Il sorriso del Male. ‘Follia’ di David Mackenzie, dal romanzo di McGrath
@ Lucia Tempestini (03-10-2020)
Stella Raphael, moglie di uno psichiatra cui non difettano certezze e autocompiacimento, galleggia in una bolla di vetro piena del liquido amniotico paterno (o meglio paternalistico) prodotto in gran quantità dal marito, che le si rivolge con noncuranza chiamandola la mia paziente preferita. Questa esistenza protetta le intossica a poco a poco la mente, facendola slittare verso un’accidiosa tendenza all’alcolismo. La sequenza iniziale mostra l’avvicinarsi notturno della coppia al manicomio criminale del quale il dr. Raphael è stato appena nominato vicedirettore. L’obiettivo segue lo sguardo di Stella mentre percorre le stanze della nuova casa – gelide funzionali disperatamente vuote – fino a incontrare i vetri rotti della serra. Proprio lì, in quello spazio segnato dal disordine, dalla non conformità alle cerimonie sociali, la donna sceglie di sostare per qualche minuto.
Il malessere di Stella – un’insofferenza profonda – aumenta di pari passo con l’oscura attrazione che esercitano su di lei i padiglioni di degenza. Un corridoio si biforca e la protagonista abbandona la luce per imboccare il proprio lato di tenebra. Meglio dei molti sorrisi appare perfino il buio della mente; il sorriso del marito, che sembra piovere da altezze inviolabili, il sorriso della madre del dr. Raphael, avvelenato dal disprezzo, il sorriso secco – con un’ombra melliflua; all’inizio del duemila il Male lo si è intravisto due volte: in quest’ombra e nei sorrisi dei due anziani turisti di Mulholland Drive –, da funzionario psichiatrico, del dr. Cleave, i sorrisi compunti o depensati delle signore del circolo femminile dell’Istituto, vaporose e pragmatiche tanto nel glamour para-windsoriano quanto nel garrulo decoro degli abiti in cotone stampato (motivi floreali, of course).
Non sorride, invece, il paziente Edgar Stark, scultore internato dopo aver massacrato la moglie per gelosia. Guarda, divora febbrilmente Stella, la avvince, la contamina con la propria ossessione, la porta a consumare un veemente rapporto carnale nella serra – il primo di una serie infinita -, in cui la materia organica cerca soltanto, con cieca violenza, se stessa, il buio della pura consistenza. Che questo avvenga proprio nella serra non è un caso, ma una traccia stilistica. Come in Mary Reilly di Frears, la struttura interna degli ambienti – la loro qualità – assume un ruolo di primo piano. Mackenzie, attraverso scenografie di ricercata inquietudine e una fotografia che scinde luce e ombra, anima in senso romantico abitazioni, giardini e strade londinesi, facendone un unico iper-personaggio metafisico e oscuramente minaccioso.
Del resto, nella scrittura di McGrath, come in quella di altri autori britannici moderni, si manifesta un sorvegliato – o, in qualche caso, lussureggiante – neo-manierismo, ultima, per ora, mutazione genetica subita attraverso i secoli da quell’originario concettismo che è una delle due forme dominanti della letteratura anglosassone – l’altra è il romanzo-conversazione, acuminato e a-metaforico. Da Henry James in avanti, l’ibridazione neo-barocca fra creature umane e cose inanimate ha la funzione di instaurare un’atmosfera di enigma esistenziale, di sospeso pericolo.
Un’insidiosa ambiguità è presente anche nella figura del dr. Cleave, entomologo dell’eros, vivisezionatore metodico del desiderio sessuale proprio e altrui. C’è un perverso rigore geometrico nel suo tessere la complessa tela di ragno che ingoierà, una dopo l’altra, le vite di tutti i personaggi, compresa la sua.
Dopo la separazione da Edgar, conseguente all’arresto avvenuto in Galles nei pressi di un rudere desolato, Stella scivola in fondo a un cunicolo del sé e da lì, da un’incolmabile distanza, guarda l’annegamento del figlio come cosa irreale. Nella parte finale si osserva il dibattersi della protagonista entro i labirinti sadico-scientifici di Peter Cleave, del quale è diventata paziente. Le speranze contrastanti – di rivedere Edgar, di poter condurre una vita normale con Peter, di poter superare il dolore – si sbriciolano nell’epilogo dal montaggio serrato. Stella sceglie di lanciarsi nel vuoto (per un istante affiora alla superficie della memoria – visione da icononauti Hollywood-dipendenti – il progressivo appannarsi del chiarore morbido e angosciato di Kim Novak in Vertigo).
Le sue ultime parole, davanti alla costernazione di Peter, sono lasciatemi sola.
FOLLIA (tit.or. Asylum Gran Bretagna/Irlanda 2005)
Regia David Mackenzie
Sceneggiatura Patrick Marber, Chrysanthy Balis dal romanzo di Patrick McGrath
Fotografia Giles Nuttgens
Musiche Mark Mancina
Montaggio Colin Monie, Steven Weisberg
Con Natasha Richardson, Hugh Bonneville, Marton Csokas, Ian McKellen