Mimesi fatale
Note intorno a “La sposa in nero” di Cornell Woolrich
@ Lucia Tempestini (23-05-2020)
La notte ha mille occhi a New York e in ciascuno di essi si trova una scintilla di tenebra – un transito fra sonno e veglia, fra sogno e realtà, fra realizzazione e annientamento, fra desiderio e perdita – entro la quale è possibile incontrare la propria morte.
Una donna gelidamente empatica che fuoriesce, sempre diversa e bellissima, dalle ombre notturne (silenziosa, garbata, sola), incarnando di volta in volta “l’ideale” fantasmatico di una serie di uomini mediocri e (forse) segnati dalla colpa per condurli a una fine orribile, è la protagonista fatale, archetipica del romanzo più dolente di Cornell Woolrich: “La sposa in nero” (1940).
Si può morire in pochi istanti, senza nemmeno il tempo di un consapevole rammarico. Con lo sguardo ferito da una lama di stupore doloroso.
Si può morire come Bliss, alla vigilia delle nozze, cadendo dal terrazzo di un locale mentre si stringe ancora nel pugno un velo da donna che sembra uno “sbuffo di fumo nero congelato”.
E’ possibile che gli occhi sbarrati dallo spavento e dalla sorpresa, conservino ancora una traccia sbiadita o vivida (chissà) dell’enigmatica apparizione alonata di biondo e azzurro che, con discrezione, ha seguito l’uomo per tutta la sera.
Oppure si muore come Mitchell il fallito, disprezzato persino da Miriam, la donna delle pulizie giamaicana che lavora all’Albergo Helen fingendo di ramazzare camere squallide e corridoi scrostati con un bastone alla cui estremità si possono ancora notare i residui di una qualche fibra (perché, quando si è in fondo alla scala sociale, l’unica forma di rivalsa che rimane è sottolineare la sconfitta altrui). Nelle stanze si respira polvere e muffa, gli abiti sanno di armadio vecchio e gin, sui tappeti stinti che ricoprono l’assito cade a volte un vecchio biglietto delle corse, un pezzo di carta con il numero di telefono semicancellato di una qualsiasi Betty o Louise, una cartina di fiammiferi vuota; lacerti di esistenze alla deriva.
Mitchell insegue, con l’angoscia di un cane affamato e solo, un’immagine femminile pervasa di esotismo, mistero, eleganza e, visto che l’illusione (più o meno consapevole) è preferibile al Nulla, traveste da sofisticate avventuriere le cameriere di Childs e le commesse di Hearn per creare nel suo alloggio polveroso e gramo una sorta di galleria fotografica di fascinose conquiste. Proprio una raffinata Signora dai capelli rossi lo inviterà inopinatamente a teatro suscitando in lui la speranza di una svolta miracolosa del destino. L’immagine sinuosa e anelata, alla fine, non sarà che una rapida, feroce dissolvenza fra spasmi agonici.
L’ottuso Moran, bovinamente soddisfatto della posizione raggiunta – lavoro solido, villetta a schiera, moglie devota, figlioletto garrulo -, morirà soffocato in un ripostiglio dell’amatissima casetta, murato vivo (come Fortunato in “La botte di Amontillado” di Poe) da una falsa e premurosa maestrina dalle preziose attitudini domestiche. Mentre il fatuo pittore Ferguson verrà trafitto da una Diana cacciatrice dotata di chioma corvina e curve perfette.
La narrazione, a lungo ellittica e sussurrata o rauca, si avvita in un finale apparentemente intricato e poco plausibile che tuttavia, proprio per l’accentuato sentore d’irrealtà, spinge l’intera struttura verso un clima minuzioso e onirico alla Poe, o metafisico alla Dürrenmatt, con tanto di inattese rivelazioni, beffe maligne del Caso, e terminali rese dei conti.