La persistenza dell’azzurro. ‘La vita di Adèle’, un film di Abdellatif Kechiche, Palma d’Oro Cannes 2013
@ Lucia Tempestini (02-09-2020)
a Simona
La vita di Adèle non fa parte di quei film la cui grandezza si manifesta immediatamente. Piuttosto, ruvido e impietoso, induce a scostarsi, quasi a evitare un’indefinita contaminazione. Se dapprima sgomenta e respinge, s’immerge tuttavia nel fiume carsico della memoria, per riaffiorare ciclicamente, con un’inaspettata potenza ipnotica.
Il nucleo della storia è il corpo con la sua luce ossessiva, pasoliniana. Il tribadismo sfrenato dell’incontro erotico fra Emma e Adèle, durante il quale la consistenza materica del gesto e delle membra trascende il concetto stesso di amore (e forse di piacere), rimanda paradossalmente al livido, laico martirio di Ettore – il ragazzo protagonista di Mamma Roma – sul lettino di contenzione del carcere, mutuato dal Cristo di Mantegna, così fragile e umano, spogliato persino della possibilità di risorgere. Perché ricerca e dissoluzione dell’estasi, passione e meticolosa sfrontatezza di pratiche e dettagli carnali che precludono il passaggio successivo verso la trasfigurazione, vivono e muoiono nell’incrociarsi casuale e transitorio di sguardi, destini e desideri, nell’immanenza invalicabile dei corpi.
Kechiche svela la caducità dell’illusione amorosa nonostante la prevalenza iniziale degli istinti, cucendo, punto dopo punto, il sudario con cui avvolge i meccanismi relazionali che via via uniscono e separano le due ragazze. Mostra senza indulgenze come, perfino nell’attrazione irresistibile che un corpo esercita sull’altro, si aprano un varco canoni e stereotipi interiorizzati.
Nell’ottava elegia duinese di Rilke leggiamo che “il libero animale va in eterno, come vanno le fonti”. Ma nessun essere umano è libero da se stesso. Non Emma, pretestuosamente gelosa e caparbia, quasi scorbutica, nel suo inseguire uno stile di vita intellettuale affettato, nella ricerca “à la Balzac” di un ruolo significativo nel mondo artistico e di una compagna di vita più consona, più “presentabile”, anche se sessualmente meno affine.
Tantomeno appare libera Adèle, così vorace e legata ai bisogni primari del cibo e del sesso. Vincolata, asservita a un minimalismo che trasforma gli atteggiamenti da eroina romantica umiliata in supplica querula e irritante.
L’impossibilità che Adèle manifesta di elaborare la separazione occlude la corrente liquida della vita, portando elementi fantasmatici di Emma in ogni angolo del mondo, in ogni singolo oggetto. Così tutto – un asciugamano da spiaggia, un ombrellone – si colora di azzurro, insinuando nel presente, per una coazione a ripetere mnemonica, il colore dei capelli dell’amata. Il desiderio si autoalimenta attraverso il rimpianto incessante, mutandosi in quel dolore che rappresenta comunque una forma di persistenza, pur sterile, di chi è in qualche modo scomparso oltre l’orizzonte, misera alternativa alla presa di coscienza definitiva dell’abbandono.
Con sorpresa scopriamo di trovarci in prossimità degli angoli dietro i quali, dopo un’apparizione abbacinante e indistinta, svaniva l’essenza dell’Albertine proustiana.
La vita di Adèle
Un film di Abdellatif Kechiche
Con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos
Prod. Francia, 2013