Una vedova per le “Divin poème”
La teosofia mistica e sensuale – che per esprimersi dovrebbe ricorrere a trame leggere – si serve invece di apparati poderosi, pesantissimi, grevi e indigesti. Nel maggio 1905, per dare allo Châtelet di Parigi la sua terza sinfonia, Aleksandr Skrjabin reclamò dal direttore Ernst Nikisch che l’Orchestra Lamoureux avesse fiati quadruplicati, due arpe e percussioni potenziate: centodue esecutori, non uno di meno. I tre grandi movimenti – che dalla lotta interiore salgono liricamente ma sempre eroticamente verso la suprema gioia dello spirito liberato – giustificavano il titolo programmatico dell’opera: Le divin poème.
Un poema sinfonico divino, dunque, che offriva però della divinità un’espressione curiosa: di essere pesante quanto l’universo. Per sostenere tutto quel peso c’era voluto un mucchio di danaro, in gran parte procurato da un’ammiratrice di Skrjabin, facoltosa vedova. Su come le facoltose vedove restino acchiappate nelle reti delle teosofie sensuali, forse a sublimare una sessualità repressa ed engloutie, ci starebbe un trattatello di psicologia.
Il divino poema ebbe successo momentaneo, non stabile. La lourderie ha il respiro grosso.
30 settembre 2021