Il ritorno della famiglia Dos Santos. “La Rappresentazione”, nuovo romanzo di Romana Petri
@Agata Motta 09/09/2021
Un tempo le rappresentazioni erano sacre, con il loro corredo di significati simbolici e di intenti didattici per la moltitudine incolta, ma già la filosofia ne aveva fatto terreno privilegiato di indagine con interpretazioni fertili e continuamente plasmabili. Ma non sono le varie accezioni filosofiche ad intrigare Romana Petri nel suo recente romanzo La rappresentazione (l’ultimo della saga portoghese che comprende il magnifico Ovunque io sia e il malinconico Pranzi di famiglia), edizione Mondadori, quanto piuttosto quegli elementi in un certo senso teatrali che si biforcano in una duplice direzione: quella della rappresentazione del sé per gli altri, con quei brandelli di certezze che fungono da argine o da approdo quando la ricerca della propria identità annaspa e si frastaglia conducendo a derive esistenziali, e quella della rappresentazione del sé per sé stessi con la creazione di un’immagine rassicurante che possa placare ansie e dubbi e contemporaneamente lenire dolori antichissimi e recenti.
Per i lettori della Petri questo romanzo è un ritorno in famiglia, la famiglia Dos Santos, già seguita e amata nei due romanzi precedenti, e un ritorno nei luoghi cari all’autrice, scorci e dettagli di un Portogallo remoto, carezzevole, fascinoso, dolce ma patinato di nostalgie. Portati via dalla morte i personaggi scomodi e bizzarri (lo schizofrenico zio Humberto e il donnaiolo nonno Manuel Ramalhete), due posti in meno da occupare negli insostenibili ed imbarazzanti pranzi di famiglia ormai ridotti all’osso, la scena è tutta per i tre fratelli – i gemelli Vasco e Joana e la sorella maggiore Rita – per il loro ingombrante padre Tiago, uomo arrogante che ama esibire la propria ascesa politica ed economica,e per la nuova acquisita Luciana Albertini, moglie di Vasco e artista vicina all’apice del successo.
Le relazioni interne della famiglia, già guastatesi con la morte di Maria do Ceu, inarrivabile madre coraggiosa e struggente del primo romanzo, si spezzano quasi del tutto dopo la mostra della Albertini in cui i membri della famiglia del marito vengono ridicolizzati e i freschi sposi sono costretti a trasferirsi nella Roma della Garbatella in cui la vorace artista va a caccia di altre aspirazioni con l’inseparabile Barabba, anziano cane quasi umano (un Osac più domestico e saggio, per i lettori de Il mio cane del Klondike) in grado di dialogare con la padrona con sguardi assai significativi e sempre complici.
Ma l’amore, più di ogni altra cosa, è esso stesso rappresentazione: come mostrarsi all’altro? Nei propri lati migliori e seducenti o in quelli più oscuri e misteriosi? E non sarebbe meglio essere sé stessi? Forse sì, ma bisognerebbe sapere con certezza chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo in futuro.
Il passato di Vasco (e in parte quello della gemella) è tutto racchiuso in un grumo corrosivo di rabbia e di rimpianto per una madre che ha fatto della cura della primogenita sfortunata Rita (nata con il volto sfigurato e costretta a subire decine di dolorosissimi interventi chirurgici) il proprio credo, fino al punto di rendere gli altri due figli invidiosi di quella deformità che assorbiva tutte le attenzioni e le energie materne; il presente è occupato da quella piccola donna geniale che è entrata nella sua vita come una folata di vento rigenerante e, in un angolino appartato della mente, dal sogno, sorgente e agonizzante, dell’apertura di una galleria di travolgente successo; il futuro è ovviamente un’incognita per tutti, ma su Vasco è semplice effettuare previsioni, perché nel pantano stagnante in cui si muove con indolenza gli unici sassi gettati ad incrinarne la superficie sono quelli di un cucciolo di gatto di cui innamorarsi perdutamente (la versione felina e giovane del vecchio Barabba su cui regnare da sovrano incontrastato) o quello costituito dalla voce da sirena della sorella gemella, amata in maniera morbosa, che lo calamita a sé con la speranza di spezzare lo scomodo legame con la moglie italiana che ha infangato la famiglia e con quella di ottenere finalmente l’attenzione e la gratitudine paterna.
L’amore, dunque, si diceva, l’amore dall’aperto sipario in cui recitare per sé stessi e per l’altro.
Così mentre la Albertini (quasi sempre chiamata per cognome dalla voce narrante in un sopravanzo di rappresentazione) indossa il suo cliché artistico con leggerezza e convinzione interpretandolo fino a farlo suonare falso e istrionico, il bellissimo Vasco dalla malconcia dentatura (che non mostra mai per non appannare la propria alta considerazione estetica) studia diversi copioni alla ricerca di un ruolo da protagonista senza trovarne nessuno adatto alle proprie esigenze di vita comoda e lussuosa a ridottissimo dispendio di energie. Il richiamo della terra d’origine è sempre più forte, come quello della gemella Joana, che ha dovuto subire l’onta del tradimento del marito (presto restituita al mittente) nonostante la perfetta bellezza, e dell’odiato padre Tiago, detto il “Dinosauro” per il suo autoritario conformismo, che possiede l’innegabile pregio di un portafoglio sempre gonfio di denaro e di carte di credito cui poter attingere dopo essersi umiliati a dovere.
Tra tutti i personaggi scolpiti dalla Petri svetta, per puntualità di analisi e capacità introspettiva, Vasco, riconducibile alla moltitudine di inetti della letteratura primonovecentesca (o, se vogliamo andare più lontano, il riferimento d’obbligo è Oblomov del russo Ivan Aleksandrovič Gončarov) fratello nel “sentire” la vita e le sue lusinghe di Mattia Pascal e parente stretto nella percezione delle proprie inadempienze di Zeno Cosini, un mix irresistibile di narcisismo e autocommiserazione in costante lotta con le schiaccianti figure del padre (ed ecco fare capolino ancora Italo Svevo e un po’ di Franz Kafka) e della moglie che rappresenta il porto materno da una parte e la fonte perenne di invidia mal repressa dall’altra.
Talvolta sembra quasi che la Albertini funzioni più come polo oppositivo del marito che come personaggio a sé stante e tutte le stravaganze compiute per “esigenze di identificazione” – calarsi nel personaggio di Teresa d’Avila, in una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij nel campo artistico, e percorrerne quasi le impronte per dipingere dei quadri sulla santa – non la rendono più autentica. E in questa direzione non aiuta neanche il proposito, ad un certo punto non più perseguibile per motivazioni superiori, di uccidere chi ha causato la morte dell’amato padre. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi punti di forza, lo sguardo candido e privo di malizia, l’amore assoluto per l’arte, l’indulgenza nei confronti del marito francamente un po’ cialtrone, la rendono quasi un’aliena, tanto che la coalizione dei Dos Santos contro di lei, che, come acutamente nota Joana, non hanno bevuto le sue “pose” artefatte ed esibite, sembra quasi un necessario (quanto immorale) atto di epurazione nei confronti del “diverso perturbante”. Ed è quasi un paradosso, perché il personaggio della Albertini ha una sua dichiarata fonte di ispirazione nell’omonima artista perugina amica dell’autrice e se da un parte ciò rende perfettamente credibili i tortuosi percorsi mentali di elaborazione dei dipinti, grazie ai quali il lettore viene risucchiato dal processo creativo, dall’altro stride l’adesione all’immagine in fondo scontata di artista un po’ matta ma geniale che si delinea senza strappi o evoluzioni. Evoluzione invece presente e ben articolata quando sotto il riflettore non è più l’artista ma la donna innamorata e poi delusa, infine pronta ad una ripartenza che contiene già in sé un’eco del perduto amore.
Superata la fase della rabbia e forte del calore ancor presente emanato dal privilegio dell’abnegazione materna, Rita invece continua a piacere e a convincere nell’affetto discreto dispensato ad una famiglia che sostanzialmente la tollera, nella gestione oculata del suo denaro, nella consapevolezza che quel poco di bene che le arriva è una concessione della vita e non un diritto, nella rinuncia a qualsiasi compenso risarcitorio nei confronti di una natura per lei tragicamente matrigna.
La limpida scrittura della Petri rende compatta la partitura narrativa che si snoda senza mai incespicare e spinge il lettore ad inoltrarsi velocemente tra le pagine. Talvolta torna su temi e motivi già esposti con piccole modulazioni, perché anche nella vita vera ciascuno possiede pensieri ricorrenti ed ossessioni che costituiscono nuclei importanti della personalità e pezzi ineliminabili di un vissuto talvolta indigesto.
A conclusione di questo lungo, avviluppante percorso nella trilogia della Petri, non ce ne vogliano gli altri personaggi, ci piace conservare la tua immagine, Maria do Ceu, che guardi e sorridi da lontano carezzando il volto martoriato della tua Rita. Ovunque tu sia.
Romana Petri
La rappresentazione
Mondadori 2021
Pagine: 408
€ 20,00