Poltiglia d’etaoin
@Antonio Castronuovo 05-08-2021
Attorniati da una narrativa mesta, che ha fatto dell’afflizione la propria cifra primaria, colpisce la materia dell’esilarante e spietato Etaoin, romanzo di Beniamino Dal Fabbro che esce in nuova edizione a 50 anni esatti dalla sua prima pubblicazione nel 1971 presso Feltrinelli. Il romanzo si poneva al vertice della produzione narrativa di Dal Fabbro, intellettuale di multiformi interessi, ma fu sfortunato: generò qualche attenzione in alcuni critici di vaglia (Prezzolini ad esempio ne colse la tonalità corrosiva e beffarda), ma sollevò anche opinioni negative. Il giudizio sull’opera fu insomma alquanto oscillante e vi concorse il fatto che non rientrava negli schemi letterari dell’epoca.
In relazione al curioso titolo va notato che e.t.a.o.i.n. sono le lettere attigue sulla tastiera con cui, quando si usava la linotype, si completava una riga (e che talvolta i correttori dimenticavano di eliminare). Nel romanzo la sequenza diventa un concetto di valore simbolico: la barriera convenzionale e limitativa che la realtà esercita sulla libertà dell’uomo, impedendone la realizzazione. Da questa specifica geografia simbolica, etaoin si allarga sulla comunicazione, rivestendo il senso di confusione mediatica, ciò che l’autore addita nel romanzo come «quella roba mucillaginosa e frusta della cronaca, brulicante di falsi problemi, scritta peggio di quanto potrei fare io […] melma concettuale e verbale, esperanto a basso livello empirico con pretesa catartica».
I mirabolanti fatti narrati in Etaoin si concentrano in maniera originale sulla riduzione a «massa unica» degli umani spettatori: le loro cognizioni, i loro sentimenti sono ormai dipendenti dalla perenne inoculazione di impulsi, dalle incalzanti frenesie della melassa di etaoin. La televisione è il bersaglio principale della narrazione, ma non solo: l’invettiva è portata contro l’intero secolo, che «fa di tutto per ricordarsi e per imporsi a noi in ogni momento, e noi in fuga ci rintaniamo per sottrarci ai suoi tentacoli che s’appiccicano addosso». L’autore detesta insomma l’ideologia della cultura di massa, l’universo della politica e del clericalismo, il dispotismo di quegli «edittatori» che non cercano più la qualità dell’opera ma si piegano alla convenienza del mercato: è l’intera società del secondo Novecento a cadere sotto la sua frusta.
Siamo stati intossicati – nel corpo e nello spirito – dal disastro dell’informazione, e che ciò stesse celermente accadendo lo aveva ben immaginato Dal Fabbro, autore di un romanzo in cui i tubi catodici esplodono, ma ciò causa purtroppo la fuoriuscita del liquame informativo, l’etaoin, che si espande per le strade e sommerge edifici e persone, come fosse Blob, l’indistinta poltiglia monocolore che pigramente avanza e ingloba ogni cosa. E tutto accade in quella fine degli anni Sessanta in cui la tivù stava compiendo i primi passi: ciò che avrebbe combinato della misera umanità poteva prevederlo solo una mente postuma. Dal Fabbro ne trasse un romanzo che, generato da uno stile ironico e inventivo, si profila come avanzato esperimento letterario, prodotto di scrittura composita e dagli accostamenti stravaganti, saturo di figure retoriche e neologismi insolenti. Ma molto, molto arguto.