Esordisce con tre recensioni la nostra nuova rubrica di cinema: “La seconda occasione”, che ogni mese cercherà di riaccendere i riflettori su opere di alcuni anni fa, italiane e straniere, che per i motivi più vari non hanno avuto grande fortuna. Lo splendido ‘Voyage of Time’ di Malick, ad esempio, non è stato neppure distribuito.
L’axis mundi di Libby Day. ‘Dark Places’, con Charlize Theron
@ Lucia Tempestini (27-08-2020)
Nonostante l’accumulo di stereotipi appartenenti al genere thriller, la sceneggiatura di Dark Places appare costruita con rigore, nella perfetta, inquietante misura dell’alternarsi di presente e passato, e nel lento disvelamento, con accorti depistaggi, di una verità sconcertante. La storia è innescata dalla misteriosa strage di una famiglia – madre e due figlie, unica sopravvissuta Libby, la bambina più piccola. Ci troviamo in uno di quei villaggi dell’America profonda, ricoperti di polvere e derelizione, che abbiamo imparato a conoscere in una quantità impressionante di film contemporanei: miseria interiore e materiale, adolescenti fragili e aggressivi, persi fra droghe di risulta e satanismo da fumetto o B-movie, sesso precoce usato come antidoto alla noia, assenza di prospettive.
L’impietosa ostilità dei nuclei familiari meno colpiti dall’indigenza verso chi invece si trova in piena bancarotta domestica non soprende granché, trattandosi di una delle manifestazioni da manuale dell’angustia mentale di certe minuscole comunità. La scarsità di mezzi che accomuna tutti – interessante l’accenno agli agricoltori rovinati da istituti bancari privi di scrupoli –, anziché generare solidarietà, fa deflagrare odio e disprezzo, fino al vero e proprio ostracismo persecutorio. E’ questo il motivo principale per cui Ben Day, ragazzo troppo povero e “strano”, fuori dai canoni, viene accusato prima di pedofilia e subito dopo di essere il responsabile dell’uccisione della madre e di due delle sorelle. Libby, piccola e traumatizzata, non riesce a riordinare la sua memoria in frantumi, ed è quindi facile per la polizia indirizzare i ricordi della bambina.
Il complesso personaggio di Libby – interpretato da una Charlize Theron ruvida, ferita a morte e inchiodata a una non-vita – rappresenta uno dei due cardini sui quali ruota l’intero film. L’altro è l’uso allegorico degli ambienti chiusi, che molto sarebbe piaciuto a Hawthorne, e un po’ anche a Lovecraft. Attraversiamo zone solo apparentemente circoscritte, mondi paralleli come, ad esempio, una smisurata lavanderia deserta che suscita inquietudini agorafobiche à la Kubrick, o mondi di sotto legati agli istinti e alla sopravvivenza, cavità dove abita il più profondo dei crepuscoli, vere carceri sotterranee dai chiaroscuri piranesiani. Anche la casa di Libby slitta verso la rappresentazione metaforica. La ragazza è sommersa dai reperti del passato, che occupano tutto lo spazio fisico disponibile. Scatoloni, cassette di legno, vuoti a perdere, com’è ormai diventata anche Libby, sorta di tomboy aptofobico connotato dalla malagrazia tipica di chi ha perso troppo presto l’innocenza e si difende chiudendosi dentro un carapace (non sai quante persone ho picchiato). Ma, a differenza di Marcel, l’Io narrante proustiano, non ricerca il “tempo perduto”, perché i ricordi non sono ricostruiti e rielaborati nella memoria in qualcosa di vivo e proteiforme, bensì ridotti a materiale inerte cristallizzato per sempre. Lo sguardo retrospettivo risulta passivo a causa della stasi emotiva. Così la vita di Libby appare bloccata da 28 anni.
La ragazza non studia, non lavora, sopravvive dalla notte della strage grazie ai sussidi e alle donazioni volontarie che negli Stati Uniti sono una pratica diffusa in casi come questo. Però avvengono continue tragedie, continui crimini; col tempo l’attenzione dell’opinione pubblica diminuisce fino a scomparire, distolta da altri sopravvissuti da sostenere economicamente. Libby accetta quindi un’offerta di denaro dal Kill Club, un gruppo di detective dilettanti, sovvenzionato da squilibrati autentici, ossessionati dalla missione di ottenere la revisione di processi celebri. Sono convinti che la ragazza abbia mentito in sede giudiziaria e le chiedono di ricostruire l’accaduto. Con evidente riottosità la ragazza comincia a cercare, in sé e fuori di sé, le tracce confuse degli eventi. Ha un colloquio con il fratello, in carcere da decenni. Rintraccia il padre, spacciatore violento e fallito, che Shakespeare avrebbe definito uomo bestiale, non onorato con forma umana, prossimo alla morte e annidato in un abisso di tenebra scavato all’interno di un hangar. Ritrova nel cuore la figura disperata e dolce della madre e a poco a poco risale il suo axis mundi. Fino a scoprire e accettare la verità, con tutto il carico di amarezza e liberazione che questo comporta. La vita può ricominciare a seguire il suo corso.
Dark Places
regia di Gilles Paquet-Brenner
con Charlize Theron
produz. Francia 2015