Di silicio e calcare. ‘Ammonite’ di Francis Lee, con Kate Winslet
@ Emiliana Nardin & Lucia Tempestini, 01-09-2021
Si fa strada fra le rocce taglienti Mary Anning, con le mani abituate al vento di mare e ai cloruri che le arrivano in faccia con forza chiudendole gli occhi, entrandole nel naso e in bocca. Anno dopo anno è diventata un elemento del paesaggio, assumendo le stesse tinte – marrone, grigio e un azzurro che ugualmente vira al grigio –, indossando giacche corte che ricordano quelle maschili, gonne ampie e morbide, una cravatta ottocentesca da uomo, abiti che si discostano dai cappelli nastruti e dai modelli bombati e pastellati delle Signore. Anche intorno a lei, invisibile, si è formato un reticolo cristallino di silicati che rappresenta la sua stessa identità, il modo in cui essa si manifesta. L’isolamento praticato come una disciplina stoica, l’indole laconica e ruvida, il rifiuto del modello femminile imperante nella Gran Bretagna della prima metà dell’Ottocento, sono i tratti immediatamente riconoscibili di questa ricercatrice fondamentale nella storia della paleontologia, i cui meriti sono stati occultati in vita dalla Geological Society di Londra. Anning, colpevole di essere una donna e per giunta povera, non venne ammessa neppure in visita alla GS, nonostante i membri si appropriassero abitualmente delle sue scoperte e considerazioni.
Nel borgo marinaro di Lyme Regis, all’incrocio fra le scogliere del Devon e del Dorset, strappa alla terra le pietre con ammoniti e parti di scheletri di animali vissuti nel Giurassico; in mezzo a migliaia di sassi, apparentemente tutti uguali, riconosce con un solo sguardo quelli che all’interno contengono i fossili. Nel 1811 scopre un teschio di Ichtyosaurus, un rettile marino, nel 1823 addirittura un Plesiosauro. Ogni reperto, ogni frammento osseo, viene ripulito e classificato con cura scientifica. Le conchiglie calcaree spiraliformi delle ammoniti vissute nel mesozoico vengono esposte nella vetrina disadorna del negozietto annesso all’appartamento di Mary, e forniscono un reddito minimo a lei e alla madre ottusa e incattivita dai lutti e dal bisogno, che, osservandola con occhi cerulei da rapace, ogni giorno rammenta a Mary la colpa di essere sopravvissuta agli otto fratellini portati via dalle malattie e dall’indigenza. Circoscrive e picchetta lo spazio esistenziale della figlia, lo riduce alle dimensioni strettamente necessarie a procacciare il necessario per vivere, mostrando una disposizione d’animo malevola verso le ricerche scientifiche di Mary e la sua anomalia sociale. Di più, la inchioda a un rito quotidiano di morte protratta nel tempo, a un passato che continua a ingoiarsi la possibilità del presente e del futuro: la pulitura delle statuine di 8 pecorelle, 8 animaletti che “sostituiscono” i suoi bimbi morti.
Quando nella stretta bottega arriva Mr. Roderick Murchison – preceduto dal proprio ego mellifluo quanto supponente – per chiedere ad Anning con un sorriso di finto ossequio di permettergli di osservare il suo lavoro di cacciatrice di fossili, è l’avidità apprensiva dello sguardo materno a imporre a Mary di accettare. Al momento della partenza Murchison decide di lasciare temporaneamente a Lyme la giovane moglie Charlotte, precipitata nella completa assenza di interesse e reazioni emotive verso qualsiasi fenomeno esterno a causa dell’apatia innescata dal matrimonio infelice e dalla perdita di un bambino.
La condizione di indifferenza di Charlotte e il carattere scabro di Mary rendono faticose le prime fasi del rapporto. Winslet mantiene la progressiva metamorfosi interiore di Anning entro i confini dello sguardo, creando variazioni della temperatura emotiva per mezzo di increspature minime della luce e di improvvisi addensamenti dell’intensità. Vediamo così mutare piano piano il sentimento di Mary nei confronti di Charlotte, cambiamento che giunge a uno snodo fatidico quando la ragazza si ammala di polmonite. Prendersi cura del corpo di Charlotte, lavarlo, vegliarlo, far scendere la febbre con impacchi freddi, riportarlo alla coscienza, guarirlo porta a una confidenza profonda, al risveglio di un calore soffocato troppo a lungo, di una tenerezza dimenticata o mai praticata prima.
Durante un ricevimento a Lyme, a cui vengono invitate entrambe, è la gelosia a costringere Mary a riconoscere il desiderio che domina pensieri e gesti: la conversazione affabile fra Charlotte ed Elizabeth Philpot si trasforma in un riverbero ustorio che la spinge fuori dall’edificio, sotto la pioggia. Dopo, arriverà il tempo del conforto e della rassicurazione, di un primo contatto erotico frenetico, rapinoso, passionale, e i beaux jours della leggerezza amorosa, del viaggio a ritroso nello spazio mentale dell’infanzia, dell’abbandono al mare e agli scherzi.
Come in altri film saffici di questi anni, anche in Ammonite lo spazio della felicità è esiguo. La lettera di Mr. Murchison che annuncia l’arrivo dei domestici incaricati di ritirare il ninnolo di scarso pregio e riportarlo a casa – consegnata dalla madre di Mary con un’occhiata di soddisfazione inacidita – fa ricadere su se stessa una costruzione minata dall’impossibilità sociale di uno sbocco differente. La notte d’amore che precede la partenza di Charlotte è il racconto della fusione completa dei corpi e della disperazione con cui le due donne si inerpicano e scavano l’una nell’altra, cercando di prolungare le ore all’infinito, di far scivolare la realtà in uno spazio interdetto alle leggi umane.
La cera delle candele colata nei piattini, il rito delle valigie, il richiamo dei gabbiani, e lo sguardo di Mary così pieno di dolore da non riuscire a sollevarsi, le parole che compongono frasi qualsiasi perché ciò che sta devastando il paesaggio interiore è indicibile – Fa caldo. L’anno scorso c’era la neve, mentre ora si sta bene –, il ritorno a casa, l’andatura mesta che fa oscillare il vestito come una campana a morto, e il rifiuto di pulire insieme alla madre le solite statuine luttuose; per la prima volta Mary si sottrae alla cerimonia, al senso di colpa e al potere materno. Poco tempo dopo Mrs. Molly Anning, morirà, molto probabilmente perché deprivata della sua vittima e quindi di uno scopo,
Charlotte ricompare qualche tempo dopo con una lettera e un invito a Londra. Mary, provata non tanto dalla morte della madre quanto dal distacco da Charlotte, si precipita da lei, ma quello che si trova davanti, non le piace per nulla, è un’offerta umiliante per lei: rinunciare al suo lavoro, all’identità, alla ricerca e alla libertà per una camera nella dimora di Mr. Murchison, come un’anonima dama di compagnia, un oggetto dilettevole privo di pensiero autonomo. Avendo passato la vita a rifuggire le costrizioni del luogo comune e le convenzioni sociali, Anning prende le distanze anche questa volta, rifiutandosi di dormire lì. Il giorno dopo si reca al British Museum per rivedere la sua creatura speciale, che scoprì quando aveva solo 11 anni, e che fu ceduta al museo perché valeva un anno di affitto, di cibo e di vestiti. Sfila davanti a busti, ritratti e opere di uomini illustri, arriva davanti alla teca, guarda con amore quella sua creatura e dall’altra parte del vetro compare Charlotte, con aria mesta. Nel finale le due donne si guardano, in un momento sospeso, si guardano e a separarle c’è quella teca che per Mary contiene tutto, la gioia, la fatica, la cura, il lavoro, la vita.
Tempo prima, quando Charlotte era in convalescenza a casa di Mary, le chiese il perché non avesse avuto figli; Anning rispose: Io ho il mio lavoro, non ho bisogno di figli. Già, quel lavoro a cui Charlotte pare non dare importanza, quel lavoro che ora è lì in mezzo a loro e le separa (ma forse non per sempre), quel lavoro a cui Mary ha dedicato la vita con passione e fatica, comportandosi da donna estremamente moderna e non conforme alle regole della sua epoca che l’avrebbero voluta sposata e con prole, quella sua epoca misogina che, dopo pochi secondi che il suo ittiosauro fu depositato con estrema cura al British Museum, cambiò la targhetta che recava scritto Sea Lizard, Found by Miss Mary Anning Lyme Regis con un’altra con su scritto Ittiosaurus – Lyme Regis Presentato da H. Hoste Henley.
Titolo originale | Ammonite |
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Lingua originale | inglese, francese |
Paese di produzione | Stati Uniti d’America, Regno Unito, Australia |
Anno | 2020 |
Durata | 120 min |
Rapporto | Widescreen |
Genere | drammatico, sentimentale, biografico |
Regia | Francis Lee |
Sceneggiatura | Francis Lee |
Produttore | Iain Canning, Emile Sherman Fodhla Cronin O’Reilly |
Produttore esecutivo | Simon Gillis, Mary Burke, Rose Garnett, Zygi Kamasa |
Casa di produzione | See-Saw Films |
Fotografia | Stéphane Fontaine |
Montaggio | Chris Wyatt |
Effetti speciali | Jacopo Landi |
Musiche | Dustin O’Halloran, Volker Bertelmann |
Scenografia | Sarah Finlay |
Costumi | Michael O’Connor |
Trucco | Ivana Primorac |
Interpreti e personaggi | |
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