Diario dell’anno della peste (1)
@ Lucia Tempestini (11-03-2020)
La tentazione del silenzio era forte. Troppa la rabbia, lo sbigottimento davanti all’assurdo. Poi sono arrivati i post estatici davanti alla meraviglia delle strade vuote (le percorro ostinatamente quelle strade vuote, e mi appaiono soltanto il segno di una pericolosa anomalia), la proliferazione di odi alle delizie della casalinghitudine (insopportabili per chi considera case e condomini dei microcosmi concentrazionari), gli inviti criptici alla meditazione, i messaggi che descrivono il covid-19 come un dono prezioso consegnatoci da non meglio identificati ‘Illuminati’ – forse gli Eptapodi di Arrival – per favorire la trasformazione dell’umanità e l’avvento di un tempo nuovo. Ecco, tutta questa poltiglia femminea mi ha costretta a mettere ordine nei pensieri.
Prendo il primo spunto dalla bella recensione de I soliti ignoti scritta da Mattia Aloi per Scénario. “La scena della pasta e ceci diventa sintesi e conclusione esemplare della storia, i tempi dilatati rispetto alla pellicola propongono un sentimento di intimità e unione fra questi sventurati compagni (etimologicamente cum panis, che mangiano il pane assieme).” Negli anni ’50 nonostante miseria e fallimenti, esisteva il focolare simbolico della convivialità; consumare fianco a fianco un piatto povero ma gustoso commentandone gli ingredienti poteva diventare un episodio memorabile, capace di legare per sempre le vite degli amici riuniti intorno al tavolo. Questo mi porta a chiedermi che cosa, allora come oggi, ci caratterizzi come esseri umani. Quali necessità, quali desideri?
La mia gatta mi ricorda ogni giorno che la felicità consiste nella libertà del corpo di agire nello spazio circostante e nel contatto fisico con le persone care. La luce in fondo al palcoscenico del Teatro della Pergola mi conferma che la condizione di realtà non è sufficiente ad alimentare il fuoco vitale degli esseri viventi – anzi, spesso contribuisce a spegnerlo. Occorre qualcosa che operi una costante, epifanica traslazione del dato apparente su un piano diverso. Il ‘qualcosa’ non può che essere l’arte, la cui fruizione è per gli umani più importante dell’acqua e del cibo. Ma credo che a nessuna forma di vita basti la sopravvivenza organica; tutto tende all’espansione, persino gli alberi, e se costretti entro uno spazio limitato crescono storti.
Tutto questo: libertà di azione, possibilità di frequentare le persone care, le mille espressioni della cultura, ci è stato tolto per prevenire la diffusione di un virus giovane e di belle speranze. Il grido ‘state in casa’, per quanto raccapricciante, posso comprenderlo se arriva dal personale sanitario ormai allo stremo e disperato, molto meno se diventa un’imposizione governativa. Proprio oggi il Koch Institut ha dichiarato che il coronavirus non potrà essere arginato e che l’epidemia durerà per mesi o forse anni, finché non sarà realizzato un vaccino, almeno per il ceppo più aggressivo, o trovate cure efficaci, o l’umanità avrà arricchito il proprio bagaglio genetico di anticorpi specifici. L’illusione di debellarlo costringendo i cittadini agli arresti domiciliari – anzi, semilibertà come i detenuti modello, visto che al lavoro invece si può e si deve andare – si sta spegnendo in Cina e in Corea del Sud: dopo un calo temporaneo il numero di contagi è di nuovo in crescita.
Cosa pensa di fare dunque il nostro lungimirante governo? Tenere incarcerati gli italiani per anni? Fermare la vita, rubargliela? Non è un reato il sequestro di persona? Non è una violazione dei diritti umani ostacolare la libera circolazione delle persone? E siamo proprio così certi che questo abuso avvenga per proteggerci? E’ davvero un virus strano, colpisce in modo letale nei cinema e nei teatri ed è invece innocuo nelle fabbriche e negli uffici. Che bizzarria. Non sarà invece che la classe politica teme che si mostri al mondo in tutta la sua inadeguatezza un sistema sanitario nazionale che negli anni è stato progressivamente depotenziato per ragioni di bilancio? E che al Sud, da sempre, patisce un divario con quello del resto del paese cui nessuno ha mai cercato di porre rimedio? Siamo persino costretti ad accettare mille ventilatori polmonari dalla Cina.
Tiene così tanto al benessere degli anziani – infatti vediamo ogni giorno come il welfare si prende cura della terza età – da far sapere che in caso di carenza di letti in rianimazione verranno scelti i soggetti con maggiore aspettativa di vita. Ma come si fa a dare per scontato che un ottantenne ricco di saperi e memorie sia meno prezioso di un trentenne senza cervello?
Facciamo un passo indietro per esaminare meglio il punto che riguarda la cultura. La politica è convinta che gli attori e gli altri lavoratori dello spettacolo siano creature incorporee capaci di nutrirsi d’arte e d’amore. Non è così, quasi nessun artista può permettersi di rimanere inattivo uno, due o addirittura tre mesi, perché non è prevista alcuna forma di tutela per queste categorie. Non lavorare significa non mangiare e non pagare l’affitto. Se circostanze eccezionali costringono i teatri a una chiusura temporanea si deve provvedere subito a forme di risarcimento e protezione sociale per le compagnie, i tecnici, gli addetti stampa e i teatri stessi con tutto il personale che vi lavora.
Torniamo brevemente anche a ciò che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, la natura umana. Sono discorsi che senza dubbio non interessano granché alle Centaure contemporanee – metà donna e metà aspirapolvere – tuttavia è un dato comprovato anche dalla scienza che una comunità depressa e chiusa nella propria solitudine, senza più spazi culturali e senza il contatto con gli altri, tende ad ammalarsi più facilmente. E anche a perdere la cognizione di sé, fino a pensare che quell’ombra sul muro non sia la propria ma quella di un insetto infelice, rinchiuso in una stanza fino a morire d’assenza.
Per quanto io faccia non riesco a soffocare il sospetto che questa ‘strategia’ politica sia anche un sistema per accelerare il processo di metamorfosi degli individui in antropoliti (rubo la splendida definizione ad Amelia Bulboaca).
Invito tutti a partecipare alla nuova rubrica, sperando che abbia vita breve, avvisando tuttavia che non verranno pubblicati quei contributi che ferirebbero la sensibilità di Laura Brown (chi ha visto The Hours capirà) come, ad esempio, “La cucina nei film di Doris Day”.