lo spaesato astronauta, o qualunque altra località del nostro Occidente ferito e immalinconito. Può altresì succedere che il cosmonauta appena citato, un Nume tutelare pervaso di dolcissima goffaggine – derivante da scarsa dimestichezza con le cose comuni –, suoni alla porta di una tenera signora di origine algerina e che questa signora (“a nice woman”) lo accolga senza stupore.
M.me Hamida ha un gran vuoto al centro del cuore, a causa della detenzione dell’unico figlio, ma nessun sentimento di rancore verso la società; mostra anzi una delicata curiosità nei confronti del mondo, una leggerezza premurosa e materna che riversa per intero sul giovane americano “dagli occhi buoni” piovutole in casa direttamente dal cielo. Lo riveste con gli abiti del figlio assente, lo nutre con sontuose colazioni e cene a base di cous cous, si cullano a vicenda con il suono di ninne nanne cantate nelle rispettive lingue, guardano insieme la soap opera prediletta da entrambi; e, sempre insieme, ci dimostrano che gentilezza e reale interesse umano conducono inevitabilmente all’empatia, a una comunicazione profonda capace di superare persino gli ostacoli linguistici e culturali. John, per mezzo dei disegni, riesce a spiegare a M.me Hamida le sensazioni provate osservando l’infinito: ama immaginare che dietro tutto quel buio si celi una grande luce, e che le stelle siano buchi attraverso i quali gli dèi ci guardano.
E’ in effetti lo sguardo il protagonista assoluto di questo piccolo, miracoloso racconto di destini smarriti e ritrovati grazie al loro incrociarsi con ironico abbandono. Lo sguardo umano che si fa anche un po’ divino attraversando lo specchio, cercando una dimensione diversa, non egoica non autoreferenziale non vittimista, dell’esistenza; letteralmente creando questa dimensione altra per mezzo della propria benefica intromissione, facendosi specchio per riflettere e far vivere l’immagine altrui, ricostruirne dignità e speranza di futuro. Perché non esiste deriva che non possa essere arrestata, riconvertita in creatività nuova. Non c’è solitudine che non possa essere colmata, né senso di perdita che non sia possibile curare.
In questo senso, si rivela esemplare la vicenda interpretata da Isabelle Huppert e Jules Benchetrit: un adolescente sensibile e troppo solo si accosta a un’attrice in declino di popolarità appena trasferitasi nel palazzo. Il gioco di reciproche provocazioni, inscenato dai due mantenendo una perfetta misura fra malinconia e sarcasmo, nasconde, appena sotto la superficie, un addolorato, incandescente interesse reciproco. Lo sguardo che poggiano una notte l’uno sull’altra, sdraiati sul letto di lei, colmo di una partecipazione umana priva di qualsiasi risvolto sessuale, la mano di Jeanne che si tende a cercare i capelli di Charly, è una di quelle immagini destinate a rimanere indelebili nella mente dello spettatore. Così come il monologo di Agrippina, filmato da Charly per la ripresa teatrale di una versione di Nerone, antico successo di Jeanne nel ruolo di Poppea. Il ragazzo propone alla sfiduciata attrice di cambiare personaggio e spedire il video alla produzione. La incoraggia, la incalza (“fallo bene, fallo per te”) sino a far rinascere a poco a poco, con una progressione emozionante, la grandezza di un tempo. Contro una parete bianca, gli occhi lievemente arrossati, Isabelle Huppert, splendida e disadorna, scolpisce le parole di Agrippina, il viso appena increspato da mille sentimenti, dalla memoria, dal dolore, dall’amore materno, dalla coscienza delle metamorfosi operate dal tempo. Ed è una performance di quelle che non si dimenticano più.
Il terzo incontro avviene fra lo scarmigliato Sternkowitz, reso quasi afasico dalla scomparsa della madre, e un’infermiera del vicino ospedale assegnata ai turni di notte. Confinato su una sedia a rotelle da un insulto cardiaco o cerebrale sopraggiunto durante l’uso incauto della cyclette, si trova a dibattersi fra le mura sempre più opprimenti della propria inermità esistenziale e fisica. Impossibile prendere la posta dalla cassetta, impossibile raggiungere l’appartamento salendo le scale. Non gli resta che utilizzare furtivamente l’ascensore condominiale alla cui riparazione non ha potuto contribuire, causa indigenza. Il pudore gli impedisce di esternare la sua situazione economica, delicatezza e senso delle convenienze (non timore di essere rimproverato dell’abuso) non gli consentono di servirsi apertamente dell’ascensore. Quindi, per non recare disturbo, si costringe a uscire solo di notte.
Percorre con grande fatica lunghi tratti di strada, una strada deserta, persa nel Nulla che respira ovunque, per raggiungere l’ospedale di zona. E ancora interminabili corridoi privi di presenze umane, abbagliato dalle luci al neon. La meta finale è la macchina distributrice di snacks, panini, patatine e bevande. Oasi postmoderna e unica fonte di approvvigionamento alimentare alla portata di Monsieur Sternkowitz.
Uscendo, viene richiamato dalla voce inquieta di un’infermiera (Valeria Bruni Tedeschi) intenta a fumare appoggiata a una porta di servizio. Sostano tutti sulla Soglia dell’attesa i sei protagonisti del film, come il tenente Drogo nella fortezza Bastiani, cristallizzati nella nostalgia del futuro, contemplando cieli diurni o notturni perennemente rannuvolati. Guardano. Guardano vecchi film in vhs, vecchie foto, si spengono nella solitudine, si stordiscono di vodka, anelando a uscire dalla trappola vuota nella quale li ha rinchiusi un sortilegio inconoscibile. Ma James e Caproni insegnano che la Preda in fuga, la Bestia minacciosa che ci annichilisce, siamo noi [La preda/mansueta e atroce/(vivida!) che nelle ore/del profitto (nelle ore/della perdita) appare/(s’inselva) nella nostra voce.].
Fuggiamo da un’identità sbagliata, da ciò che a poco a poco siamo diventati senza neppure accorgercene. Rifiutiamo la perdita di dignità opponendole il silenzio o implausibili menzogne, nascondendoci o camuffandoci per non mostrare ferite e cicatrici, per non sentirci vuoti a perdere o materiali di risulta. Perciò l’indifeso Sternkowitz, innamoratosi al primo sguardo, millanta un lavoro come fotografo per la rivista International Geographic e, nei giorni successivi, prende a immortalare le minime variazioni del cielo e le immagini televisive per comporre un album e soddisfare la trepida, sognante curiosità dell’infermiera. Durante l’incontro successivo le propone persino di ritrarla, e fatica non poco a superare il timore manifestato dalla donna di essere presa in giro: perché mai un professionista abituato a fotografare celebrità dovrebbe interessarsi a lei?
L’epilogo in un primo momento sembra drammatico: la notte seguente Sternkowitz rimane chiuso nell’ascensore guastatosi all’improvviso; eppure, urlando dalla disperazione, con la consapevolezza di essere sul punto di perdere l’ultima occasione della sua vita, riesce ad alzarsi in piedi, forzare la porta e raggiungere l’ospedale camminando a stento, con la determinazione che solo l’amour fou può dare.
Arriverà a destinazione accompagnato dalla luce ancora incerta del mattino, quando l’infermiera sta ormai per rientrare dopo averlo aspettato l’intera notte. L’eroico Monsieur Sternkowitz, ansimando e sorreggendosi al muro esterno, fa scattare ripetutamente il proprio vetusto strumento ottico privo di pellicola e, di fronte al tremito lieve dell’infermiera – commossa, e protesa verso una (im)possibile felicità –, trova il coraggio di rivelare se stesso con semplicità e impeto.
Entrambi appoggiati al muro, osserveranno rapiti l’elicottero della NASA giunto per ricondurre in patria l’astronauta McKenzie. In questo esatto momento, il filo lieve del volo e del possibile unirà i sei personaggi. I due assorti innamorati, M.me Hamida mentre sul tetto consegna al giovane ospite un contenitore di cous cous e un saluto struggente, Charly che si volta sulla sua bicicletta e Jeanne che apre finalmente la finestra sorridendo, circondata dal vento e dai detriti sollevati dal rotore.
Sorride. Perché la vita ha luogo solo se e quando il fenomeno neutro viene ri-generato dall’immaginazione in verità individuale, quindi in narrazione o fabulazione dotata di unicità. Così, il clangore ricorrente prodotto da un rottame percosso da correnti fantasmatiche, diventa, a seconda del personaggio che lo ascolta, il grido di un bambino, una tigre o la voce di un demonio.
Asphalte (Il condominio dei cuori infranti)
Regia e sceneggiatura di Samuel Benchetrit
con Isabelle Huppert, Jules Benchetrit, Tassadit Mandi, Michael Pitt, Valeria Bruni Tedeschi, Gustave Kernvern – Produz. Francia/Gran Bretagna 2015