QUANDO SI VORREBBE CITARE UN SOLO FILM
GIORNALE DI BORDO DELLA STAGIONE CINEMATOGRAFICA 2019-2020
@ Sergio Cervini
Con Simona Almerini – Mattia Aloi – Giuseppe Condorelli – Marco D’Alessio – Raffaella De Biasi – Antonella Falco – Edoardo Fontana – Lorena Gullone – Agata Motta – Pierluigi Pedretti – Silvia Scaravaggi – Lucia Tempestini – Lisa Tropea
Quest’anno preparare il nostro solito ‘giornale di bordo’ non si può dire che sia stato semplice. Le misure restrittive anti-covid decise dal governo e dagli 854 esperti che hanno tenuto in ostaggio per quasi 4 mesi un intero paese, e di cui anche su queste pagine si è inevitabilmente discusso fin troppo, si sono abbattute su ogni attività umana, colpendo al cuore soprattutto la cultura (chissà perché).
La mutilazione subita dalla stagione cinema ci ha costretti, nostro malgrado, a recuperare in streaming le opere più interessanti che sarebbero dovute uscire nelle sale dal 5 marzo in avanti. Di altre, la distribuzione è stata rinviata a settembre, si presume dopo la Mostra del Cinema di Venezia, che si terrà in forme purtroppo emergenziali, mentre è stato cancellato il Festival di Cannes e altre manifestazioni autunnali hanno annunciato il temporaneo trasferimento in digitale con una certa frettolosità pusillanime.
Proprio perché siamo convinti che mai come in questo frangente il cinema nel suo complesso abbia necessità di sostegno e attenzione, non ci è sembrato il caso di cedere alla tentazione di segnalare, per manifesta superiorità, un unico film. L’opera che ci ha abbagliati con la sua raffinatezza estrema e struggente: Portrait de la Jeune Fille en Feu di Céline Sciamma, da considerare non solo miglior film della stagione ma addirittura del decennio, e fra i capolavori della storia del cinema che resteranno indelebili nella memoria.
Il nostro diario si apre quindi ricordando Portrait, di cui in homepage ripubblichiamo tutte le recensioni. Dentro il perimetro angusto di un secolo, il XVIII, in cui predominava la grettezza di una classe borghese in rapida ascesa e molti varchi sociali erano ancora preclusi alle donne, le regole estetiche e figurative si conformavano alla compostezza anonima richiesta da un ceto dominante per il quale l’arte doveva restare uno svago inoffensivo, un ornamento muto da appendere in salotti e saloni, o addirittura assolvere una funzione utilitaristica, come i ritratti a scopo matrimoniale da spedire al possibile marito. Le artiste esistevano, e in numero maggiore di quanto si pensi. Ragazze che avendo appreso i segreti della pittura dai padri lavoravano nelle loro botteghe, dipingendo tele su commissione, dando lezioni di disegno alle fanciulle ed esponendo le proprie tele in mostre importanti – purché con il nome del famoso genitore, non di rado ingiustamente più famoso. Erano donne emancipate, viaggiatrici, che riuscivano a mantenersi con le loro opere. Coltivavano in privato abitudini e piaceri che in pubblico avrebbero suscitato sdegno e biasimo: fumavano utilizzando meravigliose pipe dalla silhouette esile, si concedevano l’ebbrezza di qualche pianta esotica e vagamente lisergica. Stoiche e abituate all’ostilità maschile, potevano risalire una scogliera da sole portando a tracolla il poco bagaglio e la pesante cassetta di legno contenente tele, carboncini, colori e pennelli. Come Marianne, la protagonista di Portrait de la Jeune Fille en Feu, opera di grande finezza e rigore di Céline Sciamma, la cui apparente rarefazione, scandita dai suoni della vita quotidiana e dai movimenti dei corpi, sprigiona piano piano una potenza narrativa e geodetica che è raro riscontrare nel cinema. In questo cerchio chiuso, nel castello circondato dal mare in burrasca dove Marianne è stata chiamata dalla Contessa a ritrarre Héloïse, le corse verso il limite estremo degli scogli e la tentazione del volo non rappresentano un desiderio di morte, ma di libertà, di espansione e conoscenza. La collera di Héloïse per un destino indesiderato si traduce in ansia di fusione primordiale con gli elementi – il vento e le onde. Si immerge per capire se è in grado di nuotare, perché se la sperimentazione di sé in rapporto al mondo non ha spazio diventa difficile trovare un senso alla vita. Durante i pochi giorni di assenza della Contessa, un uragano preromantico prende ad agitarsi fra le maglie di figurazioni e rituali del pragmatismo settecentesco. Mentre Céline Sciamma esplora le luci naturali e attraverso campi lunghi di estrema suggestione cita lo smarrimento dei viandanti di Friedrich, arrivando fino alla dissoluzione del soggetto in colore attuata da Monet, la passione amorosa spinge le due ragazze a elaborare un teorema di sguardi che sovverte il rapporto artista/modella. Dipingono insieme il ritratto, ispirandosi a vicenda in un continuo scambio di ruoli e di posizioni nel corso delle sedute. Durante i contatti fisici – trepidanti spaventati pieni di desiderio – Sciamma e le due meravigliose interpreti Noémie Merlant e Adèle Haenel portano in pieno sole quel prezioso frammento di assoluto che un bacio può contenere. Ogni particolare ci arriva addosso e ci abbaglia con l’incandescenza dei colori primari. Il fragore del mare, i corpi che si cercano, i tessuti spessi degli abiti, la densità delle pietanze, la cucina alla Hogarth, l’elegante fatiscenza della villa, le premonizioni, la pittura di Marianne nel momento in cui acquista vita e intensità espressiva e, in uno schizzo che riproduce una scena d’aborto, ricorda stranamente – forse per un’intuizione profetica – i colpi di pennello angosciati di Munch. Non dormire, il tempo concesso è breve. Raccontiamoci il mito di Orfeo ed Euridice, rileggiamo mille volte il finale. Perché Orfeo si volta sapendo che perderà per sempre l’amata? Perché fa la scelta non di un innamorato bensì di un poeta, eternare l’amore nel ricordo. Quell’ultima immagine non lo lascerà più. Forse è addirittura Euridice a sussurrargli girati, guardami mentre scivolo all’indietro e svanisco nell’Ade, solo così non ci perderemo.
Girati, intima Héloïse a Marianne l’ultimo giorno.
Girati. Guardami. [1]
La storia di Héloïse e Marianne è riuscita a surclassare persino due film di impressionante potenza visiva e narrativa come J’accuse di Roman Polanski e Joker di Todd Phillips, interpretato da un magnifico Joaquin Phoenix.
Non vorremmo tornare sulle polemiche che hanno accompagnato J’accuse ad ogni proiezione, perché il rischio di scivolare in un neopuritanesimo inquietante e aggressivo è concreto. Tuttavia appare ben più inquietante che nel 2020 le donne continuino a faticare terribilmente per trovare spazi artistici e meritati riconoscimenti, e che le poche o tante che nel mondo dello spettacolo si arrischiano a riferire molestie vengano trattate da isteriche, invidiose o profittatrici. E’ semplicemente vergognosa la denigrazione che si è abbattuta su Adèle Haenel in ambienti reazionari dopo il suo gesto veemente ma giustificato durante l’ultima edizione dei César. Un critico non dovrebbe occuparsi di questi aspetti? Un critico però non è un monaco stilita, abita la contemporaneità e uno dei suoi compiti è proprio quello di cogliere nei fenomeni culturali e in ciò che si agita intorno ad essi degli spunti di riflessione. Siccome – direbbe Brecht – può pensare, è inevitabile che pur in modo larvale si chieda quanto possa essere realmente consapevole il ‘consenso’ di una tredicenne e fino a che punto questo presunto, o indotto, favore riesca ad acquietare la coscienza di un adulto. Certo, fatti accaduti quaranta anni fa non dovrebbero continuare a influenzare il presente, e roghi e gogne sono sempre un sintomo di inciviltà, ma le vittime (perché tali sono, a cominciare proprio da Haenel) ancora oggi vengono fatte accomodare con eccessiva rapidità e frequenza sul banco degli imputati. D’altro canto, è comprensibile l’ira di Polanski per una persecuzione che sembra non avere fine e che non si spegne neppure di fronte alla limpidezza etica della sua ultima creazione. La senti subito. La intuisci con l’angolo estremo dello sguardo, con la concentrazione allarmata dei sensi. Avverti la rabbia. Uno sdegno implacabile che riesce miracolosamente a prendere le distanze da se stesso e, con una misura presente solo nei classici di cui si era smarrito persino il ricordo, a farsi occhio onnisciente che rivela i segreti mistificatori del potere a poco a poco, pedinando lo sguardo dei personaggi nei palazzi, nelle aule, negli uffici, dentro i faldoni, nei dossier, accanendosi sui volti dei molti generali e colonnelli e ministri e giudici e periti pazzoidi presenti nel film, facce gonfie come rospi, spigolose e crudeli, ottuse, sfigurate dalle pustole sifilitiche, senza omettere la ri-creazione accurata delle voci che deplorano l’immoralismo della nuova società francese levandosi con un gracidio di morte dalla fanghiglia maleodorante della menzogna e della manipolazione. C’è un sarcasmo allucinato, una mostrificazione sapiente nella quale riluce l’esegeta di Dickens, in questi ritratti di alti ufficiali ossessionati dalla sacralità dell’Esercito, che assistono sogghignando, sotto il cielo grigio, alla degradazione umiliante di Alfred Dreyfus – il sarto ebreo inviso a tutti per la serietà, il patriottismo autentico e il senso dell’onore, e perfetto capro espiatorio – appena condannato per alto tradimento. Mentre gli vengono strappati dalla divisa i simboli del rango militare – i bottoni dorati dalle olivette della giacca, le bande laterali rosse dai pantaloni –, travolto da un senso di ingiustizia il capitano Dreyfus grida la sua innocenza davanti alla folla acefala che, come sempre capita, gode a infierire su chi viene identificato come reietto. J’accuse può essere considerato l’elevazione all’ennesima potenza di The Ghost Writer. I due film hanno in comune il senso di una minaccia incombente e indefinita, l’evocazione delle forme elusive e illegali assunte dal potere, e la vertigine di alcuni segni prettamente hitchcockiani: l’attesa dell’ignoto, la sostanziale solitudine del personaggio principale, l’isolamento della vittima, che in J’accuse viene rappresentato attraverso un progressivo allontanamento dell’obiettivo dall’Isola del Diavolo – dove il Tribunale militare confina Dreyfus affinché nessuno gli possa parlare, ma soprattutto perché lui non possa parlare con nessuno – sino alla scomparsa della sagoma pietrosa dietro la linea dell’orizzonte. Altro topos in cui si può rintracciare la grammatica visiva di Hitchcock – questa volta innestata su un immaginario kafkiano di cui Polanski propone genialmente l’amarezza ironica (pressoché ignorata nell’Europa occidentale) – è l’utilizzo di interni claustrofobici e labirintici che tendono a slittare verso la dimensione simbolica. Quando al maggiore Georges Picquart viene affidato il comando dei servizi segreti dell’esercito, entriamo insieme a lui – insieme al suo sguardo – nella palazzina abbandonata all’incuria in cui si mimetizza il continuo, losco trafficare dei vari ufficiali e sottufficiali. Picquart è urtato dalla presenza di un sottobosco di informatori chiassosi che vivono come parassiti al piano terreno dell’edificio, dall’untume nero che ingromma persino maniglie e corrimani, dai miasmi di fogna che insieme al caldo soffocante impregnano l’aria rendendola irrespirabile, dall’incessante attività di sottrazione delle lettere private spedite (o strappate e gettate nel cestino, e successivamente ricostruite) dai funzionari delle ambasciate straniere. In questo luogo liminale e ambiguo sono state costruite le false prove contro Dreyfus e occultate quelle che avrebbero potuto incriminare il vero traditore, il colonnello Ferdinand Walsin Esterhazy, e qui Picquart riesce un tassello dopo l’altro a ricostruire l’intera cospirazione. Coscienza e rettitudine impongono al maggiore di iniziare una battaglia per la revisione del processo che gli costerà un anno di carcere, e in cui avrà un ruolo determinante Émile Zola con il celebre editoriale J’accuse, scritto in forma di lettera aperta al Presidente della Repubblica francese Félix Faure e pubblicato dal giornale socialista L’Aurore il 13 gennaio del 1898. Alla fine, dopo varie fasi processuali impervie e contraddittorie, sarà riconosciuta l’innocenza di Dreyfus. In J’accuse Polanski innesca un potente meccanismo narrativo per mezzo dell’amplificazione di senso dei dettagli, di quelli che potremmo chiamare oggetti di scena, osservati con una cura maniacale, dai pantaloni larghi dei soldati, introdotti nell’Ottocento per seguire la moda turca, ai loro abiti borghesi, dalle lampade a petrolio alle camicie da notte ricamate, dalle insegne dei ristoranti e dei bistrot alle posate. In momenti di supremo iperrealismo vengono rese visibili persino le venature della carta da lettere, il suo spessore e la sua qualità. In alcune sequenze, citando Manet, il regista riduce la profondità spaziale per rendere individuabili i personaggi dalla contrapposizione fra i colori degli abiti e le sfumature grigie o verdastre utilizzate per lo sfondo, pareti o altro. Fra le molte immagini indimenticabili, Polanski consegna all’eternità della storia dell’arte quella in cui in cui Pauline Monnier – l’amante di Picquart, interpretata con morbida, disincantata sensualità da Emmanuelle Seigner – appare seduta e avvolta nella luce chiara e velata del mattino, mentre dalla vestaglia leggera fuoriesce una gamba che si riveste di albore perlaceo. [2]
L’incipit di Joker, Leone d’oro 2019, è frammentato e ruvido. All’inizio è solo una questione di ratti schifosi. Di immondizia virtuale – i notiziari che vomitano la solita sbobba sui “tempi duri” – e reale – le strade invase da neri sacchetti di indifferenziata per lo sciopero dei netturbini – di una Gotham City piena di crepe che balla felicemente la sua fine ventura sulle note di un ragtime di strada. Come Arthur Fleck, clown part-time (sottopagato), giornalmente preda se non della teppaglia cittadina di un’indifferenza forse peggiore: morale (quella dei suoi simili) e materiale (un condominio sporco, anonimo e triste come le stanze che abita), assoggettato com’è ad un vissuto quotidiano che si declina solo in un lavoro alienato e incerto come la sua salute mentale; un’oscurità esistenziale insomma, che profuma di farmaci antidepressivi e di verdure per la madre malata che Arthur accudisce con paziente tenerezza. Vige un’atmosfera “disturbata” nel “Joker” di Todd Phillips, violento e straziante, nero e commovente che la colonna sonora antifrastica – da Frank Sinatra a Jimmy Durante; da Tony Bennett a Donovan; da Fred Astaire a Nat King Cole – rende ancora più labirintica e aggrovigliata. Tranne i sorridenti ebeti seduti alla Casa Bianca, un paio di intoccabili mafiosi, alcuni pezzi grossi della NSA, per non parlare dei boss (leggi: amministratori delegati) delle multinazionali, pochi hanno conosciuto (o sospettato) la vera America, se non quella forzatamente celebrata in tutte le salse mediatiche: fatta di inni nazionali, di lacrime sincere, di mani aperte sul cuore mentre sventola la bandiera e l’aquila si libra fiera nell’alto dei cieli, specie quelli mediorientali. Finalmente però, sulla facciata pulita e linda di quell’America comincia ad arrivare, ormai da tempo, un po’ di merda fresca: e questo “Joker” sembra finalmente tirare le somme di una lunga tradizione (non solo cinematografica) controcorrente, al vetriolo – e di altissimo livello – : da “American Tabloid” di Ellroy (1995), a “Uncle Sam” – per riferirci al fumetto – di Alex Ross (1997) solo per fare alcuni esempi. Il corpo sonoro e sociale di Arthur-Joker – un Joaquin Phoenix inarrivabile (e già scandalosamente espropriato della Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) – declina, in un fisico da deposizione, una metamorfosi singola e collettiva, proiettando sulle sue articolazioni scheletriche e tumefatte i traumi sociali di un’America pre-apocalittica; un martirio continuo e sistematicamente sostenuto dal loop perturbante della sua risata sgrammaticata, afflitta, insostenibile. E questa sua prepotente grandiosità interpretativa ci ricorda per intensità e capacità di penetrazione caratteriale il Christian Bale del kafkiano “L’uomo senza sonno” (di Brad Anderson, 2004) e lo Xavier Bardem di “Non è un paese per vecchi” (i Coen da Cormac McCarthy, 2007). Ma il riferimento più diretto ci pare lo stesso Phoenix de “A Beautiful Day – You Were Never Really Here” (di Lynne Ramsay, dalla penna di Jonathan Ames) vera e propria prova generale di “Joker”: un uomo traumatizzato dal suo passato pronto ad esplodere nella violenza più pura e autodistruttiva. Eppure è un buono, Arthur, che si illude che ogni tassello – lavoro, amore, affetti, salute mentale – possa andare tranquillamente al suo posto. Ma l’illusione dell’illusione è surrettizia ed è la più infida delle illusioni e si sbriciola davanti ad una vita senza verità. Arthur comincia poco a poco a comprenderlo (uccidendo quasi per caso tre balordi yuppies, i primi di una lunga scia di sangue): nella società dello spettacolo – disilluso ormai anche dell’amore materno (era stata o no l’amante di Wayne senior, adesso candidato a sindaco? e lui poteva addirittura essere il frutto di quella relazione?) – non può che mutarsi in qualcun altro. Joker infatti – parafrasando proprio Debord – “si produce da sé stesso, si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco.” Si ricrea giorno per giorno, ormai disinteressato a disciplinare logicamente i segnali che riceve da una realtà incoerente: è il signore della trasgressione in un mondo che è diventato un immenso teatro dell’assurdo. Joker però è un disertore senza malizia (per dirla con l’Enznsberger di “Politica e terrore”) anche se sue azioni libereranno la furia di classe – il mondo dei freaks cui appartiene funziona perfettamente come metafora di ogni sfruttato – e, di ritorno anche la sua: solo attraverso la violenza priva di giustificazione, Joker si riappropria dell’immunità e dell’intoccabilità che una volta il mondo concedeva e sopportava, per farsi demiurgo onnipotente della città. Da questo punto di vista “Joker” riflette le inquietudini metropolitane contemporanee: non è certo un caso che la Gotham di Phillips echeggi essenzialmente New York (ovvero l’icona della megalopoli moderna): ma è anche Hong Kong, le banlieu parigine, le periferie a rischio di Bruxelles o quella disagiata di Librino. La danza sulle note maledette di “The Hey Song”, di Gary Glitter lungo le scale del quartiere di Highbridge, sembrano celebrarle tutte con sinistra leggerezza: Gotham è uno specchio: è autodistopica. Una città in cui (come notava giustamente Daniele Porretta in “Immagini della città del futuro nella letteratura distopica della prima metà del ‘900”) dominano “la verticalità, l’artificialità, il gigantismo, la densità”. Una metropoli in cui la city linda degli uomini d’affari in doppiopetto è appena sfiorata: le sequenze di Phillips ci mostrano piuttosto gli slums, i sottopassaggi abitati da barboni e frequentati da disoccupati e alcolizzati, (lampeggiano quasi in modo subliminale echi da “La strada” di Cormac McCarthy, ancora!), i bar di second’ordine, i fast food come schegge impazzite di colore conficcate nella sera, le stazioni della metro, il vai-e-vieni affollato e sudaticcio dei pendolari: davvero memorabile la sequenza in cui il treno è un ago che inietta la sua dose di forza-lavoro nelle vene di una città che mostra all’orizzonte i falli dei suoi grattacieli. Per molti della mia generazione – quella che divorava le graphic novel di Grant Morrison e di Frank Miller che si faceva un’idea più vera dell’America e del mondo leggendo Howard Chaykin e Alan Moore – questo “Joker”, paradossalmente, non ci sorprende affatto: è finalmente vero. Todd Phillips ci restituisce un personaggio che nelle altre pellicole, incentrate tutte sul Pipistrello (che qui è solo un piccolo ratto aristocratico ancora senza le ali), pareva solo una “spalla” (anche se con interpreti eccezionali), una caricatura gotica di se stesso: tutto sommato solo un “semplice” criminale fuori di testa, intelligente e diabolico secondo i cliché, spassoso a tratti. L’umorismo di questo Joker, al contrario, non spinge affatto al riso, è pirandellianamente la forma di una verità inconoscibile. Anzi: insostenibile. Con “Joker” il cinema scopre forse solo adesso gli abissi del fumetto e la sua capacità di leggere e anticipare la disgregazione della società attraverso il filtro del disagio e della malattia: perché Joker è, in fondo, uno tra le anime sommerse che lottano contro la disperazione e la follia, abbandonate pure dai servizi sociali che chiudono baracca per mancanza di fondi, lasciate alla deriva di se stesse. Allora lì dove ogni cosa è diventata impossibile, Arthur si libera di se stesso. Sboccia: completo, libero, amorale: Joker appunto. E’ lui il lusus, il controcanto irrazionale del mondo. E la sua risata finale isterica, scalena – che ricorda quella conclusiva dei “Sei personaggi” – diventa un ghigno che ci scava dentro. Ancora. E ancora. [3]
Un gradino più in basso ci pare l’osannato Parasite, forse perché ricordiamo i trascorsi di Bong Joon-ho in Netflix e i trucchi comunicativi appresi dal regista coreano sulla onnicomprensiva piattaforma a stelle e strisce.
Bong Joon-ho, assieme a Kim Ki-duk e Park Chan-wook è uno dei nomi di punta del cinema sud-coreano, che con Parasite, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, ha ottenuto finalmente un meritato riconoscimento internazionale. La famiglia Ki-taek, composta da due genitori e due figli ventenni, tutti e quattro disoccupati, vive in un seminterrato, cercando di arrangiarsi in ogni modo per tirare avanti. Un giorno un amico propone al ragazzo di lavorare come insegnante di inglese presso i Park, una ricca famiglia. Mai come in questo caso è consigliabile non rivelare la storia, dal momento che gran parte del fascino di questo film risiede proprio nella suspense e nei cambiamenti repentini di registro. Parasite infatti è un’opera complessa dove i vari generi piuttosto che intrecciarsi si susseguono, si passa così in modo inaspettato dalla black comedy al dramma sociale fino al thriller. Il film è ambientato in una Corea del Sud dove nuovo e antico convivono, non sempre armonicamente. Dove si comunica con whatsapp ma anche con il codice morse, dove uno stile di vita occidentale ha soppiantato molte tradizioni ma dove è ancora usanza regalare una pietra portafortuna. Un oggetto che assurgerà a totem e che rispettato nella giusta maniera porterà prosperità mentre se profanato attirerà solo avversità. Ma chi è il parassita del titolo? La famiglia povera che con un’astuzia da commedia italiana riesce ad infiltrarsi nel dorato mondo dei ricchi o questi ultimi, che “sfruttano” altre persone (anche se ben pagate) per compiere noiose mansioni quotidiane? Il film non fornisce una risposta e d’altronde non dà giudizi morali: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, perché ogni personaggio recita fino in fondo il ruolo che la vita, giustamente o meno, gli ha assegnato. Però emerge molto sottilmente una critica sociale contro un capitalismo selvaggio che ha assunto i tratti della new economy e che, piuttosto che abolire, ha inasprito le iniquità esistenti. È un aspetto apparentemente marginale che però rimane sottopelle dopo la visione del film. Più che mille dialoghi vale quella discrepanza scenografica che mostra da un lato una moderna villa progettata da un famoso architetto, dove non mancano la luce, il verde ed il silenzio e dall’altro uno scantinato infestato dagli insetti, davanti al quale un ubriaco fa la pipì tutte le notti. Ma soprattutto rimane impressa quella corsa che padre e figli fanno sotto il temporale, che sembra portarli dalla Valle Incantata ad un sottomondo oscuro e insidioso. [4]
E fra gli horror si è ritagliato un ruolo di classe The Lodge, presentato al Torino Film Festival 2019. Se inserite tre persone in una casa persa tra le colline di una remota località del Nord America – le riprese sono girate in Quebec – e le isolate dal mondo con una tempesta di neve e se queste persone sono fragili, variamente sofferenti e connesse tra di loro da rapporti non certo banali cosa può accadere? Questo è il plot di The Lodge, thriller psicologico con una inaspettata deriva horror, portato sul grande schermo nei freddi colori di una regia attenta ed efficace da Severin Fiala e Veronika Franz. La trama è piuttosto semplice, Mia e Aiden da poco hanno perso la madre suicida anche a causa dell’abbandono da parte del marito. Il padre Richard, chiede loro o meglio li obbliga a conoscere la nuova e bella fidanzata Grace − interpretata da una bravissima Riley Keough che da sola regge l’intero film − di diversi anni più giovane e traumatizzata da terribili avvenimenti accaduti quando era poco più che una bambina, unica sopravvissuta da un suicidio collettivo nella comunità religiosa che la ospitava. A tutte le informazioni abbiamo accesso nei primi momenti del film che ci accompagna subito nella casa, il lodge del titolo, dove ognuno dei protagonisti inizia a combattere coi propri mostri, reali e immaginari. E bastano, insieme ad alcune ravvicinate e insinuanti riprese della casa giocattolo dei due bambini – che diviene presto alter ego del luogo reale – fino a confondersi in uno schema sempre più astratto, a insinuare in noi il dubbio che accadrà qualcosa di terribile. Ma ciò che accade non è ciò che ci aspettiamo. Il freddo, quello dell’inverno meno di quello dell’anima, genera quei mostri. L’oppressione e il terrore indotti da una fuorviante religiosità vengono sottolineati dalla presenza di feticci e simboli: una madonna dipinta, un crocefisso, le bambole con cui gioca insistentemente Mia. La ripetizione esoterica di parole chiave che sono pronunciate o scritte rientra in un modello di reiterazione, uno schema circolare che pare impedire una vera libertà di azione dei personaggi, un vero libero arbitrio. L’orologio che presenta sempre la stessa ora e la stessa data, il tentativo di Grace di raggiungere la città più vicina, e dopo una giornata passata a vagare nella tormenta ritorna disperatamente al punto di partenza – alla casa che si trasforma da ecosistema chiuso a immagine concreta di un purgatorio -, rientrano nel claustrofobico disegno circolare su cui si basa l’intero film. Vagando nei percorsi più oscuri della mente, gli orrori si manifestano dapprima come intrusioni nel reale, invisibili, nelle notti abitate da oscure presenze, quindi sembrano attendere fuori dalle finestre che gettano uno sguardo sull’ignoto mentre attendiamo che dietro i vetri qualcosa, finalmente, come una liberazione, appaia dal bianco della neve. Ogni convinzione cade, persino quella di essere ancora vivi. Il corpo di Grace, spiato dall’adolescente Aiden mentre la ragazza esce dalla doccia, nuda, diviene luogo della punizione, del delirio autodistruttivo nell’invocazione disperata di una salvezza impossibile, ricercata tra il fuoco che purifica e il ghiaccio che ricopre lo stagno di fronte alla casa. La sua stretta raggelante impedisce il pensiero, obnubila la ragione, fino alle scene finali dove tutto si capovolge e l’inganno dei sensi appare svelato per costringerci a constatare che in fondo nulla è più potente dell’inconscio, nemmeno la morte. [5]
Ha deluso invece l’irlandese The Hole in the Ground. Si sa, in Irlanda il velo che separa il nostro mondo da quello delle leggende e del folklore è più sottile che in altri luoghi; qui certe storie che venivano narrate attorno al fuoco d’inverno suonano molto più concrete e ammonitrici: di notte se senti uno scalpiccìo di zoccoli nasconditi, potrebbe essere il dullahan che vuole la tua testa, e i leprecauni pretendono sempre un’offerta in cambio dei colpi di fortuna che promettono; sotto i ponti si annidano i troll e alla fine dell’arcobaleno c’è sempre una pentola d’oro. Poi c’è il popolo della foresta; spiriti dicono alcuni, elfi e folletti dicono altri. Ma in ogni regione d’Europa concordano: i bambini non devono andare nella foresta da soli, altrimenti verranno presi. Ma da chi? Quella del Changeling è una leggenda diffusa che si può riassumere in una frase, capace da sola di mettere inquietudine a qualsiasi genitore: “E se mio figlio non fosse davvero mio figlio?” Come il cuculo, i folletti sostituirebbero i bambini umani con i propri affinché la sventurata famiglia se ne prenda cura. Queste creature sono apparentemente identiche al bambino vero ma differiscono in alcuni atteggiamenti riconoscibili solo da un genitore (la leggenda infatti veniva spesso usata per spiegare malattie al tempo sconosciute come l’autismo). The Hole in the Ground ha il grosso merito di portare sul grande schermo una figura marginalizzata dal cinema nonostante le sue potenzialità: unico altro precedente è Daisy vuole solo giocare (The Daisy Chain, 2008) arrivato da noi solo in home video. Il film è costruito intorno a una sceneggiatura piuttosto semplice e funzionale: una giovane madre si trasferisce col figlio in una casa al limitare della foresta per sfuggire alla ferocia del padre del bambino. Da quando suo figlio si è perso nel bosco ed è stato ritrovato dalla donna al margine di una dolina, sembra cambiato nei modi: che i vaneggiamenti della vecchia signora che si aggira attorno casa abbiano un fondo di verità? Purtroppo, gli appassionati avvertono una sensazione di déjà vu per i molti spunti narrativi ritracciabili in qualsiasi film rientri nella categoria “bambini posseduti”. La colonna sonora è ottima e riesce a creare tensione senza ricorrere al facile jump scare, ma i pregi tecnici di molte sequenze non compensano una trama piuttosto piatta e prevedibile che, non senza disappunto, ci permette di intuire cosa succederà nelle scene successive. Altro punto critico è il sovrannaturale: si manifesta con eccessiva evidenza e in maniera unidimensionale, appannando sia il fascino del mistero sia quell’ambiguità fra realtà e presunta follia sulla quale un film del genere avrebbe potuto fare leva. Il finale claustrofobico è soltanto abbozzato e avrebbe meritato uno sviluppo più approfondito; la risoluzione lascia stupiti ma in senso negativo. Molto brava la protagonista Seàna Kerslake che con la sua interpretazione esce dallo stereotipo della vittima urlante: una ragazza risoluta e combattiva capace di reagire alle avversità, anche quando queste hanno la profondità di un abisso. Opera che non convince del tutto soprattutto per la mancanza di coraggio dello script, ma in ogni caso consigliato a chi voglia passare una serata concedendosi qualche leggero brivido senza il fastidio di espedienti orrorifici scontati o l’angoscia duratura di un film veramente disturbante. Lee Cronin, già autore di alcuni corti, si cimenta per la prima volta con un lungometraggio; peccato che questo Hole – L’abisso non abbia il mordente necessario. In ogni caso la tecnica c’è e confidiamo che questo regista torni a far parlare di sé con un film più audace. [6]
Consigliamo anche un action-movie travolgente: The Hunt è adrenalina pura, un film da vedere assolutamente, soprattutto in questi tempi di terribile torpore. Sarà pure un B-movie che riprende stilemi e contenuti di tanto cinema precedente ma sia l’onesta regia di Craig Zobel che soprattutto labravura degli sceneggiatori Damon Lindelof e Nick Cuse, in azione già sui Watchmen, danno vita a un film divertente nella sua semplicità costruttiva ed efficace nella sua scorrettezza politica. Per capirci: se avete amato il Jordan Peele di Get Out e Us, allora The Hunt è il film della vostra quarantena. Manipolando abilmente i generi (thriller, horror e action movie) e impastandoli con l’atavica questione di classe e spolverando il tutto con l’ironia i tre tirano fuori un prodotto che ci sembra tante volte di aver visto, ma che ha la capacità di rinnovare il nostro stupore inchiodandoci allo schermo per seguire le vicende dell’eroe di turno. Che apparirà quando meno te lo aspetti. E col botto. La scena memorabile, infatti, si trova a circa venti minuti dall’inizio del film, quando alcuni dei sopravvissuti sembrano avercela fatta. Hanno superato la recinzione della tenuta dove i cattivi hanno già trucidato alcune delle dodici inconsapevoli prede umane. Nella stazione di servizio sono accolti da una coppia di anziani. La salvezza è a portata di mano, ma da quel momento tutto cambia. Chi è la preda e chi il cacciatore? Si palesa per la prima volta Snowball (significativamente da La fattoria degli animali di Orwell), il protagonista, o meglio la protagonista,che scende in campo come le eroine dei film di Russ Meyer o di John Carpenter. Con un corpo atletico ed erotico la bionda Betty Gilpin, gìà apprezzata in Glow (Netflix), dà vita a Crystal, anche lei preda di questa caccia sconvolgente di cui non capisce il senso. Non è il momento delle domande, prima la sopravvivenza, ad ogni costo e con ogni mezzo. Ora bisogna essere più furbi e spietati dei cacciatori, meglio non fidarsi di nessuno e attaccare prima di tutti. Basta un piccolo segno a scoprire l’inganno: “Le sigarette in Arkansas costano solo sei dollari” e giù a sparare. Alla fine in un ironico e violento finale tutto si chiarirà in un modo o nell’altro: i dodici sono stati selezionati tra i frequentatori di siti web complottisti e poi rapiti, risvegliandosi all’interno del parco di una tenuta, il Manor, per essere cacciati come animali da un gruppo di persone della élite liberale milionaria. Cosa ha spinto costoro, guidati da Athena, donna anch’essa muscolare e spietata (“niente sentimentalismi, compagno”), a ideare questo perfido gioco? E chi è veramente Crystal? Già troppo è detto. Meglio non rispondere e lasciare il gusto di scoprirlo al pubblico che ama le storie forti. Non vi troverete di fronte ad un capolavoro, ma sicuramente The Hunt è un film significativo perché è calato nel nostro tempo, fatto di violenza e classismo. Senza volerlo paragonare all’alta qualità di Parasite, il film di Zobel, pur coi suoi limiti, richiama, avvincendo, l’attenzione verso un’urgenza sociale sempre più incombente e minacciosa. Il virus sta scoperchiando le contraddizioni di fondo della nostra società globale profondamente iniqua. “Siamo bianchi. Siamo i peggiori, cazzo” dice uno dei cacciatori. I ricchi chiusi nel loro egoismo sono oggetto sempre di più dell’invidia sociale, potendosi avvalere di molto denaro e della migliore sanità a pagamento, mentre i poveri, sempre più tali per mancanza di lavoro, dovranno aspettare tempi migliori, soprattutto in quei paesi dove le cure sanitarie sono carenti o nulle. Certo The Hunt fa denuncia con strumenti “popolari”, e può darsi che lo sguardo che questo film a basso budget getti sulle differenze di classe sia troppo semplice per coloro che si abbeverano alle fonti dell’alta cultura, ma molte volte è stato proprio il cinema (e la letteratura) di genere a svelare i limiti del mainstream e a squadernare al mondo verità dolorose. Meglio cominciare ad aprire gli occhi perché tutto può accadere. E non ci riferiamo solo alla rivolta dei bianchi impoveriti che fecero trionfare Trump in America lasciando sorpresi tutti i “democratici” del mondo, basta guardare nel cortile di casa e capiremo. Se lo vogliamo, perché non basta dire “questo paese appartiene agli ignoranti e agli incolti” per creare il paradiso in terra. [7]
Chiudiamo la digressione dedicata al sottovalutato cinema di genere per accostarci a cinque film che hanno nobilitato a sorpresa una stagione dal livello medio piuttosto basso, con l’eccezione dei capolavori citati all’inizio, ovvero Jojo Rabbit, Dark Waters, Georgetown, Duelles (Doppio sospetto) e Dylda (La ragazza d’autunno).
“Campagnolo!” Così il manager della DuPont liquida sprezzante Rob Bilott, l’avvocato che ha intentato una causa di risarcimento contro la multinazionale, accusandola di avere consapevolmente avvelenato per decenni un’intera comunità. La lunga sequenza dell’attraversamento di una città esanime – mentre dalla radio John Denver si strugge con l’antifrastica “Take Me Home, Country Roads” – inquadra perfettamente la questione: “l’Almost heaven, West Virginia…” è in realtà una discarica di prodotti chimici non classficati. Altro che paradiso: fattorie come cimiteri, paesaggi brulli e spogli, alberi secchi e grigi, isolati lugubri e silenziosi, nelle cui vie girano in bicicletta bambini dai denti neri. Benvenuti a Parkersburg, nella Virginia occidentale. Lì dove cominciano a scorrere le Dark Waters dell’omonimo film di Todd Hynes (da “Carol” a “La stanza delle meraviglie” non ha sbagliato un colpo) che racconta la storia vera ispirata all’inchiesta del New York Times Magazine “The Lawyer who became DuPont’s worst nightmare” di Nathaniel Rich, pubblicata nel 2016. Già: “campagnolo”. Quell’insulto contro Bilott – non potrai mai essere uno di noi visto da dove vieni – segna un confine invalicabile: da una parte il futuro-capitalismo deregolato ed ereditario, leviatano burocratizzato, scientifico ed efficiente, dalle risorse economiche e umane incalcolabili, arroccato dentro palazzi vertiginosi di vetro e cemento, dagli abiti impeccabili e dai consigli d’amministrazione che sembrano funerali, capace di azzerare per decenni i controlli statali (o di ungerli profumatamente), di trovare amministratori locali compiacenti e di autoregolamentarsi decidendo cosa è nocivo e cosa non lo è. Dall’altro, un uomo di legge che prende coscienza – prima come individuo poi come avvocato – di un delitto orrendo perpetrato ai danni di un territorio. Eppure il diligente Rob ne ha impiegato di tempo per arrivare a ritagliarsi un posto di socio nel prestigioso studio legale “Taft Stettinius & Hollister” a Cincinnati: ora anche lui siede al tavolo dei maggiorenti, partecipa alle cene di gala, incontra potenziali clienti miliardari in una stanza ovattata. E fa il suo lavoro: difendere le industrie chimiche. E’ un nerd anche nell’aspetto: dimesso, un po’ ingobbito, tanto impacciato quanto discreto (Mark Ruffalo, che ha pure prodotto il film, è entrato profondamente nel personaggio). Insomma, è uno che viene “da un college qualunque e da una facoltà di legge senza nome”, come lo scherniscono ancora i soci minori. Ma è bravo, Rob. E la DuPont se ne accorgerà presto. Una questione per un amico di famiglia – Walter Tennant un ostinato e burbero allevatore di Parkersburg amico della nonna di Rob – si trasformerà in una battaglia legale durata diciannove anni. Una odissea silenziosa negli archivi, tra documenti impolverati, tra le reticenze severe dei soci, l’appoggio non sempre incondizionato della moglie, l’avversione prima gommosa poi feroce della DuPont. Fino a quando Rob Biliott trasforma quella montagna di vecchie carte dimenticate in una verità che ha un nome dolce e pastoso: Florurocarburo a catena lunga. Un composto fantasma – e, “chimicamente parlando, indistruttibile”, insolubile in acqua e in qualsiasi solvente organico – abbreviato in PFOA, utilizzato per produrre il Teflon (impiegato anche per isolare padelle e pentole), “simbolo splendente dell’operosità americana” (un miliardo di dollari di profitti all’anno) e i cui residui di produzione sono stati sversati nelle acque, dissolti nell’atmosfera già a partire dalla metà degli anni ‘50 violando ogni standard di sicurezza. E a Parkersburg il “Dry Run” (come lo hanno ribattezzato), il torrente che scende dalla collina, è inquinato irreversibilmente, così come le acque potabili che la città inconsapevole utilizza. Il tenace Tennant, la cui fattoria è a valle della discarica nella quale la DuPont ha scaricato centinaia di tonnellate di residui chimici, ha raccolto reperti, girato video, sommerso di telefonate gli enti governativi. Ha estratto organi cancerosi e abnormi dalle sue bestie che ha visto morire a centinaia. Ha notato le rocce dei corsi d’acqua decolorate dagli agenti chimici: tutto silenziosamente firmato DuPont. Chiamata in causa, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, non può allora che comminare alla multinazionale una sanzione di 16,5 milioni di dollari. E’ il primo passo di un percorso difficile ma vittorioso: seguirà infatti la snervante “class action” della comunità cittadina, a colpi di accordi, di inviti alla cautela dei soci avvocati, di citazioni, di monitoraggi, di tentativi di prescrizioni, fino all’istituzione di una commissione di valutazione scientifica super partes, alla conseguente raccolte di sangue, per accertare, finalmente, che il PFOA è causa di tumori e patologie varie: dalle malformazioni neonatali alle leucemie. Biliott, che ha pagato con una ischemia lo stress di sette anni di attesa, affonda il colpo, decidendo di portare singolarmente in tribunale, contro la DuPont, ogni cittadino coinvolto. Sarà un risarcimento epocale: 671 milioni di dollari per 3535 casi. Lo stesso Biliott due anni fa ha presentato una class action contro 3M, DuPont e Chemours per un risarcimento “a favore dei cittadini di tutti gli Stati Uniti”. “Dark Waters” funziona meritoriamente più come docufilm che come opera di sbandierata (e facile) denuncia: mette da parte il greenwashing (l’ambientalismo strumentale di facciata di cui parlava Naomi Klein) e lascia invece parlare i fatti e i documenti, lasciando intravedere – sullo sfondo dell’assoluta lotta solitaria del protagonista – la corruzione, i depistaggi e silenzi sulle tematiche ambientali schiacciate dall’economia (ne sappiamo tantissimo in Italia, dal depotenziamento della Legge Merli, poi abrogata, fino alle nostre cronache) sottolineando piuttosto l’idea dell’Ecologia (e della sua difesa) non come risorsa e neppure come sviluppo (due termini legati all’ideologia economicista): quanto come valore in sé, come coscienza. Nel post-futuro che la pandemia del COVID 19 ha aperto il cinema offre dunque – da “Erin Brockovich” al più recente “150 milligrammi” di Emmanuelle Bercot – una lezione importante. E questo, indubbiamente, è un buon segnale. [8]
L’orrore procede al di là della guerra. Sullo sfondo di una Leningrado gelida come il cuore degli uomini e delle donne, La ragazza d’autunno di Kantemir Balagov (il regista di “Tesnota”) racconta la straziante e controversa storia di due donne: Iya e Masha. La prima (Viktoria Miroshnichenko domina il suo personaggio con una interpretazione dolente e delicatissima), soprannominata “giraffa” per la sua altezza, esistenza aggraziata e timida, tornata dalla prima linea per un trauma – uno shell-shock, probabilmente – che la immobilizza per brevi istanti, è infermiera in un ospedale nel quale si ammassano i soldati dal fronte: un giovane drappello di scampati al macello che paga la follia della guerra e la propria dedizione, le imprese ardite e ogni eroismo – almeno a sentire la sempre uguale retorica di Stato – con le ferite insanabili del corpo e dell’anima soprattutto. Lì Iya assolve, suo malgrado, anche ad un compito particolare: è il sensibile angelo della morte per quei reduci ai quali, sotto loro richiesta, somministra un “aiuto” definitivo, con il pietoso avallo dell’ufficiale medico, anche lui segnato dalla assurdità del conflitto e sconvolto dalla perdita dei figli. Già nell’incipit del suo terribile e lancinante affresco, Balagov – premio come miglior regista a Cannes 2019 e premio FIPRESCI nella sezione “Un Certain Regard” – esplora le tematiche di un’opera che si candida meritatamente come miglior film a questo Torino Film Festival 37: l’orrore della guerra, gli strascichi atroci che impone sullo stesso concetto di umanità e su ogni sua declinazione: un abominio che non salva nessuno. Un’atmosfera di morte fisica ed esistenziale che aleggia costantemente nelle storie irredimibili che il film attraversa con il piglio neorealistico di una “nouvelle histoire” cinematografica, attenta a scrutare nel profondo. Masha (Vasilisa Perelygina maneggia in maniera straordinaria l’euforia della sopravvissuta, la tragedia per la perdita del figlio e il desiderio quasi patologico di una nuova maternità), assai più disinvolta e aggressiva compagna di artiglieria di Iya, è scampata al massacro in nome di un altro tipo di “eroismo” più bieco e non certo meno tremendo: era una “moglie in campo militare” – un eufemismo per prostituta nei postriboli per la truppa – una “funzione di supporto” nel linguaggio asettico che ogni guerra impone, che ha trasformato il suo corpo in un campo di battaglia e che le ha procurato la sterilità a causa di aborti continui. Aveva affidato il suo unico figlio Pashka proprio a Iya la quale, durante una delle sue crisi, lo aveva soffocato involontariamente col corpo. Adesso Masha pretende dall’amica un risarcimento: sarà proprio Iya, recalcitrante, a portare dentro di sé la vita – “qualcosa a cui aggrapparmi” – che lei non può più creare. In questo universo al femminile a scomparire sotto la potenza espressiva e caratteriale di Iya e Masha è però proprio il mondo degli uomini, costretti a mera carne da macello, ridotti a (improbabili) macchine da riproduzione, incapaci di ridare un senso alla propria vita mutilata – come nel caso del cecchino Stepan – travolti dunque da un déluge senza scampo. “La ragazza d’autunno” racconta il conflitto e le tensioni latenti ed esplosive ad un tempo di queste due donne, i cui caratteri paiono di ascendenza strindberghiana nel loro proiettarsi nella dimensione della figura hegeliana del servo-padrone (così come in altri termini e in diversi contesti aveva fatto il Lanthimos di “The Favourite”). Bagelov le modella non certo lavorando di travisamenti e di doppi, di finzioni e di inganni, ma andando al nocciolo nudo del loro desiderio di autocontrollo e di controllo reciproco, grazie ad una sceneggiatura essenziale (scritta a due mani da Kantemir Balagov e Aleksandr Terekhov) che riserva, nella sua estrema concisione, dolorosi sussulti narrativi. Secondo il piano ordito da Masha dovrà essere proprio l’ufficiale medico, ricattato, il padre di questo nuovo figlio: la sequenza dell’accoppiamento imposto in cui le donne si abbracciano sembra un’eco de “The Handmaid’s Tale” di Bruce Miller, solo che qui, nella Russia staliniana del 1945, la distopia è realtà e ogni illusione si disgrega: Iya non rimane incinta e Masha si vede pure sfuggire il matrimonio con un rampollo della nomenklatura. Ne “La ragazza d’autunno” l’impatto brutale con il mondo reale della narrazione è però reso in maniera antifrastica dalla splendida fotografia di Ksenia Sereda che predilige i toni cromatici caldi e luminosi: e sui primi piani delle protagoniste e sui colori vividi degli interni. Sull’orlo di uno sgretolamento definitivo, Iya e Masha rimangono allora aggrappate ad una solitudine quasi insopportabile, appesantita dai sensi di colpa, dalle angosce profonde, dalle speranze infrante. Anche se l’abbraccio che si regalano nelle sequenze finali, schiude lo spiraglio ad una “pietas” che solo due donne abissali come loro sono capaci di fare sbocciare insieme ad una bellezza terribile e commovente. [9]
E’ molto più sottile di quanto si pensi il confine fra il concetto di morte e quello di vita. Continuiamo a camminare tenendoci per mano sul lastricato del giardino, eppure non siamo che ombre allungate dai lampioni, appartenenti a dimensioni diverse. Ci sentiamo a vicenda, più di prima forse, però non potremo mai più toccarci davvero. Rimane l’impronta nel cuore, molto simile a quella di un corpo sulla sabbia bagnata. Un’orma vuota da riempire, a qualunque costo. Duelles, scritto e diretto da Olivier Masset-Depasse, vincitore di 9 premi Magritte in Belgio, inizia come un sontuoso omaggio al cinema di Hitchcock. La mdp sosta su dettagli dell’abbigliamento (scarpe, borsette, cartelle, giocattoli) e delle acconciature, insinuando in ciascuno un senso riposto e privilegiando riprese di spalle che ruotano intorno ai protagonisti o sostano immobili sulle due villette gemelle che saranno il palcoscenico o il ring degli avvenimenti. Tutto appare doppio – le case, fin troppo simili fra loro, le due coppie agiate che le abitano, i giardini ornati di rose rampicanti, i due bambini Theo e Maxime -, ogni elemento è nello stesso tempo simmetrico e contrapposto: i cromatismi azzurri e verdi dell’arredamento riflessi negli abiti di lino delle due mogli-madri-amiche-vicine di casa Alice e Céline, il gesto ripetuto di aprire e chiudere le tende, attraverso le quali traluce un presagio d’estate. Anche le prospettive verticali dal basso o dall’alto che mettono in comunicazione le finestre con l’ambiente naturale circostante, e le dimensioni alterate e oniche che assumono le scale interne, fanno pensare a Psycho, Vertigo e North by Northwest. Però il regista oltrepassa ogni cifra stilistica riconoscibile, persino le stanze che diventano universi combinatori senza uscita alla Lynch, e anche l’accurata ricostruzione delle atmosfere anni ’60 che cita i mélo claustrofobici di Sirk (un decennio non fa molta differenza): l’iperrealismo edificante dei tostapane, delle colazioni di famiglia, delle casalinghe già perfettamente truccate e pettinate di prima mattina, munite di elegante e stiratissimo grembiule da cucina. Masset-Depasse conduce progressivamente la storia dentro l’inferno eterno della paranoia e delle sue conseguenze. Maxime, il figlio di Céline, muore cadendo dalla finestra mentre cerca di raggiungere il gatto fuggito sul tetto. Alice vede la scena dal giardino, ma è imprigionata fra gli arbusti della siepe che divide le due ville e non riesce a raggiungere in tempo il piccolo. Da questo incidente prende avvio ciò che sembra un thriller ed è invece una meditazione anticonformista sul sentimento estremo della maternità, sulla vendetta e sulla menzogna, sulla labilità delle convenzioni sociali e sulla nociva inutilità del genere maschile. Il delirio scomposto e impaurito di Alice e quello metodico e minuzioso di Céline (lascia attoniti l’interpretazione di Anne Coesens) si scontreranno fino a generare un finale inaspettato, dentro il quale i delitti trovano un riscatto nella libertà a due di una donna e di un bambino, non necessariamente madre e figlio. [10]
Ciò che a volte rende sopportabile l’esistenza e nel medesimo istante rosicchia la vita dall’interno trasformandola in facticius, in costruzione artificiosa, illusoria, della mente, è il pensiero magico. E questo breve (o lungo) sonno imaginoso accomuna i bambini e i vecchi. Molto anziana è la celebre giornalista Elsa Brecht – arrivata in Nebraska dalla Germania e diventata nel corso dei decenni la regina di Georgetown, quartiere elegante di Washington D.C. – la cui intelligenza viene offuscata dalla comparsa di Ulrich Mott, anch’egli di origine tedesca, una figura dalla seducente e allucinata affabulazione autocelebrativa, un polimorfo perverso che edifica ininterrottamente, come avviene nell’infanzia, vite parallele, invenzioni spericolate, impossibili orizzonti di gloria capaci di riscattare una realtà grigia e inutile. Chi è Ulrich Mott? E’ il sedicente Brigadiere delle forze speciali irachene che sfoggia oppure no, a seconda delle occasioni, una benda nera da eroe di guerra sull’occhio destro, e anche la guida esaltata dei gruppi di elettori negli uffici del Congresso, il millantatore che trafuga i pass dei portaborse per introdursi nei party dei politici, un piccolo parassita straniero alla ricerca del sogno americano, della grande occasione. E l’occasione arriva, grazie all’incontro con Elsa, Signora raffinata dalle molte conoscenze. La liquida malinconia originata dal tempo trascorso, dagli affetti perduti, da un corpo che s’incurva mentre le dita s’irrigidiscono, traluce nel vetro azzurro dello sguardo. Sarà proprio la cognizione del tempo perduto che avvince Elsa a permettere all’istinto predatorio di Ulrich di penetrare nella vita della donna fino a impadronirsene. Non ascolterà nessuno, neppure la figlia Amanda, raziocinante e disperata nel tentativo di salvare la madre. Christoph Waltz, alla sua prima regia, realizza un’opera sarcastica suddividendola in capitoli dove la vicenda si muove in maniera ellittica, passando da un piano temporale all’altro, riproponendo i temi in punti diversi come in una partitura musicale per arrivare a un progressivo svelamento della realtà, dopo aver condotto lo spettatore a vagare in un labirinto di menzogne così spudorate da sembrare plausibili. La causticità della storia consiste nel mostrare i vaneggiamenti di Ulrich sostanzialmente simili a quelli dei miliardari, dei finanzieri, dei notabili, dei primi ministri, delle organizzazioni fondamentaliste; la macchina celibe del suo Eminent Persons Group non è che la parodia delle innumerevoli Onlus che organizzano conferenze e spostano capitali. Mott è il riflesso del mondo di cui desidera far parte, per non essere più deriso, per non sentirsi mai più ai margini di una società in cui vive come un corpo estraneo, come premuroso marito/maggiordomo di un’anziana giornalista. Dopo essere stato cacciato dalla moglie a causa della sua omosessualità, Ulrich vivrà per due anni in un pulcioso motel allungato ai bordi di una strada qualsiasi, il Coconut Grove Hotel, lavorando come custode e facchino. Ma in questo lungo intervallo costruisce una babelica mitologia personale, inviando centinaia di mail a Elsa e al Congresso, scritte nella stanzuccia disadorna verde marcio, per descrivere le sue immaginarie trattative di pace con Al-Qaeda e gli onori che gli vengono tributati. Il ritorno di Mott a Georgetown fa cadere lentamente gli eventi in un cunicolo tragico. Elsa riceve per posta le dichiarazioni dei redditi di Ulrich dei due anni precedenti e lo schernisce con asprezza. L’uomo – dentro le luci gelide verdi e azzurre che illuminano la vicenda dall’inizio alla fine sottolineando un paradossale iperrealismo -, con l’espressione pietrificata nella follia del Joker di Robinson, cancella per mezzo di un delitto la crepa che l’ennesima irrisione ha aperto nella sua minuziosa e parossistica riprogettazione del reale. Peccato che una fra le opere più originali della stagione 2019-20, sia finita su una piattaforma streaming. L’augurio è che possa essere proposta nelle varie arene cinema estive che apriranno a breve. [11]
Chi è il poeta prediletto da Elsa, la ragazzina ebrea nascosta in casa da Rosie, la madre di Jojo, nazista in erba? E’ il grande poeta tedesco Rilke. Amare la poesia significa unire, andare oltre i pregiudizi. La Germania hitleriana è alla fine, eppure è quanto mai pericolosa. Come una tigre messa all’angolo. Morta la figlia Inga e con il marito disperso da qualche parte, Rosie lotta come può contro il regime all’insaputa del figlio decenne, che invece sta, indottrinato, nella Gioventù Hitleriana. Johannes Betzler tra un’esercitazione e l’altra, è stato chiamato Jojo Rabbit dai camerati, guidati dal capitano Klenzendorf e dalla signorina Rahm, perché non ha saputo uccidere a sangue freddo un piccolo coniglio. Per rimediare ha provato il lancio maldestro di una granata rimanendone ferito e sfigurato. Il suo fanatismo è tale che, invece del paffutello Yorki che gli vuole bene, sceglie come amico immaginario un ridicolo Hitler, che con i suoi consigli lo accompagna dispoticamente nel corso dei giorni. Tutto comincia a cambiare quando scopre che nella soffitta di casa si nasconde Elsa, amica della sorella. Da quel momento la ragazza, all’insaputa di Rosie, diventa una presenza costante nella vita del piccolo nazista. Jojo non può denunciarla, altrimenti la madre ne subirebbe le conseguenze, e allora ne approfitta per conoscere meglio i segreti degli ebrei, che hanno corna e leggono nella mente. Giorno dopo giorno i due si affrontano: “Ora mi dici tutto sulla razza ebraica” – “Tu sei stato cresciuto da un patetico ometto a cui nemmeno crescono i baffi.” Poi si confrontano, ma non è facile convincere Jojo che gli ebrei sono uomini come tutti. “Non lo conosci. E’ un fanatico. Ci ha messo tre settimane per superare il fatto che suo nonno non era biondo”, dice la madre Rosie ad Elsa. Tratto dal romanzo di Christine Leunens e sceneggiato dallo stesso regista Taika Waititi, che veste anche i panni di Hitler, Jojo Rabbit vede all’opera un ottimo cast. Roman Griffin Davis è il bravo protagonista, piccolo come il suo amico Yorki, interpretato da Archie Yates. E’ affiancato, per modo di dire, dalla madre Scarlett Johansson, e dalla “nemica” ebrea Thomasin McKenzie. Rebel Wilson è l’efficace nazista Fräulein Rahm, mentre Sam Rockwell è il sorprendente capitano Klenzendorf. In un riflessivo libricino di pochi anni fa, Contro il giorno della memoria, Elena Loewenthal scriveva: “Comunque le cerimonie del GdM, gli eventi che lo circondano continuano a suscitarmi un doppio disagio. Il primo viene dalla contraddizione in termini di celebrare una ricorrenza con qualcosa che sia sempre <<nuovo>>. Il secondo è un vago, scomodo senso di vuotezza. Di insensatezza che la celebrazione porta con sé.” Eppure, per molti, ignari di ciò che è stato il nazi-fascismo, il 27 gennaio è una delle poche occasioni in cui si possono (ac)cogliere parole resistenziali contro i rigurgiti antisemiti e razzisti che in Europa sembrano sempre più diffusi. Fra le molte proposte di riflessione editoriale e visiva che annualmente – e siamo ben consapevoli del rischio di mercificazione – vengono offerte al pubblico c’è questo film particolare di Waititi, già regista di Vita da Vampiro e Thor: Ragnarok. Non è semplice individuare il genere di Jojo Rabbit, candidato a numerosi premi internazionali.Per restare in ambito nostrano e a “uso e consumo” del pubblico italiano, diremmo presenti riflessi di film come La grande guerra di Monicelli o Tutti a casa di Comencini, piuttosto de La vita è bella di Benigni, per il riuscito mélange di commedia, forse una favola, e dramma. Per la figura di Hitler il confronto va fatto certo con il Grande dittatore, tuttavia il modello chapliniano risulta ovviamente irraggiungibile sia per contesto che ispirazione. Comunque Jojo Rabbit ha una buona capacità attrattiva per l’abilità del regista neozelandese di saper dosare con precisione il passaggio dal sorriso alla commozione, che scaturisce come un fulmine a ciel sereno con l’impiccagione dei nemici del Reich. La scena è di alta resa drammatica e inaugura la seconda parte del film, in cui irrompe la violenza della guerra. Fino a quel momento l’opera di Waititi era stata dominata dai toni leggeri e ironici della commedia e dai colori sgargianti della campagna tedesca, lontanissima dalla linea oscura del fronte, di cui giungeva solo qualche eco. Dopo prove di ogni genere, (ri)scrivere sul nazismo è sempre difficile. Non è da poco raccontare cosa è stato la persecuzione contro gli ebrei, e provare a farlo con toni paradossalmente lievi, quando il tema stesso è così orrendo. Il rischio di fallire è sempre dietro l’angolo, ma Taika Waititi, di padre maori e di madre ebrea, si è assunto l’onere di farlo e ci ha lasciato un film comunque commovente, dove tutti hanno perso qualcosa: Rosie, la figlia e marito; Elsa, la famiglia e il fidanzato; Jojo, il padre. Nessuno, però, ha perso veramente la speranza. [12]
Se la scatenata, amara leggerezza di Jojo Rabbit riesce a far rivivere il ‘Lubitsch touch’ di To Be or Not to Be, Woody Allen ci regala l’ennesima riflessione acidula sul fato e sui destini incrociati con A rainy day in New York, e ci auguriamo di cuore che non sia l’ultima. Woody Allen, allo scoccare delle sue 84 primavere (86 quelle di Polanski), ci consegna un film di una freschezza che allarga il cuore e che appare quasi come un nuovo esordio sebbene girato ad un’età in cui normalmente si realizza il proprio canto del cigno. Ma il cinema di Allen è irrorato da tanta e tale linfa che il giorno dell’addio alla macchina da presa, c’è da giurarci, è ancora invisibile dietro l’orizzonte. E chissà che in uno dei suoi prossimi film non sia proprio il puritanesimo dei sepolcri imbiancati dell’epoca #MeToo ad essere messo alla berlina da quel geniaccio di Woody. Chi, infatti, meglio di lui saprebbe e potrebbe farlo? Nell’attesa soffermiamoci sulla sua ultima fatica, Un giorno di pioggia a New York (A rainy day in New York). Questo film, il quarantanovesimo del regista, è a tutti gli effetti un nuovo capitolo della lunga storia d’amore che Woody Allen intrattiene con la sua New York: «Amo Manhattan, l’ho sempre amata e amo le metropoli in generale. Amo New York City. Vivo a New York City: la conosco, la capisco, il mio cuore è lì sempre, tutto il tempo. Mi piace mostrarla alla gente. E da tanto, tanto tempo volevo ritrarla sempre sotto la pioggia come in questo film. E così siamo andati insieme con Storaro e il cast in tutti i luoghi per raccontarli con la pioggia. Ovviamente non ha piovuto mai». La trama è semplice, almeno all’inizio: Gatsby e Ashleigh sono una coppia di giovani fidanzati che frequenta la stessa università. Entrambi ricchi, lui è un newyorchese doc, lei è originaria di Tucson, in Arizona, ed è figlia di un banchiere. Ashleigh vuole fare la giornalista e scrive per il giornale del suo ateneo, Gatsby non ha ancora le idee chiare sul suo futuro ma intanto gioca (e vince) a poker e alle corse. Un giorno Ashleigh ha l’occasione di intervistare il noto regista Roland Polland (un bravo Liev Schreiber) e per farlo deve recarsi a New York. I due fidanzatini decidono di trascorrere insieme il weekend nella Grande Mela, da soli, senza avvisare i genitori di Gatsby, che ha un rapporto complicato con la madre e vorrebbe evitare di partecipare al suo party di beneficienza. Così, avendo vinto una notevole somma a poker, Gatsby prenota una suite al Pierre e un pranzo al Carlyle, e da amante dell’arte qual è, programma di portare Ashleigh al Moma. L’incontro di Ashleigh con Polland innesca però una serie di situazioni che terranno separati i due ragazzi – «la città ha preso il sopravvento» – e indurranno Gatsby a riflettere sul suo rapporto con la ragazza e sulle proprie scelte. Affine per certi versi a Midnight in Paris, del quale presenta alcune analogie nell’intreccio, e col quale, soprattutto, ha in comune la medesima eleganza e la stessa struggente malinconia, Un giorno di pioggia a New York, pur non essendo un capolavoro, si presenta come un meraviglioso compendio del cinema di Woody Allen, restituendoci quello che è il suo immaginario romantico, la sua visione di New York, i luoghi a lui più cari, splendidamente fotografati da Vittorio Storaro. La nostalgia che attraversa il film è la stessa che scorgiamo nelle parole di Allen quando parla della sua Manhattan: «Mi sono innamorato di Manhattan da ragazzino. Mio padre mi ci portava quando avevo sei, sette anni, mi portava con la metropolitana da Brooklyn verso Manhattan. Mi ricordo che salivamo in superficie, giungevamo a Times Square. Ed era straordinario. Una sala da cinema e poi un’altra e un’altra ancora, in qualunque direzione guardassi, e poi Broadway, molti cartelloni. E ricordo tantissima gente, tanti soldati, e marinai, bellissime donne che camminavano e tizi che vendevano piccoli trucchi di magia per strada. E così appena fui un pochino più cresciuto potei andare da solo perché costava solo dieci centesimi, cinque per andare e altrettanti per tornare. E solo per guardare in giro, guardare dentro i ristoranti, i nightclub, tutti quei film, tutti quei cinema. Era straordinaria e io ne ero innamorato. A quei tempi ogni volta che potevo andavo da Brooklyn a Manhattan». Degli anni d’oro di Manhattan, che secondo Allen sono da collocarsi tra gli anni Dieci egli anni Cinquanta del Novecento, il regista ricorda anche il teatro, quello «serio», quello dei «Tennessee Williams, Eugene O’ Neal, Arthur Miller, Edward Albee». Mentre «oggi è tutto uno show per turisti, molto costoso, biglietti a centinaia di dollari, quando ero ragazzino la poltrona migliore costava otto dollari. C’erano nightclub, dopo lo spettacolo andavi nel club per cenare o per bere. Ora è tutto un girare in bicicletta, uno shopping online, non è lo stesso». Non è un caso che il giovane protagonista si chiami Gatsby come il personaggio del famoso romanzo di F. Scott Fitzgerald. Nel suo modo di essere, nelle cose che pensa, come nelle cose che ama, Gatsby sembra appartenere ad un’altra epoca. Ama il cinema classico hollywoodiano, adora la musica di Gershwin, anche la passione per il gioco d’azzardo riflette il suo essere fuori dal tempo, è una passione impregnata di romanticismo e nostalgia. «Gli porta alla mente la New York narrata da Damon Runyon, con le strade di Broadway popolate da giocatori d’azzardo e scommettitori sulle corse dei cavalli. Fa tutto parte della sua visione romantica della vita», sostiene Allen. Ovviamente la New York di Woody Allen è ben diversa da quella ritratta da Martin Scorsese. Se quest’ultimo si concentra sul Bronx e sui quartieri più popolari, poveri e malfamati, la Grande Mela prediletta da Allen è quella dell’élite intellettuale e delle classi medio-alte. Questo senza alcuna motivazione classista, semplicemente è la New York che lui conosce di persona: «Io abito in un certo ambiente ricco. Quello che mi diverte è raccontare quello che vedo. Tutti pensano che i ricchi non abbiano problemi, quando, invece, in ogni mio film dimostro come le persone abbienti hanno i problemi di tutti quando vengono a scontrarsi con le questioni di cuore o psicologiche». Tutti i personaggi di Un giorno di pioggia a New York hanno problemi e inquietudini relative alla propria identità, a partire dal protagonista, Gatsby, che per l’inesperienza e la giovane età non conosce ancora se stesso e non sa cosa vuole dalla vita. Anche la personalità di Ashleigh è così vaga e indefinita che a tratti la sua identità sembra evaporare: quando incontra l’attore Francisco Vega (Diego Luna), a sua volta vittima del cliché dei soliti personaggi che è chiamato a interpretare, è così frastornata all’idea di trovarsi davanti a un divo come lui, da dimenticare finanche il proprio nome, al punto da dover tirar fuori la patente per identificarsi. Lo sceneggiatore Ted Davidoff (Jude Law) vive all’ombra del regista Pollard e si ritrova a scoprire il tradimento della moglie con un suo caro amico. Lo stesso Pollard è un regista in crisi creativa, del tutto insoddisfatto del suo ultimo film, come insoddisfatto era Woody Allen quando finì di montare il suo Manhattan: «Fui davvero molto sorpreso dell’entusiasmo con cui il pubblico lo accolse. Quando lo finii di girare e montare pensai: “non è un buon film, no”. Ero molto scontento e deluso, chiamai la United Artist, la casa di produzione, e dissi loro: “guardate, se non lo distribuite, se non lo fate uscire, ve ne girerò un altro gratis il prossimo anno. Mi risposero che ero pazzo, “non ce lo possiamo permettere, abbiamo dovuto chiedere soldi a una banca per fare questo, a noi il film piace e non possiamo non farlo uscire e quindi andrà in sala”. Il film è uscito e fu un successo straordinario in tutto il mondo. Così me ne sono stato zitto. Mi sono ben guardato dal dire nulla, anzi ho detto “sì, sì, sono contento del film”». Momento centrale di Un giorno di pioggia a New York è l’intimo dialogo tra Gatsby e sua madre (Cherry Jones): è la prima volta che i due si parlano davvero, la prima volta che si confessano l’un l’altra, la prima che si capiscono veramente. E Gatsby comprende che sua madre non è la donna fredda, distaccata e austera che appare. È un momento magistrale, quello che la madre dice al figlio è una rivelazione che diventa luce nel buio di una tempesta sentimentale. La fotografia di Storaro sottolinea in modo magnifico e discreto questo punto nodale del film. Si fa complice del regista nel creare l’atmosfera di tepore e intimità che suggerisce non una ritirata dal mondo bensì l’accoglienza serena della sua complessità e delle sue contraddizioni. Sebbene edulcorata dall’ironia e alleggerita dalle fulminanti battute cui ci ha abituati nel corso degli anni, Woody Allen esprime in molti suoi film un’idea della vita priva di una direzione precisa, di un senso, di una ragion d’essere, trovando nell’amore, nell’arte, nella sublimazione estetica gli unici incentivi a portare avanti un’esistenza fondamentalmente insensata. Ancora una volta è l’amore, una visione romantica esaltata dall’uggiosa malinconia di un giorno di pioggia, a regalare uno spiraglio di speranza. Come quei raggi di sole che dopo un temporale filtrano attraverso il grigiore delle nuvole. [13]
Gradevole e anticonformista, soprattutto per la presenza di Cate Blanchett, la disavventura antartica di Bernadette Fox, ex architetto di genio in piena nevrosi da casalinghitudine. Bernadette, architetto un tempo celebre per le creazioni con materiali riciclati, si è ritirata dalla professione per dedicarsi completamente alla figlia Bee, brillante studentessa, e al marito Elgie, un guru della Microsoft spesso assente per lavoro. Conduce una vita apparentemente perfetta nella villa di Seattle, tuttavia non nasconde un sarcastico disagio nei rapporti col vicinato, soprattutto con le madri dei compagni di scuola della figlia che definisce “moscerine” per via della manifesta ipocrisia e dell’ostentato narcisismo. Bernadette rifiuta ogni contatto con l’esterno al punto da delegare a un’assistente virtuale ogni operazione quotidiana e ordinare sempre online ciò che le occorre. Dopo alcune tensioni con la vicina di casa Audrey a causa di certe piante di more ed essere incappata in una truffa in rete, il marito, preoccupato per la depressione e gli atteggiamenti della donna, vorrebbe chiuderla in una struttura per malattie psichiatriche. Bernadette invece desidera partire con lui e la figlia per un viaggio in Antartide – promesso a quest’ultima dopo gli ottimi voti ottenuti – convinta che l’aiuterebbe a riprendersi. Messa alle strette, la donna si rifugia dalla vicina chiedendole di aiutarla a raggiungere l’aeroporto, convinta che marito e figlia la stiano aspettando. L’architetta si ritrova invece ad affrontare il viaggio da sola, sfidando impasse e paure e, quando scopre che esiste un progetto per costruire una nuova base al Polo Sud, avverte la necessità interiore di rimettersi in gioco. Proprio mentre è in atto la rinascita di Bernadette dopo anni di vana stagnazione, marito e figlia si scontrano quotidianamente, l’uno accecato dai frenetici impegni lavorativi, l’altra ansiosa di capire cosa sia successo alla madre. Scoprirà chi è realmente esaminandone la carriera messa da tempo in un angolo. Elgie e Bee decidono di mettersi in viaggio alla ricerca di Bernadette, l’una per recuperare l’essenza del rapporto madre-figlia, l’altro in preda al rimorso per non aver compreso i tormenti segreti della moglie e soprattutto non averla spinta a riprendere il lavoro. Per una di quelle coincidenze che a volte prepara il fato, la famiglia si ricongiunge nel momento esatto in cui Bernadette, presa la decisione di partecipare al progetto in Antartide, intende comunicarlo ai suoi cari, e naturalmente ne riceve l’appoggio incondizionato. Che fine ha fatto Bernadette? E’ una pellicola non convenzionale che procede in modo ellittico, con soprassalti, allusioni, divagazioni che aggiungono interesse al film, incollando lo spettatore allo schermo in attesa della ring composition finale. E’ piacevole sentire la soddisfazione scendere nell’animo per la rivincita di Bernadette sulle ipocrisie, sulle paure, su un malinteso senso del dovere e delle convenzioni che le ha rubato una parte della vita. L’interpretazione ironica e sofferta di Cate Blanchett fa vibrare sottotraccia la complessità caratteriale di Bernadette – l’insofferenza, la frustrazione, il sarcasmo nei confronti dell’ottusità circostante, il bisogno di avventure creative – dando vita a un’immagine sfaccettata della natura femminile contemporanea. Non dimenticheremo il suo ennesimo ritratto di Signora: questa volta una professionista geniale che si ritrova imprigionata nel ruolo di donna dedita alla casa e alla famiglia, cercando in ogni modo di sopire il suo innato estro creativo. Ma, nonostante le costrizioni di un ‘piccolo mondo’ asfittico e sordo – da cui si nasconde indossando gli inseparabili occhiali scuri – la creatività riaffiora in ogni momento, esprimendosi persino attraverso l’uso delle pillole raccolte in un vaso di vetro come decorazione, oppure nella scelta dei colori e degli arredi domestici. Alcuni episodi di Bernadette toccano, seppur di riflesso, il tema degli ostacoli informatici che oggi si frappongono alla volontà di sparire, oppure quello dei danni causati dall’antropizzazione dei territori. Come, per esempio, nella sequenza drammatico-esilarante che mostra la valanga di fango originata dal disboscamento sommergere gli invitati alla festa dell’odiata vicina di casa. Il titolo del film – adattamento cinematografico del romanzo del 2012 Dove vai Bernadette? scritto da Maria Semple – richiama alla mente per un’associazione preconscia Che fine ha fatto Baby Jane?, iconico film degli anni ’60 di Robert Aldrich. [14]
Una commedia deliziosa ci è arrivata anche dalla Francia, Le mystère Henri Pick. Prendete un giovane scrittore, Fred (Bastien Bouillon), alla sua opera prima, la fidanzata, Daphne (Alice Isaaz), editor di un’importante casa editrice, poi un critico letterario, Jean-Michel Rouche (Fabrice Luchini), rassegnatosi a presentare un programma televisivo sui libri, uniteli a tutto quel calderone di figure di ogni tipo che ruotano attorno al mondo dell’editoria, condite tutto con un pizzico di suspense e …voilà, avrete Il mistero Henri Pick, film francese di Rémi Bezançon, un’indagine sull’autore di un romanzo di improvviso successo. Possibile che il pizzaiolo Henri Pick, morto da poco, abbia lasciato un manoscritto divenuto un caso editoriale senza che nessuno – nemmeno i familiari – abbia mai saputo nulla delle sue doti di scrittore? E se invece fosse tutta una montatura della casa editrice o della sua ambiziosa editor? Attorno a queste domande ruota l’investigazione di Jean-Michel Rouche, che si reca in Bretagna – bucolico e giusto sfondo al film – dalla vedova del signor Pick (Joesiane Stoleru), incredulo che un semplice pizzaiolo abbia potuto “sfornare” un tal capolavoro narrativo. Un convincente Fabrice Luchini, calato nella parte del critico apparentemente cinico, è coadiuvato da un cast di bravi attori in stato di grazia, tra cui spicca Camille Cottin, la figlia del presunto scrittore. Bezançon, oltre che dirigere, ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Vanessa Portal, adattando per il grande schermo l’omonimo romanzo di David Foenkinos, romanziere francese di fama, i cui libri sono stati tradotti in tutto il mondo. Più che un giallo l’opera si presenta come un’agra commedia sulla vita e sull’amore per la letteratura, la vera protagonista di questo film. Il regista francese costruisce – sulla scorta del romanzo – una trama complessa, che a volte però risulta artificiosa, tutta intenta a far andare ogni dettaglio al suo posto. Così come un altro limite sono i personaggi di questo delizioso film corale, che sono ritratti senza sfumature di “nero”. La vita è veramente questa? Un film che piacerà molto agli spettatori che amano tanto la lettura (e il cinema) proprio per quell’impasto di vita e letteratura di cui l’opera è espressione. Il mistero Henri Pick è stato comunque una delle migliori alternative ai cine-panettoni natalizi, insieme a Pinocchio di Garrone. [15]
La supremazia stagionale del cinema francofono viene rafforzata dall’intenso dramma Celle que vous croyez, interpretato in filigrana da Juliette Binoche e presentato alla Berlinale 2019. Diretto e sceneggiato da Safy Nebbou – regista teatrale – Celle que vous croyez (diventato in Italia Il mio profilo migliore) è tratto dal romanzo Quella che vi pare di Camille Laurens. Il film si sarebbe presentato meglio se avesse mantenuto il suo titolo originario, o la versione in inglese Who You think I am; entrambi riflettono il senso del soggetto: una vicenda che ricorda l’indagine pirandelliana o borgesiana sulla verità e l’identità focalizzata nella nostra società “liquida” dominata dai social network. Una donna, le sue crisi, la sua passione, i suoi sogni, le sue ossessioni. Claire, una docente che ha superato i cinquanta anni, impegnata in una relazione con un giovane amante, Ludo, del quale è gelosa, crea un falso profilo su fb per indagare su di lui. Sceglie di nascondersi dietro un’altra identità, quella dell’attraente ventiquattrenne Clare. Attraverso il falso profilo, contatta il miglior amico di Ludo, Alex. Inizierà così una relazione virtuale ma, disperatamente, reale. Reale per lei, reale per lui, anche se per ciascuno si tratterà di una realtà diversa. Claire non vuole rinunciare alla vita, alla passione, all’amore che le è stato rubato, costruisce per Clare una vita che non esiste se non nella sua mente e nei suoi sogni. Si reinventa giovane e bella, affascinante e intrigante come era stata un tempo, come lui, Alex, vorrebbe che fosse; porta avanti questo gioco di finzione finché le è possibile. Claire è una donna con un grande vuoto; cerca di riempirlo ingannando il giovane Alex ma anche se stessa: “Non siamo mai troppo grandi per essere piccoli, avevo bisogno di essere coccolata…. anche con delle illusioni”. Fra menzogne e inganni, il gioco virtuale deve diventare reale, questo è ciò che vuole Alex, ciò che vorrebbe Claire, se non fosse per la sua rivale “inesistente” Clare: non può competere con lei, non può svelare ad Alex la sua verità. La sua scelta di autenticità avrà conseguenze devastanti per tutti e due. E non solo. Un tema in questi ultimi anni molto trattato dalla cronaca, dai sociologi, dagli psicologi, banalizzato in molti film di cassetta, frequente nelle discussioni, con risvolti a volte gravi, cioè la possibilità di deformare, trasformare, la nostra realtà attraverso la molteplice flessibilità di internet, viene affrontato dal regista con la serietà dell’indagine sui sentimenti. La vicenda mette in scena uno spaccato della società multimediale in cui viviamo immersi, ma non la giudica, non la banalizza, bensì la usa come contesto per una introspezione sulla fragilità di tutti i personaggi. La narrazione che procede attraverso il racconto che Claire fa alla sua psicoanalista (struttura indubbiamente non originale), trova per questa vicenda una cifra di rappresentazione lenta nel suo procedere, appassionante, per quella sorta di inchiesta che porterà verso il finale, i finali, della storia, sorprendente e spiazzante. Interessante e sottile, nel corso del racconto, è una serie di riferimenti che la protagonista, nelle sue lezioni di letteratura, fa alle eroine o alle scrittrici, che, ognuna a suo modo, incarnano la difficoltà di essere donna e di vivere un amore duraturo e gratificante, ad esempio Marguerite Duras o Nora, di Casa di bambola di Ibsen. La pellicola si arricchisce di una fotografia, di Gilles Porte, delicata ed evocativa che accompagna i momenti del racconto giocando con le luci e i chiaroscuri, come le musiche, create appositamente da Ibrahim Maalouf, che suggeriscono una perfetta mimesi emozionale delle infinite sfumature di sentimento provate dalla protagonista. La tentazione di strutturare la rivelazione psicologica della trama attraverso lo schema del giallo è stata suggerita al regista dalla sua passione per Alfred Hitchcock, in particolare per La donna che visse due volte, come egli stesso ha dichiarato nell’intervista rilasciata a Berlino all’uscita del film. Sul gioco e sulla finzione che vengono macchinati da Claire, il regista ha dichiarato: “non è forse il cinema qualcosa che ci impone, per tutta la durata di un lungometraggio, di considerare reale qualcosa di finto?” Dà corpo e voce a Claire, antieroina tragica, di più, dà la luce del suo sguardo, l’attrice Juliette Binoche – Orso d’argento, BAFTA e premio Oscar come miglior attrice non protagonista nel 1997 per Il paziente inglese, Coppa Volpi miglior attrice per Tre colori – Film Blu (Venezia 1993), Prix d’interprétation féminine per Copia conforme (Cannes 2010) – inquietante e bella, forse più adesso di quando era giovane, intensa e sensuale. Su di lei si posa la macchina da presa con la delicatezza di una pennellata o di una carezza. Il cast è completato dagli attori François Civil (nei panni di Alex), Nicole Garcia (la terapista Catherine Bormans) e Guillaume Gouix (è Ludo). [16]
Essendo convintamente onnivori citeremo insieme due pellicole antitetiche, entrambe britanniche: Sorry We Missed You e Downton Abbey. Ultimo film di Ken Loach, Sorry We Missed You è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2019. Una famiglia unita, umile e onesta è al centro di questo che è, come il precedente I, Daniel Blake, più di un film di denuncia; è una fotografia del reale, di un piccolo spicchio d’Inghilterra, microcosmo del grande macrocosmo consumistico nel quale viviamo tutti immersi in un’alienazione disumanizzante. Un padre, una madre, un ragazzo e una ragazzina conducono ogni giorno una vita di impegno, sacrifici, rinunce, solitudini e disagio. Il loro piccolo sogno, quello di comprare una casa e condurre un’esistenza più dignitosa, si infrange contro un muro fatto di una sequenza di difficoltà insormontabili, un meccanismo crudele che li stritola in un determinismo implacabile. Il giovane padre, Ricky, accetta di lavorare come corriere per una di quelle aziende che consegnano pacchi in tempi ridottissimi; non deve firmare un contratto, non ci sarà un’assunzione perché “Tu non lavori per noi, lavori con noi”. Queste parole affrancherebbero chiunque, ingannerebbero chiunque nell’idea di essere autonomo e parte di un sistema, quasi imprenditore di se stesso. Invece no, il ricatto inesorabile sta proprio lì, gravare di responsabilità il singolo, e avvinghiarlo in una ragnatela di inesorabili doveri, di trappole lavorative ed esistenziali e di diritti negati, anche i più elementari, compreso quello di urinare. La vita di Ricky si trasforma in una lotta forzata contro il tempo, ogni corriere della ditta PDF deve consegnare i pacchi in un tempo prestabilito e controllato da un apparecchio tecnologico che fa da telefono, navigatore, sensore e strumento di controllo dei movimenti e dei comportamenti. La loro vita, chiusi dentro il furgone e trascinati nel traffico da un posto all’altro, è quella del perfetto automa in una nuova “catena di montaggio” (il fordismo del XXI secolo), nell’alienazione della generazione 2.0. Abby, la giovane madre, dolce e dedita ai suoi pazienti, un’infermiera-badante che dalla mattina alla sera assiste anziani e disabili senza fermarsi mai, senza tregua ma con immensa dignità e sincero sentimento di affetto per le persone che di cui si prende cura. In poco tempo si trovano avvolti in una spirale di compiti da assolvere, tempo da inseguire, fatica da sopportare e problemi fra loro; un gorgo senza speranza. In questo vortice Ricky ed Abby perderanno se stessi, diventeranno genitori assenti, persone irascibili, violente, diverse da ciò che erano. La protesta dei figli esprimerà questo cambiamento, la necessità assoluta di fare tornare tutto come prima, di recuperare, con ogni mezzo, il padre che avevano prima e la situazione di prima; da qui il titolo, Sorry we missed you, ci sei mancato. Questo non è un film che commuove. Paralizza. Lascia senza fiato e senza commento per la di-sperazione di personaggi che conosciamo tutti, che incontriamo tutti i giorni sul nostro cammino, quando ordiniamo il cibo pronto, le scarpe di marca a metà prezzo, lo smartphone di ultima generazione e qualcuno ci garantisce una rapida consegna. Ken Loach non ci spiega come funziona questo elefantiaco sistema, lo sappiamo benissimo e non ce ne occupiamo. Il regista ci racconta una delle migliaia di storie possibili, ce la mette lì, davanti ai nostri occhi bendati di ottuso consumismo e lascia che sia la storia a raccontarsi, secondo la poetica del Realismo e del Neorealismo (tante analogie si potrebbero cogliere con i racconti di Verga e con film come Ladri di biciclette) col linguaggio asciutto dei dialoghi essenziali e delle immagini squadrate e quasi sempre abbagliate. I furgoni delle consegna sono tutti bianchi, anonimi, uguali, come gli uomini che li guidano. Nel 2000 il regista ci aveva regalato una (delle tante) altra storia di povertà e dignità, Bread and roses, lì ci aveva fatto capire che oltre al bisogno materiale per l’uomo esiste anche il bisogno di bellezza e di amore, le rose del titolo. Qui, venti anni dopo, ritrae l’umanità sacrificata nel suo aspetto ontologico imprescindibile: i legami familiari. Non si parla più di classe operaia, il nuovo proletariato è fatto di precari che non hanno nemmeno “la coscienza di classe” perché non appartengono a nessuna categoria; si sfidano l’un l’altro in una gara di resistenza, in una legge del più forte che li spinge a combattersi, quando sarebbe necessario unirsi. Sarebbe il caso di dire “corrieri di tutto il modo unitevi”. [17]
Downton Abbey inizia laddove terminava l’ultima stagione della serie tv, ma non è essenziale conoscere gli avvenimenti trascorsi perché la storia vive di luce propria e lascia ampi spazi alla possibilità di un sequel. La famiglia Crawley, insieme a tutta la servitù, vive e lavora nella immaginifica tenuta Downton Abbey, circondata da una campagna inglese che riproduce i paesaggi e la luce, talvolta velata di pioggia, dei romanzi vittoriani. Per le riprese sono stati utilizzati interni ed esterni di Highclere Castle, una villa georgiana modificata fra il 1839 e il 1842. Ci troviamo nell’anno 1927 quando arriva una missiva da Buckigham Palace. La lettera passa di mano in mano fino a che il maggiordomo Thomas Barrow (Robert James Collier) la consegna al Conte di Grantham, Robert Crawley. Il breve, cerimonioso messaggio comunica che re Giorgio V e la famiglia reale, unitamente a gran parte dei domestici d’ogni grado e funzione, faranno visita alla dimora e addirittura vi pernotteranno. Lo scritto – nero su bianco – sottolinea in maniera inequivocabile l’onore concesso dalla Casa Reale ai proprietari di Downton Abbey nel fermarsi due giorni presso di loro. Tutta la famiglia precipita in un’eccitata confusione e viene letteralmente sorretta dalla pragmatica capacità della servitù nei preparativi necessari a rendere indimenticabile questa straordinaria visita. L’intera cittadina è pronta a vivere e ad assaporare il particolare momento di notorietà, ogni singolo negoziante o artigiano si sente un ingranaggio importante della grandiosa macchina che accoglierà i Sovrani. Lady Mary (Michelle Dockery) per l’occasione chiede al signor Carson (Jim Carter), maggiordomo in pensione, di riprendere temporaneamente servizio, ritenendo ancora immaturo Thomas Barrow per un avvenimento così impegnativo. Lady Violet (Maggie Smith) aspetta con trepidazione l’arrivo di Lady Maud Bagshaw (Imelda Staunton), dama di compagnia della Regina e al contempo cugina di sangue di suo figlio Robert, per poterle parlare finalmente dell’opportunità di nominare erede proprio il suo flemmatico discendente. Maud però non ne vuole sapere, ha già in mente a chi destinare il patrimonio e quando manifesta l’intenzione di lasciare, appunto, ogni proprietà alla sua personale e graziosa cameriera, la famiglia resta basita. Un imprevisto di non poco conto precede l’arrivo di Re Giorgio V: con maniere rudi e altezzose il personale reale defrauda i dipendenti dei Crawley del piacere di poter servire per una volta Sua Maestà. Camerieri, cuoca e maggiordomo reagiscono dapprima con una sorta di paralisi interiore che sembra rendere impossibile la ribellione a cotanta arroganza. Ma i festeggiamenti non possono assolutamente cominciare con un tale sopruso, quindi i domestici dei Crawley decidono che non si faranno mettere i piedi in testa, dando così inizio a “la guerra”. Tra le cucine e i sotterranei della villa, Anna (Joanne Froggatt) e John Bates (Brendan Coyle) escogitano un piano per riconquistare la propria posizione nella cornice dell’evento memorabile e restituire l’onore perduto a tutta Downton. Tutti per uno e uno per tutti. Con quattro mosse astute eliminano chef, maggiordomo e servitù reale. Il risultato ottenuto dall’irriducibile staff è esaltante; con soluzioni dinamiche, operose e sistematiche, la loro solerzia induce il Re ad esprimere un sincero apprezzamento fuori da ogni etichetta. L’antica dimora e il parco, l’eleganza abbagliante degli arredi e degli abiti disegnati da Anna Mary Scott Robbins – pur nell’intima corrispondenza a un ideale di decoro -, i dettagli dickensiani che illuminano i locali e le schermaglie della servitù, la misura sarcastica, wildiana, delle battute di Lady Violet (si avverte l’eco di Gosford Park), le storie d’amore che arrivano inaspettate e coinvolgono con la loro freschezza esitante e appassionata, si aprono come lagune accoglienti di memoria letteraria e storica, prendendo la forma di studiate digressioni nel pathos collettivo – un fervore ininterrotto che anima tutti i personaggi – capace di imprimere al film un ritmo concitato e polifonico da composizione rossiniana. Downton Abbey ci riporta in tempi e luoghi dell’immaginario che aderiscono al ricordo delle case del nostro lontano passato, impregnate di sentimenti e profumi buoni e antichi, solo in apparenza perduti. E’ lì che qualcuno ci ha insegnato a saper cogliere un animo gentile nei modi cortesi di una persona. Lì abbiamo appreso che lo spazio fisico e mentale costituito da un tetto, delle mura, una pavimentazione, può celare l’esistenza di piccoli ripostigli bui la cui sostanza sottile continua nel tempo ad aderire su di noi, come una seconda pelle. [18]
Sarebbe colpevole negligenza omettere alcuni titoli di particolare originalità: gli ammalianti Mademoiselle, Burning e Olma Djon, l’ansiogeno Il regno e il toccante Richard Jewell. Per (non) tacere di un ‘corto’ spagnolo straordinario – Cerdita – e quattro docufilm emozionanti – Welcome Palermo, Shooting the mafia, Caterina, Bandite e soprattutto Antropocene.
Il segno distintivo di Mademoiselle è la coordinazione asindetica e virtuosistica di continui flashback che contraddicono le linee narrative apparenti, offrendone versioni diverse e spesso opposte. Il film si svolge in Corea durante la dominazione giapponese degli anni ‘30 ed esplora attraverso immagini speculari ricorrenti la vicenda di Lady Hideko, giovane e ricca ereditiera – orfana dei genitori e dell’amata zia morta suicida – allevata dallo zio Kozuki che intende sposarla per impossessarsi del suo patrimonio. La giovane vive rinchiusa in una villa dotata di due aree, anch’esse contrapposte: una arredata alla giapponese, l’altra all’occidentale, e trascorre le giornate al chiuso esercitandosi sui testi pornografici provenienti dalla maniacale collezione dello zio. Hideko è costretta a intrattenere gli amici dell’uomo durante riunioni periodiche, leggendo brani erotici in una dimensione fortemente ritualizzata ed estetizzante. Fin dall’infanzia le è stata impartita una disciplina vessatoria, insieme rigida e perversa, con percosse, privazioni, urla, spaventosi racconti di mostri nascosti negli angoli bui della stanza e pronti a uccidere la bimba. L’unico desiderio della ragazza sarebbe di evadere dalle grate della villa per assaporare una libertà sfiorata solo con l’immaginazione. Le oscure consuetudini del palazzo vengono incrinate dall’arrivo di Sook-hee, una giovane borseggiatrice che, d’accordo con il soi-disant Conte Fujiwara, deve servirsi del ruolo di ancella per spingere Hideko al matrimonio con l’equivoco e seducente avventuriero attratto, come Kozuki, dal denaro della ragazza. Le due fanciulle però, giorno dopo giorno, entro la luce impressionista che si posa sugli alberi del parco e nei vapori lievi delle cerimonie quotidiane condivise (il bagno, le essenze profumate, il vestirsi e lo svestirsi) penetrano l’una nel mondo interiore dell’altra, sovvertendo il dislivello sociale, il rapporto di subordinazione originario e le illusorie trame maschili. La passione si addensa e si scioglie, assume la sostanza del mercurio, duttile liquida elettrica, fino a tornare alla primitiva lucentezza, rossa e inattaccabile, del cinabro. Le mani si legano, formando un corpo unico che scopre i sensi, che cerca lo spasmo doloroso capace di suscitare esplosioni neuronali iridescenti. Nemmeno un pezzo resterà in piedi sulla scacchiera. Ogni strategia di Fujiwara e di Kozuki sarà annientata da un sottile gioco delle parti ordito e condotto dalle ragazze. Persino la collezione dello zio e la sala delle letture, metafora di una cupa ossessione maschile che trasforma voce e corpo femminili in feticcio, verranno distrutte in una sequenza che assume il valore e il senso di un’iniziazione alla nuova vita, lontano dalle ombre assordanti della villa e dai fantasmi addolorati o sinistri che la abitano. Via dai troppi misteri in cui si annidano il dolore di chi non c’è più e la tristezza dei sopravvissuti. Il montaggio, fra i più emozionanti della storia del cinema, porta in superficie la rabbia controllata di Park Chan-wook verso ogni forma di manipolazione ed oppressione, componendo le immagini in un tema figurativo-musicale frammentato e in continuo movimento che unisce trasporto e sapienza matematica. Nella pellicola liberamente ispirata al testo neovittoriano Ladra di Sarah Waters, caratterizzata da una narrazione ad anello che riprende le fila della trama cambiando ogni volta punto di osservazione, l’egoico Fujiwara cadrà alla fine vittima del sadismo vendicativo di Kozuki, ed entrambi moriranno avvelenati dal fumo delle sigarette al mercurio (in questo caso sostanza banalmente tossica, come la forma mentis di molti uomini) del ‘Conte’. Mademoiselle (The Handmaiden), presentato in Concorso al Festival di Cannes del 2016 e premiato nel 2018 ai British Academy Film Awards come miglior film non in lingua inglese, è un inno di ineguagliabile raffinatezza formale alla libertà femminile e alla necessità e inevitabilità di una corrispondenza di genere. Hideko, bagnata dal vento marino durante la traversata verso il Giappone, trova il proprio respiro accanto a Sook-hee, incarnazione del rifugio, dell’affetto mai avuto, delle gioie mai incontrate prima. Intrigante e ineccepibile l’interpretazione di Kim Tae-ri (Sook-hee), che sotto i panni della piccola ancella fa intuire molte sfaccettature dell’animo umano: il desiderio di rivalsa nei confronti di una vita difficile e inappagante, la passione erotico-amorosa, l’innamoramento, la gelosia, la complicità solidale. [19]
Il lungo film del regista sudcoreano Lee Chang-dong traduce, con un ritmo lentissimo, attraverso lo sguardo sempre più incapace di comprendere la realtà del giovane Jong-su (l’attore Yoo Ah-in), l’inquietudine di una società involuta, superficiale, scollata e confusa. La fotografia di Hong Kyeong-pyo, curata ed elegante, sceglie colori privi di saturazione dove un chiarore diffuso avvolge le scene in una nebbia pulviscolare e lattiginosa che pone ogni fotogramma sottotono, quasi ci servisse una rassicurazione in merito all’idea di Chang-dong, dopo un’assenza dal cinema di nove anni, sulla lateralità, quasi astratta, delle sue scelte. Se ci si aspetta di cogliere il senso del film dai dialoghi, si rimane immediatamente interdetti di fronte alla indeterminatezza della quasi totalità delle parole che disseminano il tessuto narrativo ora di luoghi comuni ora di affermazioni prive di qualunque empatia. Come priva di empatia è la recitazione che si traduce in una freddezza manifesta sin dalla prima, straniante, scena di sesso: il corpo sensuale della protagonista (Jun Jung-seo) si contrappone alla desolante assenza di tensione erotica che risolve in tenera poesia la mediocrità. Un piano sequenza senza pathos che introduce con violenza – ma ce ne renderemo conto solo in seguito – il film, fino alla fine, al tema che regge la trama, sottile e inconcludente a prima vista eppure così coerente e lucida. Meccanica, se vogliamo trovare una definizione che comunque non risolve la complessità del racconto, basata su un breve romanzo dello scrittore giapponese Murakami. Quello che trasforma la storia, disseminata di indizi impossibili da cogliere se non a ritroso, in un inquietante incubo è proprio il desiderio del regista di non dirci nulla ma di costringerci, man mano, a farci un’idea che non potremo mai essere certi sia quella corretta. “Che cosa è la metafora” chiede il misterioso Ben – interpretato da un affettato Steven Yeun – a Jong Su, scrittore che non ha ancora scritto nulla, per fornire, con inaspettata crudele ironia, una labile chiave di lettura. La metafora è la “sostituzione di un termine proprio con uno figurato, in seguito a una trasposizione simbolica di immagini” e forse in questa definizione di lessico si concentra l’intenzione del regista. Mostrarci che l’assenza, prima quella del gatto e poi quella della giovane Hae-mi, è solo il vuoto che giustifica la materia, che scatena il formularsi di un sistema di pensiero. Il film è scandito da una serie di risvegli del protagonista richiamato dal sonno spesso con il suono di una telefonata, telefonata muta che a un certo punto diviene la reificazione di un’assenza incomprensibile: definitivamente priva di spiegazione. Come indecifrabili – tutto resta nel vago – sono le motivazioni dei personaggi che il regista segue sempre attraverso gli occhi del protagonista, se non in alcune scene dove indugia comunque il dubbio di non trovarci di fronte all’accadere ma semplicemente ad una interpretazione – la sua scrittura che finalmente prende corpo? – di Jong Su. Burning non dà punti di riferimento: la vaghezza che all’inizio ci porta in un torpore spaesante, il torpore dell’assideramento, forse anche questo una metafora, infine si risolve con un rogo che pare dover purificare, materializzando il senso di sacralità spesso accennato. Prima è l’epifania di un raggio di luce che solo per un istante può essere colto nel minuscolo appartamento di Hae-mi e, che proprio nella scena di amplesso, pare illuminare il suo seno, poi è la danza dei boscimani, ridicola eppure potente e arcaica, ancora dalla giovane interpretata in mezzo all’indifferenza di amici distratti che battono le mani segnando il ritmo dei suoi passi. Infine è il volo degli uccelli che Hae-mi mima nell’ultima scena in cui appare. Da quel volo tutto si sconvolge fino al violento e inaspettato − solo per chi non vuole credere alla necessità rituale del sacrificio − finale: tutto avviene nel silenzio di campi che si estendono al limitare della città, anch’essa muta e sorda. In appartamenti inabitabili e disordinati oppure eleganti e alla moda ma ugualmente ostili. Un sobborgo disseminato di serre incendiate e laghetti, di pozzi fantasma, bagnato da un nevischio gelido (di nuovo la stessa metafora): un non luogo dove chiunque può svanire nel nulla senza che sia reclamato, perché in fondo nessuno può essere certo che una esistenza così sottile e inutile sia davvero reale, nemmeno se una dichiarazione d’amore quasi taciuta o detta per interposta persona tradotta in un urlo disperato, soffocato dall’indifferenza, ne colga per un attimo la possibilità o magari ne decreti la morte. [20]
Sholpan ha sette anni e non ha mai parlato, suo padre Bolot prova ardentemente a comunicare con lei, pronuncia frasi semplici, incisive, usa gli oggetti come esempi a cui associare suoni da ripetere. I suoi sforzi sono vani. La madre di Sholpan, Sara, vive in un tempo più lento, in un’attesa fatta di gesti quotidiani e di cure casalinghe, i suoi sguardi e i suoi silenzi comunicano l’angoscia. Strade differenti condurranno gli adulti all’apice della crisi che risolveranno solo con l’aiuto dell’altro, dell’altrove, dell’oltre da sé. È la sciamana che accompagna nel viaggio dentro i propri ricordi più profondi, lo sciamanesimo riveste un ruolo fondamentale nella tradizione del Kazakhstan. Bolot ritrova i sentimenti che lo legano alla sua terra e ai suoi antenati, in un abbraccio consolatorio con l’anziana madre scomparsa che torna e gli dona il coraggio di amare. Sara accede a una dimensione rituale e metamorfica, durante la notte risveglia una carica interiore liberatoria, femminile e danza attorno al fuoco accompagnata dal ritmo di un tamburo nel campo aperto circondata dai meli. Il climax del film conduce alla riconciliazione della famiglia e alla prima parola pronunciata da Sholpan: ‘mamma’. Olma Djon è un film che come un frutto piccolo e succoso trattiene in sé tutto il sapore e consente di avvicinarsi al senso di una tradizione culturale e di una terra in bilico tra natura e folklore. I protagonisti si muovono nelle vicinanze della loro casa immersa in un lungo campo di meli innevato, circondato dalle montagne. Gli alberi hanno un’anima che risuona di voci lontane e campanelli e ascoltano, seguono, accompagnano il fare degli uomini. C’è un tempo, senza parole, che sembra infinito. Il rumore della valle, lo sgocciolare della neve, la legna spaccata, il crepitio della verdura sotto il coltello, un sussurrare. Il suono ha un ruolo privilegiato: è come un respiro, a volte, altre una corsa, una melodia della dombra e del tamburo a cui fa eco il montaggio che ritma l’equilibrio nei momenti di quiete e di movimento. Un paragrafo dedicato merita la fotografia con il sublime bilanciamento del colore e l’uso di luci e ombre. Il rosso, il bianco e il nero, in una rigogliosa gamma di sfumature, consegnano alla visione l’esperienza delle qualità della materia: la neve e il fuoco, la terra e il cielo.
Olma Djon è un film del 2019 diretto da Victoria Yakubov e presentato al pubblico italiano nel 2020 durante la settima edizione del Torino UnderGround CineFest. Si è aggiudicato il premio per la miglior fotografia. [21]
La narrazione cinematografica della “politica” è spesso affidata ad uno stereotipo: corruzione, sete di denaro, manipolazione dell’opinione pubblica, ricerca del consenso, conservazione del potere ad ogni costo. Inutile dilungarsi in exempla: i primi a venirci in mente – almeno per quelli che consideriamo “classici” – sono “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini (1975) e “Sesso e potere” di Barry Levinson (1997). In realtà il cinema ha spesso restituito solo lo stato delle cose, anche con intenti edificanti e di critica sociale. A questo criterio sfugge in parte Il regno di Rodrigo Sorogoyen (Premio miglior regia al Goya di quest’anno) che lo ha diretto e sceneggiato insieme a Isabel Peña (che con il regista ha condiviso il premio Goya per la miglior sceneggiatura originale). Un film che vuole raccontare una storia dall’interno, con un taglio quasi documentaristico, senza schierarsi e che proprio per questo – quasi trascendendo la realtà – ce la rivela come paradigmatica. “Il regno” è un film incalzante, serrato, con una certa aura di noir, quasi sempre sopra le righe che rende disturbante quello “stile” di vita, o meglio ce lo mostra in tutta la sua complessa, doppia e darwiniana fenomenologia. Breafing succulenti in ristoranti di lusso, convention, telefonate-codice in cui comunicare ammiccando, rapide anticamere dai pezzi grossi del partito: insomma i ritmi forsennati e standardizzati della politica post-contemporanea, magnificamente scanditi dal loop continuo e martellante della colonna sonora di Olivier Arson (Premio Goya 2019) che aggiunge agitata cadenza a tutto il film; e l’ennesimo Goya ad Alberto del Campo per il “Miglior montaggio” non arriva certo a caso. Il protagonista è Manuel Vidal Lopez (un eccezionale Antonio de la Torre, il Rodrigo dello splendido “La isla minima” e giustamente premiato come miglior attore protagonista al Goya 2019), un politico influente in procinto di succedere al vertice del partito di maggioranza, guidato dall’irreprensibile e glaciale Rodrigo Alvarado, segretario nazionale, un ex giudice che si è sempre battuto contro ogni corruzione. Il cliché di una vita perbene e “politicamente corretta” – l’amore sincero per la moglie e per la figlia – ha il suo rovescio nella scandalosa attività che connota il lato oscuro della sua “professione”: Manuel Lopez Vidal è solo un corrotto che non ha mai avuto il coraggio di guardarsi per quello che è. La sua vicenda precipita inesorabilmente verso l’abisso quando trapela la notizia del suo coinvolgimento in un giro – sequela universalmente nota – di corruzione, concussione e interessata gestione dei rifiuti e di appalti. Impossibile evitare lo scandalo su cui si avventano i media: l’arresto è inevitabile. E’ a questo punto che Manuel sperimenta il lato oscuro e crudele del Potere a cui lui stesso era legato. Nel tentativo di coprire ad ogni costo, di andare avanti come se niente fosse e al contempo tentare di impedire la pubblicazione della notizia dell’arresto, di spostare il denaro e nascondere le prove (tutti miseramente falliti) la sua esistenza diventa una guerra di tutti contro tutti: gli “amici” del partito – almeno tali fino a quando c’erano le tangenti da spartire – si defilano, i vertici cercano un capro espiatorio, lungo una asfissiante girandola di incontri mancati o disattesi. Lo stesso faccia a faccia coi pezzi grossi del partito è una finzione a doppio fondo: “solo uno show – confessa a Manuel la presidente del partito Asunción Ceballos (una più che convincente Ana Wagener) anche lei coinvolta, laido e rivoltante “animale” politico – per quell’idiota del Segretario nazionale”. Saltano dunque poco a poco per Manuel tutte le possibilità: la sostituzione di giudici “antipatici” con altri compiacenti, la protezione mediatica dello stesso partito, il maldestro tentativo di furto di documenti compromettenti in casa di un ex compagno. Ma tutti fanno fronte comune contro Manuel che diventa un pericolo per il sistema: lo scandalo infatti “potrebbe far saltare tutto, ovvero distruggere il paese”, perché in fondo – sottolinea la battuta più disarmante del film – il Regno è “una macchina oleata dai tempi dei nostri nonni”. In una sarabanda di ricatti reciproci e di reciproci tradimenti, Manuel, ormai con le spalle al muro, decide allora di giocare la carta dell’autodenuncia in diretta nella trasmissione condotta da Amaia Marín (Bárbara Lennie) una giornalista capace e intelligente, al corrente della corruzione che imperversa nel partito e in attesa dell’occasione per smascherare tutti. Lopez Vidal offre in pasto al pubblico le prove scottanti sui quindici anni di corruttele con l’intento far crollare quel sistema che dopo averlo coccolato lo ripudia: ed è qui che la regia di Rodrigo Sorogoyen gioca la sua carta a sorpresa. L’intervista è un capolavoro di dissimulazione e di bieco realismo: “chi è al Potere – si costringe ad ammettere Manuel – protegge il Potere” e così il meccanismo perverso del Regno si immunizza additandolo come l’unico responsabile: anche la giornalista pare dipendere dalla longa manus di un sistema inattaccabile, anche lei strumento concepito dalle stesse persone che Manuel sta tentando invano di smascherare. Il climax del Potere è mostrato in tutta la sua logica perversamente economicista: alla fine importa soltanto l’andamento dei profitti: la stessa libertà di informazione è solo quella di “fare arrabbiare la gente quanto basta perché quei signori dell’Ibex 35 (l’indice della borsa di Madrid) restino ai propri posti nei secoli dei secoli.” Nonostante l’appassionata performance di Amaia che tenta di sottrarsi alla logica feroce di Manuel innescando una luminosa reprimenda, “Il regno” lascia criticamente sospeso ogni giudizio e la sequenza finale, pericolosamente in bilico, rimanda indirettamente a quella conclusiva de “Tutti gli uomini del presidente”: irriducibilità del potere ad ogni possibilità di controllo (e di auto-controllo), potere assoluto dei media che di quello sono un sottoprodotto. Ma ci dice forse qualcosa in più: il pericolo non è solo l’assuefazione ai maneggi dei corrotti e dei corruttori ma l’idea dell’ineluttabilità del loro comportamento. Forse in politica, nonostante gli anni, è cambiato assai poco: “Il regno” è lì a ricordarcelo ferocemente. [22]
27 luglio 1996. Ad Atlanta, in Georgia, si stanno giocando le Olimpiadi, la città è in festa ed è piena di iniziative per l’evento: concerti, spettacoli, happening ecc. L’organizzazione di tutto questo richiede un grande sforzo per gestire il servizio di sicurezza. Richard Jewell è un vigilante, di turno all’Olimpic Park dove avvenne il primo di una serie di attentati terroristici negli USA degli anni Novanta. Richard è un uomo semplice, appassionato del suo lavoro che ha sempre avvertito come una missione perché è convinto di dover proteggere tutti e tutto e che sia suo compito mantenere l’ordine. Ha subito, nel corso della vita, angherie e insulti per l’aspetto fisico, per il sospetto di omosessualità, per l’assoluta integrità. Perciò vive isolato, circondato soltanto dall’amore incondizionato della madre e dall’affetto dell’unico amico. E’ costretto a cambiare più volte mansione, sempre accusato ingiustamente e declassato di ruolo. Per questo cerca di colmare la sua frustrazione anche se non manifesta mai la rabbia interiore e la delusione che prova. Quella sera, come sempre, svolge il suo compito di sorvegliante con dedizione e senso del dovere (non dovrebbe essere in servizio perché sta male); è il primo a comprendere la presenza di una bomba e a rischiare in prima persona per avvisare la polizia e mettere in salvo le persone che lavorano e quelle che si stanno divertendo. Ci riesce, grazie a lui quella sera non avvenne una strage. Diventa un eroe, per due giorni. Per soli due giorni vive l’emozione di sentirsi un eroe e come tale viene assalito dai media che lo vogliono osannare per prendere l’onda dell’opinione pubblica. Ma l’FBI ha bisogno di un colpevole, ne ha bisogno subito e decide di far cadere i sospetti su Richard. Ne costruisce un profilo perfetto per creare il capro espiatorio, ripercorre tutte le tappe della sua vita, cerca indizi nelle testimonianze di chi lo aveva conosciuto e frainteso nel corso della sua vita. L’FBI capovolge il suo destino, con la complicità dei media, soprattutto di una giornalista cinica e disposta a tutto, a qualsiasi compromesso, anche vendere il proprio corpo, che non si fa scrupolo di distruggere la vita di Richard e di sua madre. La sorpresa di questo film, la sua bellezza, sta nella scelta di Clint Eastwood, produttore e regista, di creare un personaggio sprovveduto, innocente, ingenuo; di una ingenuità disarmante. Quando Richard si vede accusato non comprende cosa gli stia succedendo, non riesce a capire che dei rappresentanti dello Stato, le guardie federali che lui aveva sempre considerato degli idoli, possano nuocergli. Si difende dicendo che quella sera aveva fatto solo il suo lavoro, ma non basta. Si rivolge a un avvocato, l’unico fra i suoi superiori che gli abbia dimostrato un po’ di stima nel corso degli anni e che non lo abbia mai chiamato “palla di lardo, omino Michelin”…come tutti, sempre. L’avvocato lo salva, scontrandosi con Richard (sono esattamente due opposti che si attraggono), con la sua ingenuità, con quel suo naturale bisogno di dire sempre la verità e di continuare a credere che gli agenti siano brave persone, rappresentanti dello Stato. Proprio il disarmante candore mette in pericolo Richard, lo rende vulnerabile, facile preda dei giochi sporchi degli agenti federali. Ma Eastwood trasforma il suo punto di debolezza in punto di forza; mentre combatte per smontare tutti gli indizi, anche l’avvocato comincia a giocare con i media per usarli a vantaggio del cliente, mette in gioco anche la madre in una conferenza stampa toccante, talmente toccante che la stessa giornalista cinica e arrivista si commuove e comprende di aver sbagliato. Mentre il suo avvocato lotta con rabbia e volontà di giustizia, Richard fa crollare i capi d’accusa con la sua caparbia rettitudine morale. Il finale è sorprendente perché non è la forza a vincere, non è l’inganno, non è l’astuzia ma la verità e l’autenticità di un uomo semplice e sicuro della sua innocenza. Eastwood ha portato sugli schermi una storia vera e l’ha raccontata con uno stile asciutto, utilizzando una forma narrativa di tipo televisivo, per citare i network degli anni Novanta, nel momento in cui l’invasione di alcuni colossi dell’informazione come la CNN dilagava sugli schermi in tutto il mondo invadendo le nostre case. Molto bravo, più che convincente, Paul Walter Hauser nel ruolo di Richard, con il suo fisico ingombrante, frustrato ma con una grande dolcezza nello sguardo, garante e custode dell’ordine, amante delle armi ma gigante buono, non corrotto nemmeno dal male che lo ha colpito sin dall’infanzia. Costringe lo spettatore a volergli bene, per quel nitore morale che sembra stupidità. Il ruolo della madre è ricoperto dalla potente, nella sua tenerezza, Kathy Bates, candidata all’Oscar come attrice non protagonista per questo film. Ironico, concreto e di grande forza Sam Rockwell nel ruolo dell’avvocato pieno di rabbia, lui sì, ma risoluto ad aiutare Richard. Questa storia vera assomiglia a tante storie simili, presenti nei fatti di cronaca dall’Affaire Dreyfus ai nostri giorni e presenti nel cinema da Quarto potere di Orson Welles a Tutti gli uomini del Presidente, solo per citarne due celeberrimi, ma non assomiglia a nessuna di queste per la scelta di Eastwood di privilegiare una figura priva di aggressività che oppone soltanto una disarmante innocenza al cinismo di poliziotti dalla tempra discutibile. [23]
La chiamano “Oink” per via del suo peso e delle sue candide rotondità. Lei, Sara, la “Cerdita” (“porcellino” in spagnolo) sembra assorbire ogni insulto. Forse è la sua stessa stazza a smorzarli e una specie di forza interiore che le permette comunque di andare avanti, di resistere: o almeno di sperare in una pausa dei suoi aguzzini-bulli. Cerdita è il titolo del corto della regista Carlota Martinez-Pereda – una lunga esperienza nelle serie televisive – che dopo aver vinto il premio Forqué e dopo essere stato selezionato per partecipare ai prestigiosi festival di Clermont-Ferrand e di Guadalajara, ha scelto di concorrere al Goya 2019, vincendolo trionfalmente. Un’estate torrida nella Spagna di alcuni decenni or sono, quando le vacanze erano più selvagge e non erano organizzate nei villaggi, la piscina pubblica di un parco, l’acqua non certo limpida, ma l’ideale per una come “Cerdita”: lontana dalle giovanili folle abbronzate ed unte che fanno mostra dei loro fisici. Ma le “amiche” sono feroci come possono esserlo le adolescenti, specie quelle che si sentono le più carine e si atteggiano a esseri superiori: l’hanno seguita, la vedono, la sfottono – “ehi, Piggy” – durante il suo bagno solitario. Un uomo osserva muto, senza intervenire. Ai loro schiamazzi sfottenti si oppone il silenzio sinistro di quella presenza maschile che – non vista – aveva scaricato nella piscina un ragazzo: una breve sequenza ne inquadra il corpo senza vita incatenato sul fondo. Infine, in un crescendo di accanimento e di dileggio, le compagne rubano i vestiti a Sara che è costretta ad un angosciante ritorno a casa addosso solo il costume durante una giornata infuocata sulle strade secondarie e semi abbandonate dell’Estremadura. La macchina da presa non smette di seguire la protagonista che domina, per tutta la durata del cortometraggio, l’intero schermo. Sara è ovunque, il resto dei personaggio è un fastidioso ronzio lontano, quasi sfocato nella calura. Lungo il suo faticoso cammino, due ragazzi la sfottono e la fotografano accrescendo un disagio che si trasforma poco a poco in terrore. E’ sfuggendo lungo una trazzera che Sara nota la stessa macchina del signore della piscina. Lo scarto è costituito proprio da quest’uomo silenzioso – un assassino? un serial-killer? un maniaco? – e nel silenzio entrambi, lui e Sara, sembrano coincidere. Sarà lui a compiere una sorta di feroce compensazione alle vessazioni subite da Sara, alleato imprevisto ed imprevedibile in un finale ambiguo e orrendo, che non va svelato, ma che è possibile immaginare. Il corto di Carlota Pereda è un quasi-horror iperrealistico nel quale l’attrice protagonista, l’ottima Laura Galán, si muove in una sorta di trance fisica e mentale, immersa in un ambiente nudo e abbagliante ma feroce e implacabile come può essere la vendetta. [24]
A volte il cinema compie delle azioni necessarie. Racconta storie, recupera vicende, consegna alla memoria esistenze che hanno lasciato il segno ma che rischiano l’oblio. Caterina, il film di Francesco Corsi, in concorso al Festival dei popoli del 2019, è un viaggio nella vita e nell’attività di Caterina Bueno, l’artista toscana che ha dedicato la sua vita a raccogliere per i campi, tra la gente, dalla bocca del popolo della sua terra, ma anche di tutte le regioni d’Italia, la tradizione dei canti popolari, degli stornelli che nella storia hanno sempre accompagnato la vita dei contadini, delle donne di campagna, degli innamorati, degli emigranti. La Bueno è stata una ricercatrice che poi si fece interprete, portando nei teatri e anche alla Rai, i canti archiviati in cassette e piccoli spartiti e riproducendoli con la sua chitarra. Preziosissimo questo suo lavoro che ha reso possibile il recupero e la diffusione di un vasto repertorio di canti, tramandato oralmente fino al Ventesimo secolo e altrimenti destinato all’oblio, a partire dagli anni ‘60. Una vita divisa tra ricerca e spettacolo che le ha permesso di collaborare con artisti del calibro di Dario Fo, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco e musicisti come Giovanna Marini, Fausto Amodei e il giovanissimo Francesco De Gregori che le ha dedicato la canzone Caterina, a testimonianza del legame di affetto e di stima che aveva con lei. Il regista ha costruito un film documentario (non si può definire un docu-film per la ricchezza stilistica della pellicola) per ricordare la sua attività e lo spessore intellettuale e politico di questa artista scomparsa dieci anni fa. “Ho deciso di raccontarla attraverso diversi piani narrativi, tenendo conto di alcuni passaggi biografici, ma facendomi guidare soprattutto dal flusso delle suggestioni scaturite dal suo lavoro e dalle persone e dai luoghi che ha incrociato nel corso della sua vita.” Questa dichiarazione del regista accompagna l’uscita del film e ne spiega anche la particolare struttura filmica. Un racconto che si costruisce da sé attraverso i ricordi, le testimonianze, le citazioni pronunciate da amici e collaboratori che da lei hanno imparato tanto. C’è l’aneddoto citato da Giovanna Marini (altra “raccoglitrice” di canti popolari), c’è la registrazione di un’intervista a Dario Fo, c’è Francesco De Gregori che con lei ha cominciato come chitarrista, e ci sono i suoi collaboratori e colleghi. Le immagini del film, interrotte da momenti di musica, sono costruite come lunghe sequenze che inquadrano mani che cercano: cercano fotografie, cercano nastri, cercano strumenti musicali, cercano lettere, cercano ricordi di lei come lei ha cercato, e poi raccolto, per tutta la vita testimonianze del passato. C’era una precisa responsabilità etica e ideologica nell’attività della Bueno; racconta Giovanna Marini che una sera, durante un’esibizione in teatro, nel ‘64, una donna dalla platea si scagliò contro di loro perché non aveva pagato il biglietto per sentire i “canti delle donne di servizio!” Borghesia contro proletariato. Caterina continuò la sua battaglia con la voce del popolo. Il canto popolare è la narrazione spontanea e orale della malinconia, della fatica, della miseria, della solitudine immensa e dell’emigrazione. I temi cari a chiunque abbia a cuore il riscatto dell’umanità e dell’equità. Per questo il momento più tenero del film è quello dell’episodio dei musicisti senegalesi che cantano le canzoni di Caterina tradotte nella loro lingua e ne affermano l’universalità. Migranti di oggi che ascoltano canti di ieri e si ritrovano in melodie etniche e malinconie universali, chiamano per nome Caterina e la riconoscono come una loro amica, perché unico è il sentimento. Uno di loro afferma “la musica popolare ci permette di andare verso l’altro”. Prima della scena finale che conclude il film con fotogrammi di esibizioni dell’artista in televisione, questi musicisti cantano e suonano un canto d’amore tradotto e la dimensione acustica supera ogni linguaggio verbale e copre anche il degrado con la bellezza dei suoni perduti. La missione di Caterina Bueno è stata quella di riesumare ciò che è sepolto dalla modernità omologante. Il valore di questo film è quello di affidare alla memoria la figura di una donna intellettuale, messaggera popolare di bellezza e poesia. L’angelo cantato da De Gregori. [25]
Loro non cambiano gridava nel 1992 Rosaria Schifani, moglie di uno degli agenti di scorta uccisi nell’attentato a Giovanni Falcone. Nel brano di repertorio inserito in Shooting the mafia possiamo risentirne voce, diventata un filo di metallo, prima che il dolore e uno sdegno indicibile la trascinino svenuta sul pavimento della chiesa dove si stanno celebrando i rituali ‘funerali di Stato’. Quello Stato che, rinunciando a ogni sfumatura enfatica, lo stesso Falcone definiva una delle molte espressioni della società e che lo aveva tradito, riducendo gli elementi della scorta e muovendosi in modo opaco fra connivenze con i boss mafiosi, primo fra tutti Totò Riina, e campagne denigratorie dei media contro il magistrato, accusato quotidianamente di sovraesposizione narcisistica. Dopo l’assassinio di Falcone la vendetta di Riina, ancora latitante, per l’ergastolo cui era stato condannato alla fine del maxiprocesso di Palermo arrivò a colpire anche Paolo Borsellino, scosso dalla morte del vecchio amico e lasciato solo dalla politica. Borsellino camminava avanti e indietro, avanti e indietro senza pace, cercando di riordinare i pensieri e ritrovare la rabbia per continuare l’opera di Falcone. Il suo corpo venne fatto a pezzi dai 90 chilogrammi di esplosivo nascosti in una 126 parcheggiata davanti al palazzo di via D’Amelio dove abitavano la madre e la sorella del magistrato. Si vedeva solo la pancia – racconta Letizia Battaglia – l’auto era volata su un albero, non ho potuto fotografarlo, non ce l’ho fatta. E oggi quelle foto non scattate, a Falcone e a Borsellino, le mancano, le pesano come una mancanza di rispetto, perché il rispetto e il coraggio devono coincidere con la testimonianza. Ma tutte le altre foto, quelle che hanno raccontato e continuano a raccontare Palermo a partire dagli anni ’70, sono Storia. Le immagini e le sequenze di Shooting the mafia – foto, filmati di repertorio, brani di film, il lungo emozionante racconto di sé in cui Letizia Battaglia mette a nudo i pensieri più intimi – esplodono nello stomaco: materiche, viscerali, austere, a volte felici. I volti premoderni, le anziane sedute davanti alla porta di casa, le donne picchiate dai mariti sul marciapiede, i bambini che tuffano la testa nell’acqua di una fontana, la testimone che non ha visto l’omicidio perché, malata di nervi, si trovava a letto, l’altra convinta che stessero sparando agli uccelli, gli edifici martoriati dal degrado, la fatiscenza che s’ingoia una città intera, la miseria da corruzione pubblica, la mattanza che giorno dopo giorno insanguina Palermo (fino a mille morti l’anno). La mafia è ovunque ci siano soldi, si impadronisce del mercato del pesce e, per mezzo di mattatoi illegali, di quello della carne. Riesce a insinuarsi persino nei cimiteri, e se i parenti di un defunto non possono continuare a pagare il pizzo le ossa vengono esumate e buttate ai cani per far posto a qualcun altro. In frammenti esemplari la Battaglia coagula un dolore illimitato e antiretorico: crani e vetri d’auto spaccati dalle pallottole, il sangue che sgorga dai corpi formando rivoli e pozze scure, le donne straziate dal lutto. L’indignazione di Letizia Battaglia, la sua repulsione sgomenta, colpisce sia i politici costretti a fuggire dal funerale di Paolo Borsellino inseguiti dalle urla di una cittadinanza esasperata che non accetta più la mafia come destino ineludibile, sia la volgarità dei boss, ominicchi sciatti dal sorriso crudele che davanti ai giudici si definiscono ‘poveri agricoltori’. Tutti talmente miseri da vivere come sepolti vivi, nasconti in bunker spesso angusti, senza godersi il denaro accumulato, portando avanti un’esistenza finalizzata al potere: cumannari è megghiu ca futtiri. Strettamente connessa alle vicende pubbliche e all’evoluzione del costume in Italia si dipana la storia personale di Letizia. Prende forma un ritratto femminile potente, una signora indomabile di 84 anni che sente nella testa un crescente fermento civile e creativo e non teme neppure la fine. Anticonformista e determinata in una società dominata dagli uomini, passa da un padre padrone che le impedisce di uscire da sola a un marito padrone che non le permette di continuare gli studi e la spedisce in una clinica svizzera per malati di nervi quando manifesta l’intenzione di lasciarlo. Ma l’inquietudine di Letizia cresce, e comincia a frequentare altri uomini. Incontrarne uno, due, cinquanta significa scegliere, esistere, vivere, anche se è convinta che l’amore non esista, che sia una bugia, perché se fosse vero non finirebbe. Il suo è il desiderio di un’intera generazione di donne: manifestare la propria sensualità con naturalezza e umorismo, come Silvana Mangano nell’ipnotico mambo del 1954 (in Anna di Alberto Lattuada). Il vero daemon tuttavia è la pulsione costruttiva ed espressiva, che riesce a trovare uno sbocco con l’ingresso nel quotidiano L’Ora di Palermo, prima come giornalista poi, finalmente, come fotoreporter. E’ la scoperta di una vocazione, della poesia dello sguardo che si fa politica e impegno, innestandosi nella dedizione inflessibile al cambiamento antropologico della Sicilia. Una biografia imperdibile. [26]
Palermo è un ossimoro affascinante e complesso dentro il quale i MASBEDO – Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni – si muovono in Welcome Palermo con la stessa aria poetica ma presente, viva e carnale di un flâneur. “Abbiamo trasformato – affermano – un vecchio furgone OM degli anni ‘70 in un “vagone video” per visitare i luoghi del cinema del passato, per indagare sulla società siciliana e sulla storia della zona di Palermo. Il progetto “fisicamente” attraversa e attraversa la memoria, in particolare la memoria che emerge dal cinema investigativo.” Un progetto che è documentaristico e antropologico, estetico e sociale: scrutare una città al centro dell’immaginario: non più feticcio mafioso, sedimentato nella cultura cinematografica e letteraria, ma luogo di trasformazione, di scambio culturale, di sedimentazione e di contaminazione. E’ una città totale quella di “Welcome Palermo”, che ricorda in parte quella descritta dallo scrittore Santo Piazzese nei suoi romanzi, luogo che “tutto trita, assorbe, metabolizza”. E questo attraversamento si compie soprattutto nel segno della memoria del cinema – anche itinerante, come il Cinemobile Cuccia di Villafrati – ma anche dei tanti genius loci, dei quartieri e dei palazzi signorili, della luce e del lutto – come le cento Sicilie pretendono e Bufalino prescrive – del mare, di castel Utveggio, del cemento sbreccato dei quartieri miserevoli e dei writers che lì vivono e operano. Unico denominatore: la parola. Una parola urlata, declamata, confessata, dipinta da personaggi noti e sconosciuti: sindaci, cineasti, palermitani anonimi che abitano e trasformano la città, che raccontano le loro storie – e quella del “custurere” Franco Alaimo di Altofonte ci pare una delle più toccanti e discrete – che leggono sul video-furgone dei MASBEDO i pasoliniani “Comizi d’amore”, rendendo direttamente omaggio alla forma stessa del film-documentario con una citazione straordinaria. Un dialogo ininterrotto, un mosaico di vissuti e di esperienze diverse. Sul videomobile, trasformato in un moderno carro di Tespi (schermo, luci, mixer audio e videocamere), i MASBEDO declinano tutta la drammaturgia della città siciliana con la stessa “straripante concretezza visiva” di cui parlava Pasolini a proposito dei suoi comizi, intessendola delle sequenze mute dei documentari di Vittorio De Seta – il “comunista” sorvegliato dai Carabinieri durante le riprese a Petralia Sottana – delle audaci inquadrature subacquee e degli incontri di pugilato femminili girati da Francesco Alliata di Villafranca – nel racconto straordinario della Panaria Film che ne fa Vittoria Alliata – di canzoni e di musiche: e se la zampogna di Giancarlo Parisi echeggia in uno scenario scialbo e marginale, la versione che la voce di Serena Ganci, la musicologa-cantante, offre de “U pisci spada” di Modugno equivale al ricamo stesso della città, così come il “Valzer e Mazurka Brillante” di Nino Rota (arrangiata da Serena Ganci) interpretata dal coro del Teatro Biondo di Palermo, chiude il lungometraggio sulle movenze sensuali della Bharatanatyam, il coloratissimo rituale delle donne panormite e Tamil nei saloni del Palazzo Valguarnera Gangi: ennesima contaminazione e dissacrazione della “misura” viscontiana e gattopardesca. Ne esce fuori una magnifica e tenerissima testimonianza d’amore per la città che i suoi stessi abitanti affidano ai registi ma che si proietta anche nella dimensione di un rapporto strettissimo e contraddittorio ad un tempo col cinema, con l’Immagine e con il Potere: Suor Cornelia che racconta il cineforum in parrocchia e la censura operata dai parroci che “tagliavano” alcune sequenze “non coerenti con la visione cristiana” prima della proiezione; il reticolo urbano e umano di Palermo interrotto dai palazzi del potere – conventi, chiese, cupole – segni immensi di un controllo inflessibile di cui ci parla Nicolò Scalzo, puntando il dito contro la memoria pietrificata e inaccessibile dell’Archivio Storico della città. “Welcome Palermo” sul Videomobile diventa uno “studio in movimento”: sorta di personale Gran Tour cittadino, ordito con le immagini di Gianfranco Mingozzi – il regista de “Con il cuore fermo, Sicilia” – di Mario Baffico e del suo quasi introvabile “Terra di nessuno”, dello stesso Pasolini, del fascino coltissimo dell’eloquio di Gioacchino Lanza Tomasi che discetta sul Visconti de “Il Gattopardo”, dei mille suoni di una città inesauribile e multiforme, dei writers e dei loro murales, tutti segni di una nuova consapevolezza e di un desiderio inesausto di rinascita: e la battuta di don Fabrizio a Chevalley – “la mia è un’infelice generazione, sono completamente senza illusioni” – che campeggia sulle bacheche vuote dei cinema di città suona piuttosto come un addio, un avviso su come non dovremmo essere, una messa sotto accusa della Storia in vista di un impegno, di un riscatto. Il cinema a Palermo, così come la sua stessa storia, allora, è ancora un lungo viaggio muto con il videomobile: luce ininterrotta e fascinosa su uno schermo nel buio della notte. [27]
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.“
In questo discorso, pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana, risiede la ragione per cui il 25 aprile, la festa della Liberazione deve essere considerata la festa laica più sacra per gli italiani. La Liberazione degli italiani dalle truppe nazifasciste che avevano assediato e stavano sterminando il popolo dopo l’8 settembre, è stata il risultato della lotta dei partigiani, di quella atroce guerra civile che fu la Resistenza. Una guerra combattuta da uomini giovani, da adolescenti, da anziani e anche da tante, tante donne (si stima che circa 35000 furono le partigiane combattenti e 20000 patriote prestarono in vario modo il loro contributo alla lotta di liberazione). Oggi, a 75 anni di distanza da quel 25 aprile 1945, la resistenza delle donne è un aspetto che la storiografia deve rivalutare e riscrivere, al punto che si è parlato di Resistenza negata. Recentemente Simona Lunadei, storica che si è occupata della resistenza al femminile in molti testi, fra cui Storia e memoria, Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni ’80, ha affermato: “dopo la fine della guerra, direi dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile”, questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali. Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, Le donne nella resistenza del 1965 e il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire pubblicato nel 1949. Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, vestiti, riviste, messaggi, medicine. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Ma non erano armate, quindi non si potevano difendere. Molte donne hanno protetto i partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro da mangiare; un numero minore partecipò effettivamente alla lotta armata. La Resistenza non sarebbe stata possibile senza le staffette, e le staffette, spesso, erano donne. Poche donne sono state riconosciute come partigiane; soltanto in 19 hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni. Questo perché se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, quindi pochissime sono state riconosciute come combattenti. Nelle stesse brigate partigiane hanno incontrato molti ostacoli, a loro non veniva concesso l’uso delle armi. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’eguaglianza di genere che, all’epoca, era ancora un tabù. A partire dagli anni 90, finalmente, le donne che hanno partecipato direttamente alla Resistenza italiana, hanno cominciato a parlarne pubblicamente. Qualcuna ha scritto delle autobiografie (per es. Marisa Ombra, Carla Capponi, Marisa Musu….). Oggi, in occasione del 75° anniversario della Liberazione sarebbe dovuto arrivare nelle sale italiane Bandite, un docu-film completamente autoprodotto da “Bandite Film”, realizzato con la collaborazione dell’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma, dell’ISREC – Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, del Museo del Senio di Alfonsine, e del CEDOST – Centro di Documentazione Storico-Politica sullo Stragismo di Bologna. Si tratta di un film-documentario di Alessia Proietti, sull’esperienza delle donne che dal ’43 al ’45 combatterono nelle formazioni partigiane. La distribuzione è stata consentita rendendo il film disponibile gratuitamente in streaming su OpenDDBdal 20 al 26 aprile 2020, data la situazione dettata dai provvedimenti relativi alla pandemia da covid-19. Sei partigiane che hanno partecipato alla lotta di liberazione dalle truppe nazifasciste, ognuna con una storia diversa, con una estrazione sociale diversa, si raccontano in una intervista e ripercorrono le tappe dolorosissime della loro vita e della vita del nostro paese, dalla fine degli anni ’30, in particolar modo da quel 10 giugno del ’39, quando l’Italia entrò in guerra. Annita Malavasi, Viera Geminiani, Silvana Guazzaloca, Mirella Alloisio, Walkiria Terradura e Bianca Guidetti Serra disegnano con il loro linguaggio le vicende strazianti di chi non accettò dal primo momento la sottomissione a una dittatura, come quella fascista, e la condizione di perdita di ogni forma di libertà e decise di compromettere la propria vita, le proprie scelte, di cambiare nome e identità, per combattere, in ogni forma possibile per il loro ideale. Nelle loro voci di donne ormai anziane si sente tutto l’orgoglio di quella scelta, a partire dal primo passaggio: la necessità di un nome di battaglia. Laila, Mirella, Walkiria, Rossella… nomi che avevano un riferimento simbolico preciso (Rossella in onore dei fratelli Rosselli trucidati senza scrupolo alcuno dai fascisti, Walkiria perché il riferimento al mito nibelungo si addiceva ad una guerriera, e così via). Qualcuna mantiene ancora, nelle parole scelte e nel tono della voce, quella vis che dava il coraggio di agire e sfidare il nemico; qualcuna appare più nostalgica di un tempo lontano che, per quanto atroce, fu sempre il tempo della loro gioventù. Le interviste sono interrotte da approfondimenti affidati all’intervento di alcune storiche, studiose di quel fenomeno che fu definito la resistenza negata; seguono poi immagini di repertorio, le dichiarazioni di Mussolini, i documenti che attestavano la fucilazione di molti patrioti anti-fascisti, fotografie del tempo, soprattutto di loro, delle sei protagoniste da giovani, con le pettinature anni ’40, con le biciclette, con lo sguardo fiero e consapevole. La colonna sonora che fa da collante ai racconti in prima persona è un collage di canzoni degli anni ’40 e di versioni diverse, con vari arrangiamenti, dell’Internazionale e di Bella ciao (per es. la struggente interpretazione di Milva), scelta quasi inevitabile ma di sicuro, grande impatto emotivo. Le sei donne ci raccontano cosa significò per loro assumere la responsabilità di esserci, di entrare nei gruppi combattenti, di rischiare fino in fondo. Le donne che in quel tempo erano considerate solo delle fattrici, istruite dal fascismo ad essere solo mogli e madri, “conigli che dovevano dare figli alla patria” e basta, dovettero dimostrare di avere altro da dire e da fare; dovevano diventare leoni. Lasciarono la famiglia, alcune giovanissime, inforcarono la bicicletta e divennero staffette, nascondevano le armi nel reggiseno e sotto la gonna, salirono sui monti per sostenere gli uomini che combattevano, aiutarono a costruire ordigni, curavano i feriti, si procuravano e preparavano da mangiare. Erano lì, in prima e in seconda linea “a conquistare la nostra primavera”. Quando una donna veniva catturata, ci raccontano, veniva incarcerata, torturata perché parlasse, ma a lei era riservata anche una pena che portava un carico di umiliazione feroce: veniva violentata sessualmente, più volte, con sevizie ripetute, perché così si marcasse a fuoco l’infamia e si colpisse la femminilità da sempre intesa come condizione di inferiorità. Anche per questa ragione per molto tempo le partigiane sopravvissute non parlarono. Una di loro, nome in codice Rossella, vuole sottolineare un aspetto, uno dei più controversi della storiografia sulla liberazione: il vero ruolo e il reale peso che ebbero le brigate partigiane contro i nazi-fascisti nei confronti degli alleati ritenuti “liberatori”. Ebbene Rossella, con tono pacato ma risoluto, racconta: “Genova era stata liberata dai partigiani, quando il 25 aprile sono scesi i partigiani dai monti, e a Genova è arrivato l’esercito americano… ha fatto una passeggiata. Noi ci eravamo liberati!” Questa compromissione delle donne, la loro netta partecipazione fu un fattore determinate perché si potesse, poi, a partire dal ’46, iniziare una lunga lotta per l’emancipazione femminile. E’ nella Resistenza che affondano le radici per tante conquiste, prima fra tutte il diritto al voto. Ricordiamo sempre che all’Assemblea Costituente parteciparono 21 donne (un nome su tutte quello di Nilde Jotti). Non è difficile comprendere le ragioni del tentativo che fu fatto a lungo di tenere nell’oblio la resistenza al femminile; gli anni ’50 continuarono a proporre il modello della madre/moglie alla quale, adesso, era concessa la lavatrice, e la 600 per le gite fuori porta la domenica, ma sempre sottomessa e remissiva, sempre soggetta al delitto d’onore (fino al 1981), sempre amorevole verso il marito e, al massimo, segretaria. Le partigiane restarono Bandite. Bandite quando erano ribelli rivoluzionarie, bandite adesso dalla storia che non parlava di loro. In questo documentario le sei partigiane superstiti ci affidano nelle loro parole una volontà di riscatto importante, a 75 anni dalla liberazione: “la storia delle donne non è un’altra storia, è la stessa storia”. Raccontare quella storia può contribuire anche oggi, ancora oggi, a completare il percorso di affermazione dell’emancipazione femminile. E allora quando andiamo in pellegrinaggio su quei campi in montagna dove Calamandrei voleva che cominciasse il viaggio di chi vuole conoscere da dove nasca la nostra Costituzione, andiamo a cercare i partigiani che furono impiccati, ma troveremo anche le donne, leonesse uccise, torturate e in più violentate, per dare anche a noi, noi che oggi ci sentiamo tanto lontani da quegli eventi, la LIBERTA’. [28]
Anthropocene è un termine tratto dalle lezioni del biologo Eugene F. Stoermer e formalmente utilizzato nelle sue ricerche dal premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen (insieme ai colleghi Mario Molina e Sherwood Roland), uno scienziato dell’atmosfera celebre per i suoi studi sull’assottigliamento dello strato di ozono. Le sue teorie hanno ispirato un gruppo di scienziati – consultati e seguiti nei loro approfondimenti dai registi del film – che hanno usato questo neologismo per indicare un’epoca, iniziata in questi ultimi 50 anni, che segnerebbe la fine dell’era geologica precedente, nella quale la civiltà umana è sorta e si è sviluppata, ovvero il periodo dell’Olocene, e costituirebbe una fase nuova, in cui l’impatto umano sta causando all’ambiente trasformazioni tanto profonde, veloci e durature da superare l’azione di qualsiasi altro tipo di evento naturale conosciuto in passato. Ma Antropocene d’ora in poi sarà soprattutto un documentario memorabile, un viaggio visivo ed emotivo nella presa di coscienza della condizione umana e della nostra appartenenza a un sistema complesso e stupefacente, che la maggioranza di noi conosce pochissimo. Proprio come quando Freud consigliava, per guarire dalla sofferenza, di addentrarsi nella propria interiorità – anche attraverso ciò di cui la parte raziocinante non è pienamente consapevole – imparando ad esplorare le regioni buie dell’inconscio, così la regista documentarista canadese Jennifer Baichwal con il marito e direttore della fotografia e del suono Nicholas de Pencier e il fotografo Edward Burtynsky ci invitano a guardare sotto la superficie delle nostre vite frammentate e constatare con i nostri occhi da dove viene la tecnologia che diamo per scontata e cosa succede a quello che, una volta consumato, scompare dalla nostra vista ma non dalla faccia della Terra. Lungi dall’essere un film drammatico, questa sfilata di immagini poderose è anzitutto una scoperta, suscita stupore più che angoscia, lascia senza parole con luoghi e suoni sconosciuti ma ai quali sentiamo in qualche modo di appartenere, visto il filo che ci lega ad essi tramite il ciclo produttivo degli oggetti che usiamo, del bello di cui circondiamo o del lavoro che facciamo. Questo viaggio nello sfruttamento delle risorse naturali ha un potere demiurgico efficacissimo, proprio in virtù del fatto di non essere mai didascalico: ci mostra dove nasce lo schermo del nostro inseparabile telefonino e quali enormi giganti meccanici siamo stati in grado di creare per strappare dalla terra minerali e alberi, senza riempirci di informazioni calate dall’alto; ci lascia incantati di fronte alle incrostazioni psichedeliche che crea il potassio e strabiliati di fronte all’enormità dei conglomerati urbani più grandi della terra, senza bombardarci di dati e di lezioni teoriche. Antropocene ci conduce per mano dentro alle conseguenze del nostro progresso, senza condannarlo e senza articolare prediche; ci mette davanti agli occhi le differenze degli stili di vita umani nei 20 Stati diversi che vengono filmati: guardiamo attoniti di che cosa siamo capaci, in termini costruttivi, tecnologici e di adattamento. C’è anche l’Italia, con Venezia, sempre più minacciata dall’acqua alta, e con le immense cave di marmo di Carrara, che rispetto a 20 anni fa hanno aumentato in modo esponenziale la quantità delle estrazioni, grazie all’arrivo di macchinari a sostituire gran parte del lavoro umano. E’ comprensibile che chi viene ripreso nel documentario si mostri orgoglioso di quello che fa e di dove vive, che si tratti di scavare con le mani in una delle discariche più grandi del mondo in Kenya o di manovrare congegni che spaccano le montagne. Ma intanto i coralli in mare sbiancano, gli elefanti cadono sotto i colpi dei bracconieri, centinaia di specie si estinguono, il livello del mare si innalza. Il film si apre con un fuoco ipnotico, accompagnato da un magnetico crepitìo, per un tempo lungo abbastanza a far sorgere interrogativi su quanto le fiamme siano feconde ma distruttive, simbolo di potere ma anche di paure ancestrali. Questa ambivalenza guida tutto il film, insieme alla voce intima e riflessiva di Alicia Vikander nella versione originale (Alba Rohrwacher nella versione italiana), come se spreco e utilizzo fossero inevitabilmente le facce della stessa medaglia, come se potenza e pericolo non potessero esistere l’una indipendentemente dall’altro. Solo chi non fa nulla non sbaglia, dicono i saggi. E l’uomo fa, incessantemente; diventa sempre più abile e veloce a fare; prolifica, vive sempre più a lungo e occupa sempre più spazio; e a un certo punto non può che interrogarsi sul labile confine tra consumo delle risorse e profanazione della natura, cui anche noi inevitabilmente apparteniamo. Non possiamo chiudere gli occhi e fingere di non saperlo. Nei titoli di coda si scopre che l’intera produzione è stata compensata, in termini di consumo di anidride carbonica, da un progetto che si chiama Less Emissions, come a dire che anche i fautori del documentario sono perfettamente consapevoli, ironia della sorte, del costo ambientale che persino le opere artistiche comportano, ma è indispensabile non tacerlo e affrontare le conseguenze, per ricomporre il sistema. Riconoscere questa situazione, che ha portato la natura di cui non possiamo fare a meno ai limiti della sostenibilità, a valle di ogni allarmismo, è certamente “the beginning of change”. E’ così che il film si conclude, con lo stesso fuoco con cui era cominciato. Ed è così che questa nostra specie si ritrova davanti a quei colossi di pietra, di terra, di acqua e di legno, li domina e distrugge, pur dal basso della sua piccola statura, ma guardando la loro sproporzione fisica è chiaro che anche il confine tra essere nani ed essere giganti non è mai tracciato una volta per tutte. [29]
Nel 2019 è scomparso Rutger Hauer, che Blade Runner ha consegnato al mito. Per rendere omaggio all’attore olandese il nostro giovanissimo critico Lorena Gullone ha dedicato un breve saggio al cult movie di Ridley Scott. Nel 2019, anno di ambientazione di Blade Runner, muore Rutger Hauer, l’attore olandese, che rimarrà impresso per sempre nell’immaginario collettivo per la figura del replicante Roy Batty. Ispirato al romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheeps?, la pellicola di Ridley Scott se ne distanzia in molti punti assumendo i tratti di un noir intimo e profondo nel quale è evidente – nell’intento di definire il concetto di umanità – il dissidio tra organico e inorganico. Scott ha saputo cogliere il taglio malinconico e cupo del libro dando allo spettatore l’idea di una tetra megalopoli senza passato e identità, quasi cristallizzata in una dimensione senza tempo, caotica ma al contempo governata dalla solitudine di una folla che agisce quasi meccanicamente, incurante di ciò che accade intorno. Eppure, nonostante i viaggi interstellari e le realtà retro-futuristiche, ciò che rende il film impermeabile allo scorrere del tempo è l’introspezione dell’animo umano, lo sforzo incessante di comprendere le dinamiche decisionali, non solo degli uomini, ma soprattutto di coloro che si rivelano “più umani dell’umano”. Le contraddizioni morali di cui sono protagonisti tanto i replicanti quanto gli uomini non permettono di prendere una posizione, di capire verso quale parte propendere. La storia è arcinota. All’interno di una Los Angeles distopica, perennemente piovosa e senza sole, dominata da una tecnologia che ha (s)travolto la vita umana, si aggira il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford) incaricato di “ritirare” alcuni replicanti che, guidati da Roy Batty, sono fuggiti dalle colonie extra-mondo alla ricerca di una vita più lunga. La chiave di tutto è l’occhio, presente sin dalle primissime scene. Solo attraverso gli occhi si riesce a distinguere un “non umano” da un “umano”. Lo consente il test di riconoscimento Voight-Kampff, che sfrutta proprio i tempi di reazione e la dilatazione oculari. L’occhio è il simbolo dell’intera pellicola e sottolinea la (in)capacità di ognuno di cogliere il reale, anche ciò che (non) è immediatamente visibile. Questi esseri artificiali, costruiti in laboratorio, dunque, biologicamente identici agli umani, ideati e progettati dalla Tyrell Corporation per svolgere le più disparate mansioni, devono avere un limite massimo di 4 anni di longevità per non acquisire autocoscienza e provare emozioni. I replicanti si mostrano, al contrario, empatici e talvolta anche compassionevoli. Lo dimostra la scena più famosa del film: dopo un’estenuante lotta per vendicare la morte del suo gruppo, Roy Batty, nonostante abbia il cacciatore in pugno, decide di risparmiare Deckard e passa con lui gli ultimi istanti della propria esistenza. Giunto al termine del suo percorso, l’androide sceglie la vita, non la sua, ma quella dell’altro, comprendendo a pieno il valore dell’esistenza. Dopo il celebre e intenso monologo “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…” Roy Batty se ne va nel modo “più umano” possibile, guardando con malinconia il breve passato e affrontando con consapevolezza la morte. Il suo vissuto si dissolve insieme a lui, come lacrime lavate dalla pioggia, in un mondo dove la storia sembra non avere posto e tutto è risucchiato nel vortice dell’oblio. Blade runner invita lo spettatore a riflettere, soprattutto, sul significato di umanità. Nel corso del lungometraggio sembra svanire ogni distanza tra androidi e uomini, tra preda e predatori tanto che Deckard decide di scappare con Rachael, di cui si è invaghito, recente creatura di Tyrell, dotata di innesti, ricordi artificiali di un passato mai vissuto. Tipico tema dickiano. Proprio nella scena finale si rafforza il dubbio che lo stesso cacciatore di replicanti sia frutto dell’avanzata ingegneria genetica: un origami che il cacciatore trova di fronte alla porta di casa gli ricorda un sogno fatto in precedenza. Sogno o innesto di ricordi? L’ambiguità sulla natura del protagonista marca ulteriormente l’incapacità di scindere il creatore dalla creatura, in una prospettiva dove la tecnologia incombe sull’uomo e si sostituisce ad esso. [30]
Terminiamo la panoramica con i migliori film italiani, in un’annata insolitamente ricca per il nostro cinema. Su tutti svetta Il Signor Diavolo, ma si sono distinti anche in campo internazionale Effetto Domino, Volevo nascondermi, Pinocchio, Hammamet.
Esistono fenditure tra reale e irreale, tra l’oggetto e il suo riflesso, tra materia e deformazione onirica, e attraverso queste crepe le due dimensioni si osservano a vicenda. Nello spazio angusto e fuggevole della contaminazione reciproca agisce Pupi Avati, evocandolo e dilatandolo con un gioco di prospettive anamorfiche in costante movimento alternate a improvvisi nitori di tenebra o di luce, dove l’orizzontalità e la quiete sono sempre soltanto apparenti. Insuperabile nel trasformare poche stanze in labirinto senza uscita, o nello stringere i muri addosso ai personaggi, fa approdare il giovane ispettore ministeriale Furio Momentè – inetto, buono solo a riordinare i faldoni – in un albergo veneziano la cui modestia si muta presto in elusività maligna e crogiuòlo di visioni aberranti. Sembra di primo acchito un problema elettorale legato a un delitto e a dicerie di paese: nella provincia veneta del 1952 un ragazzino ne uccide un altro con la fionda credendolo il diavolo, anzi il Signor Diavolo, come gli insegna il sacrestano della Chiesa di Santa Maria della Neve – perché i cattivi vanno trattati bene, rispettare l’Avversario è il presupposto necessario per non venirne annientati -. La madre della vittima, aristocratica e influente, minaccia di far perdere le elezioni in Veneto alla DC di De Gasperi se l’inchiesta e il processo non dissolveranno le ombre che circondano lei e la memoria del figlio Emilio. Il fascicolo secretato del caso viene quindi consegnato a Momentè da un preoccupato sottosegretario affinché smussi e sopisca il pericoloso incidente con curiale riservatezza. Ma già facendoci salire le scale del Ministero entro un’aria grigio-verdognola, malaticcia e linfatica – seguendo una linea che sembra avvitarsi dentro la conchiglia di una chiocciola -, e introducendoci in uffici altrettanto smorti e disadorni, Avati suggerisce la presenza di forze imperscrutabili. La meditata struttura a scatole cinesi della vicenda mostra l’ispettore mentre legge in treno i verbali dell’istruttoria in alternanza ai lunghi flashback della deposizione del piccolo Carlo. In seguito rivivremo la genesi del crimine attraverso i racconti parzialmente coincidenti o contrapposti di tutte le persone coinvolte. Ed è un piacere inatteso vedere un gruppo di attori italiani, da Lino Capolicchio ad Alessandro Haber da Chiara Caselli a Gianni Cavina, capaci di attuare un sorprendente processo mimetico. Il Male è ovunque e si manifesta nei dettagli, nella calza incongruamente smagliata della Signora Clara Vestri Musy, nel bagliore nero e crudele dei suoi occhi che traluce dal pizzo del velo luttuoso, nella tonaca polverosa dell’esorcista – febbrile ed enigmatico -, nelle bizzarrie fisiognomiche di tutti, nelle deformità goyesche di Emilio – zanne da verro, unghie biforcute e pelle spessa ricoperta di peli simiglianti alle setole -, nelle confidenze scellerate simili a soliloqui di anime perse, nelle leggende contadine, nelle nerissime storie a veglia, nel mito del nachzehrer, il non-morto masticatore cui si doveva inibire l’azione postuma sigillando la bocca (fra ‘500 e ‘600 con un mattone o delle monete, qui con dell’ovatta e una benda). L’influenza maligna si propaga come un morbo, in forme oscene e grottesche o sciogliendosi nella rarefazione onnipresente del mondo liquido del Polesine. Il paesaggio sfuma fra lagune, argini, canali e approdi lastricati di mattoni, in un mescolìo di acque dolci e salmastre, mentre il continuo incresparsi della superficie, abbacinata di sole o specchio di nuvole, entra dalle finestre e diventa arredo, forma dell’anima, compagno segreto. Segreto come il fantasma di Paolino, l’amico inseparabile di Carlo, ucciso da un’improvvisa malattia trasmessagli da Emilio con un morso. E’ senza dubbio la sequenza più delicata e straziante del film quella in cui Carlo quasi supplica l’invisibile Paolino di fare insieme i compiti, ancora una volta, come se niente fosse cambiato; il momento liminale in cui una storia di demoni e mostri riesce a diventare meditazione accorata sulla solitudine dell’infanzia e sulla perdita. A tratti emerge lo sdegno composto di Avati verso la presunzione della Scienza e l’inadeguatezza ipocrita della Chiesa, per non parlare della Legge e della Politica. Tutti ugualmente incapaci di comprendere, incluso Momentè, che ci sono enigmi impossibili da risolvere, ed entità che vanno lasciate nella prigionia del loro sepolcro. A meno che non le si voglia raggiungere in un buio spaventoso ed eterno. [31]
Bastano poche battute e immagini asciutte a suggerire ciò che sarà l’essenza della storia da raccontare, a scolpire i personaggi che metteranno in moto la catastrofe annunciata di Effetto domino, audace film diretto con rara efficacia da Alessandro Rossetto, prodotto da Jolefilm e Rai Cinema e presentato nella sezione “Sconfini” al Festival di Venezia. Eccole lì le due pedine intente a riprendersi un ruolo da solide torri, o magari di più, sulla scacchiera dell’imprenditoria locale, eccole nella loro quotidiana normalità: la solitudine e la fatica di portare in giro se stesso hanno fatto diventare remissivo il geometra Gianni Colombo (Mirko Artuso) che si accende solo quando può sognare un nuovo sogno, quello di far nascere le cose creandole dal niente; l’impresario edile Franco Rampazzo (Diego Ribon) ritrova se stesso, il suo nulla personale fatto di ricordi e pensieri, girando in macchina, perdendosi tra strade deserte prima di rientrare nell’universo borghese tirato su con le sue grandi mani da ex muratore. Come in Piccola Patria, primo lungometraggio di Rossetto, l’ambientazione è ancora quella del nord est italiano, realtà territoriale attraversata per decenni da un’inebriante crescita che invece adesso si è convertita in crisi economica lasciando dietro sé una scia di fallimenti, disperazione e morte. Ma se nel primo film il bisogno di far soldi era funzionale al desiderio di fuga, qui prevale la voglia di restare per costruire un sogno che dovrebbe produrre profitti faraonici, un sogno intriso di cinismo – vendere il Paradiso a vecchi facoltosi provenienti da ogni parte del mondo – ma ancora solidamente ancorato ad una terra che non si vuole abbandonare e che si vuole fecondare di iniziative di respiro internazionale. Anche l’albergo torna come luogo privilegiato d’osservazione, ma non più come luogo del lavoro duro senza prospettive di riscatto, quanto di miraggio di benessere e di cura dalla malattia terminale che si chiama vecchiaia. La cronaca supporta la sete di verità di un documentarista come Rossetto e la materia offerta dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro, da cui la sceneggiatura è liberamente tratta, è troppo ghiotta per non approfittarne e renderla funzionale al proprio lavoro di indagine già avviato. Il film analizza dunque la particolare congiuntura economica attraversata da una parte un tempo opulenta dello Stivale e mette in luce le sue nefaste ripercussioni sulle famiglie di chi si è gettato a capofitto nell’affare per ingordigia certamente ma anche con la speranza accesa della ripartenza e della riscossa dopo il lungo stallo. Ma è bene ritornare alle nostre ambiziose pedine – il geometra sognatore e l’imprenditore lavoratore – per inoltrarci nell’intricato gioco di interessi che si configurerà pian piano come la concretizzazione di uno spietato “mors tua vita mea”. Colombo e Rampazzo vogliono guadagnare molto e subito ma lavorando ad un progetto con una sua filosofia: rendere gli ultimi anni di vita i migliori che ci si possa aspettare di trascorrere in vecchiaia trasformando vecchi alberghi in disuso messi all’asta in residenze invidiabili e accessoriare come hotel a cinque stelle. L’idea in fondo, suggerita dai dati oggettivamente riscontrabili del progressivo invecchiamento dell’Occidente che raggiungerà proporzioni a dir poco preoccupanti fra pochi decenni, riesce ad essere elementare e geniale allo stesso tempo e punta quindi sul “business della vecchiaia”. Per dare spessore e fondatezza a questo sogno i due amici e collaboratori parlano con alcuni anziani posteggiati nelle case di cura in attesa del loro fisiologico epilogo, ne saggiano gli umori e le aspettative restandone forse un po’ spiazzati, perché la massima aspirazione di un vecchio sembrerebbe la salute più che il lusso, ma, come giustamente comprende la moglie di Rampazzo, l’entusiasmo poggia soprattutto su un’altra filosofia decisamente più pragmatica, quella di ricominciare a costruire. In particolare Rampazzo, venuto dal nulla e dal duro lavoro, come la maggior parte dei costruttori e dei fornitori che pian piano saranno coinvolti nel progetto, si aspetta anche di continuare a lavorare non più per mantenere la serenità economica che ha ottenuto per sé e per la propria famiglia ma per puntare sempre più in alto, per vivere da protagonista il lusso. Qualcosa però va storto, l’ingranaggio messo in moto con investimenti da capogiro si inceppa quasi subito. Non è bastato sapersi muovere con disinvoltura nei meccanismi già collaudati della piccola corruzione negli uffici comunali né essersi affidati ai mutevoli interessi della banca finanziatrice rappresentata da una donna (Lucia Mascino) che accetta la gestione del potere e la sconfitta come facce indissolubili di una realtà economica in continua trasformazione. Forse tutto deve andare storto e ci sarà spazio per l’inserimento di un banchiere mediatore (Marco Paolini) che guarda all’estremo oriente, da cui promana la seduzione di un altro sogno folle e meraviglioso, e spazio per il giovane e scaltro imprenditore Fabris (Stefano Scandaletti) che invece la fortuna in cui è immerso (letteralmente perché la sua abitazione è una casa/acquario) l’ha ereditata da un padre che ancora conservava un’etica lavorativa. Per quanto scontato possa apparire il concetto, il Dio Denaro si è sostituito al Dio del regno dei cieli e non è certo casuale la reiterata presenza dei crocifissi: nelle prime inquadrature Colombo li stacca sistematicamente dalle pareti di vuote stanze disabitate; poi ritroviamo una grande croce lignea nella sua beata pienezza nel catino absidale della moderna chiesa vissuta dai due amici come rifugio assolutorio; infine un piccolo mucchietto di crocifissi viene scagliato dalle mani rabbiose di Rampazzo a siglare il tradimento dell’amico divenuto un Giuda che si limita a piangere ed accettare sputi di disprezzo invece di impiccarsi con i suoi sporchi denari. La Chiesa, ente privilegiato per certificare attraverso un suo umile servitore (Vitaliano Trevisan) la paura della morte e la conseguente necessità di esorcizzarla non è in grado di competere con chi la vita eterna sembra possa concederla su questa Terra. Una volta innescato, l’effetto domino trascina tutti verso l’inesorabile caduta in un crescendo di rivendicazioni e di agonie. Ed è proprio questo che interessa al regista, come possano ridursi gli uomini in questi frangenti e come possano sopravvivere, se sopravviveranno, alla catastrofe. Chi ha una famiglia cederà prima alla vergogna o resisterà meglio e, in quest’ultima direzione, un ruolo delicato e particolare trovano la moglie (Nicoletta Maragno) e le figlie (Maria Roveran e Roberta Da Soller) di Rampazzo, rancorose e avvilite, comunque vicine e disposte a tutto. Dalla lotta all’ultimo sangue allo sciacallaggio, dal suicidio all’umiliazione, Rossetto mostra i tanti volti della disperazione e della sopraffazione e lo fa in maniera nervosa, per frammenti, senza scavare, con allusioni, piccoli gesti da interpretare, espressioni del volto, dialoghi stringati, crea effetti suggestivi con movimenti complessi, vari e fortemente motivati dal dettato testuale come nelle intriganti e bellissime scene in cui sembra quasi che siano i luoghi a guardare le persone con una sensibilità maggiore dell’ottusa spinta al denaro di chi profana il silenzio e i resti di ambienti fatiscenti un tempo pulsanti di vita. Il dinamismo della macchina da presa si lega, a volte per contrasto altre in pieno accordo, alla “manipolazione del movimento” come nelle sequenze intensissime delle demolizioni in ralenti accompagnate dalla straniante e magnifica sottolineatura musicale di Vivaldi. Proprio la scelta musicale, che concede spazi anche a sonorità contemporanee (Lily Allen e ancora Maria Roveran) perfettamente calzanti, e il montaggio di Romolo Quadri, tecnicamente accuratissimo e a tratti giustamente irritante come irritante è il processo di caduta irreversibile delle tante tessere di questa partita troppo difficile per piccoli squali di provincia, concedono al lavoro un vero e proprio valore aggiunto. Tutti gli attori di Piccola patria si ritrovano insieme come una squadra già allenata e quindi affiatata, recitano per lo più in dialetto veneto e lavorano assecondando l’esigenza di un “mantenimento in superficie” nutrito dall’azione, perché gli scavi psicologici non sono richiesti dalla struttura narrativa e non potrebbero scaturire da una sceneggiatura che opera per sottrazione nell’ordito verbale. Le immagini devono significare più delle parole in questa vicenda di azzardi, sbagli, illusioni e responsabilità individuali e collettive, ma con un’abile manovra in fase di scrittura, quelle parole centellinate ai personaggi sono restituite dalla voce fuori campo di un narratore eterodiegetico (Paolo Pierobon) che commenta con lucidità e porge con siderale indifferenza passaggi di filosofia esistenziale che illuminano le zone oscure dei protagonisti e le logiche occulte degli spietati affaristi orientali che sostituiranno il sogno in fondo ruspante della vecchiaia felice nell’utopia sofisticata della vecchiaia eterna in grado di sfidare la morte. La medusa, trasparente, flessuosa, elegante, in grado di autorigenerarsi sarà il simbolo oggettuale e metaforico della nuova operazione, il marchio di una nuova inquietante frontiera che appartiene all’uomo sin dalla notte dei tempi: il desiderio di immortalità. [32]
Laccabue, così si chiamava al secolo il pittore e scultore a cui è dedicato il film, finalmente in uscita nelle sale italiane, Volevo nascondermi, per la regia di Gorgio Diritti e la straordinaria, incredibile interpretazione di Elio Germano. In realtà il vero nome dell’artista non era nemmeno Laccabue, trattandosi del cognome con il quale era stato legittimato dal patrigno, il marito della madre, che uccise questa e i suoi fratelli lasciandolo solo, adottato da una famiglia di contadini svizzeri, e con una struggente, atroce nostalgia della madre. Affetto da gravi malattie, il rachitismo e il gozzo, con turbe mentali e forti tendenze depressive, ebbe un’infanzia e una gioventù terribili. Più volte ricoverato, sempre scacciato, spaventato e diffidente, aveva scelto la solitudine, la vita allo stato selvaggio, rifugiandosi nei boschi, vivendo di piccoli espedienti e disperato. “Tu sei un errore” gli avevano detto nella famiglia adottiva e, per questo, Antonio scappava, si rinchiudeva, amava gli animali. Disegnava, con quello che trovava, anche sulla terra solcando le zolle con bastoni e rami, o con pezzetti di carbone sulle pietre o sul legno, e così si calmava, o si sfogava, si immedesimava in ciò che rappresentava e si liberava in parte del suo male. Finché un giorno, l’incontro con il pittore Renato Mazzacurati gli cambiò la vita; gli fece conoscere i colori ad olio e la pittura su tela, col cavalletto e così, quell’uomo emarginato, disadattato, conobbe l’arte. Poi venne accolto nella casa di Andrea Mozzali che lo “educò” all’arte e alla convivenza. Così Antonio divenne Ligabue, l’artista, che piano piano nel corso degli anni Quaranta, arrivò a farsi conoscere e ammirare, si affermò, vendette molti quadri. Neppure la fama però riuscì a cambiare la sua indole, la sua natura di emarginato e disadattato. La storia di questo artista, il Van Gogh italiano, è molto nota al pubblico italiano over 40; è presente nell’immaginario collettivo per lo sceneggiato televisivo degli anni Settanta, diretto da Salvatore Nocita e scritto da Cesare Zavattini, e interpretato attraverso una potente operazione mimetica da Flavio Bucci, il grande attore teatrale da poco scomparso. Scomparso, per una davvero incredibile coincidenza del caso, proprio nei giorni in cui era prevista l’uscita del film e la sua presentazione al Festival del Cinema di Berlino. Il volto di Flavio Bucci-Ligabue inquadrato in primo piano, mentre corre inseguendo un animale o estasiato dal volo degli uccelli, con i suoi occhi immensi e sgranati sul mondo, la bocca semiaperta, la testa ciondolante, la schiena curva (lui che era altissimo…), è un fotogramma indelebile nella mente di generazioni di italiani. Questo Ligabue di Elio Germano è un Ligabue diverso, così come è diversa l’impostazione della narrazione, per forza di cose, più schematica e riassuntiva ma di grande efficacia evocativa sul piano delle immagini. Gli aggettivi per definire l’interpretazione di Elio Germano non bastano. Ha affrontato questa prova d’attore con coraggio e umiltà, non rivestendo i panni del personaggio ma trasformandosi, letteralmente, metabolizzando ogni suo dolore, ogni rabbia ed entrando nel suo corpo. Elio Germano, che, giustamente, si è guadagnato l’Orso d’Argento a Berlino, come migliore attore, ha recitato con ogni muscolo del suo corpo, ha cambiato la sua voce, modulando un grammelot quasi incomprensibile, all’inizio, poi il dialetto romagnolo; ha stravolto le orbite degli occhi e il movimento dell’arcata sopraccigliare, ha curvato la schiena, ha fatto urlare lo stomaco, e digrignato i denti, aumentato la salivazione, fatto tremare le mani. Quando guarda gli animali che dipinge e si immedesima in loro, li imita e conversa con tigri, leoni, uccelli, e deforma il suo volto per assumere le loro forme, l’attore magnifica la sua arte. Avevamo già visto di che cosa è capace, lo abbiamo ammirato nel Giovane favoloso, dove era entrato nei panni di Leopradi, in altri ruoli molto diversi (per esempio in Alaska di Claudio Cupellini, o agli esordi in Che ne sarà di noi di Muccino, in Magnifica presenza di Ozpetek), sempre grande, un gigante dell’interpretazione. Qui il gigante si è superato. Elio Germano prende lo spettatore e lo trascina nel suo incubo, nel suo dolore, nella sua scoperta del mondo, nei suoi occhi meravigliati, nel suo delirio creativo, nel suo sogno d’amore, sul suo letto di morte. Volevo nascondermi è un film molto duro nei contenuti, molto asciutto nella forma che il regista ha scelto. Frammentario nella narrazione ma pittoresco nella fotografia: i colori, le luci, le ombre, le sfumature sullo schermo sono quelli dei quadri di Ligabue, pittore naïf, un po’ impressionista, un po’ macchiaiolo, decisamente amante dei colori forti e dei tratti spiccati. I primi piani su di lui si affiancano a grandiosi piani sequenza che lo mostrano, felice, mentre corre sulla moto nella campagna padana, con il sottofondo musicale dell’Inno alla gioia di Beethoven. La musica è l’altro protagonista in questa pellicola: Bach, assoli di violoncello, citazioni dal Trovatore di Verdi, accompagnano le vicende del pittore e tutte le sue inquietudini. 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La storia di Pinocchio, che racconta di un burattino che vuole diventare bambino, fa ormai parte del patrimonio culturale universale. Sono numerose le chiavi interpretative del testo, una di queste considera Pinocchio un percorso iniziatico dell’essere umano, che non accontentandosi della soddisfazione dei bisogni materiali, intraprende un cammino di evoluzione. In questa visione “esoterica” Pinocchio non si butta nelle sue avventure per il mero gusto di trasgredire, ma per seguire l’istinto che lo spinge a cercare strade nuove. Il burattino infatti nonostante sia refrattario alle regole e alcune volte commetta degli errori, si mette sempre in gioco con molto coraggio. Garrone, rimasto fedele al testo originale, sembra seguire questa interpretazione e il suo Pinocchio, come il libro di Collodi, può essere fruito a più livelli e da più generazioni. Lo spazio scenico è un luogo di confine tra il mondo bucolico di un passato recente e una favola ormai entrata nell’immaginario collettivo. Garrone invece di ricreare un luogo di fantasia sceglie di girarlo nelle campagne toscane, laziali e pugliesi utilizzando gli effetti speciali solo per rendere la storia più verosimile. Per esempio quello che si vede è un autentico bambino di legno, anche se è interpretato da un attore, il piccolo Federico Ielapi, che con la sua dizione poco limpida e il suo sguardo vispo è un Pinocchio credibile. Il limite ontologico del burattino non è quindi un’illusione alla quale facciamo finta di credere, ma una condizione reale che facilita l’ingresso dello spettatore nella diegesi. Nel racconto di Collodi è molto importante il rapporto tra Pinocchio e Geppetto, un falegname molto povero che si sente subito legato a quel pezzo di legno trovato nella bottega di Mastro Ciliegia. Straordinaria l’interpretazione che ne fa Roberto Benigni, che tra l’altro nel 2002 aveva diretto e interpretato proprio Pinocchio. Questa volta invece di gigioneggiare si offre generosamente, senza maschere né difese, proponendo un Geppetto puro e commovente. L’uomo ce la mette tutta per essere un buon padre, ma l’amore non basta e si dimostra incapace di insegnare a Pinocchio cosa sia la vita. Compito che spetterà alla Fatina che, come nel testo originale, inizialmente è una bambina (morta). Quest’ultima è una figura fondamentale nell’evoluzione di Pinocchio e lo accompagnerà in diverse tappe: se in chiave psicoanalitica potrebbe essere definita la madre simbolica, in una più metafisica può essere considerata lo strumento del Fato (il nome non è casuale) che concede a Pinocchio la piena libertà di sperimentare, di sbagliare e diventare perciò responsabile delle proprie azioni. [34]
Gianni Amelio dopo due anni dallo struggente La tenerezza, torna nelle sale italiane con un’operazione davvero difficile e problematica. Hammamet racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, il politico forse più controverso, sicuramente più discusso, dell’Italia della Prima Repubblica. Lo statista con cui la Prima Repubblica morì, sul finire del secolo scorso. Hammamet, in Tunisia, è il luogo che divenne il rifugio di Craxi dopo le due condanne definitive ricevute in seguito all’inchiesta Mani Pulite, il luogo dove morì ed è sepolto ed è qui che il regista ha scelto di ambientare quasi tutto il film, con un’accurata ricostruzione d’ambiente (molte scene sono state girate nella autentica casa di Craxi). Quelle pagine di storia italiana sono ancora talmente vicine e oscure che non se ne può dare una rappresentazione definitiva. A vent’anni dalla morte, la figura politica di Bettino Craxi viene adesso analizzata e studiata sotto diversi aspetti da politologi e storici. Amelio ha scelto di occuparsene da un solo punto di vista, l’unico che sia al momento possibile: quello umano. La vicenda di un uomo che fugge dalle sue responsabilità, che si imbatte nel declino che lo ha portato a precipitare dall’apogeo del successo personale e politico alla reclusione e solitudine, e nella malattia. Il taglio narrativo di Amelio sfronda i riferimenti precisi a fatti che ricordiamo benissimo al punto tale che nessun personaggio viene chiamato col vero nome, nemmeno lo stesso protagonista. La prima scena ritrae il Segretario del Partito Socialista, primo Presidente del Consiglio socialista in Italia, come un gigante osannato al congresso e decisamente tronfio nella consapevolezza della sua posizione. Da lì in poi, le prime avvisaglie dell’inchiesta e poi il baratro. Il regista non prende posizione, non condanna il suo protagonista, non lo assolve, non ci racconta niente dell’episodio definitivo di quella sera all’Hotel Raphael quando Craxi venne lapidato sotto una pioggia di monetine lanciate dalla folla inferocita che lo aggrediva come “ladro dell’Italia” (primo passo di quella dilagante anti-politica populista che, vent’anni dopo rischia di far deflagrare il nostro Paese), semplicemente ci fa sentire la sua rabbia nel ricordare quel momento, come tanti altri in cui alla politica si sostituì la procura, il desiderio di fare giustizia, anche quando questa divenne sommaria. Quei fatti vengono sottintesi senza dovere di cronaca. Ciò che il film coglie è tutto ciò che avvenne dopo all’uomo e alla sua famiglia. Per questo la sceneggiatura, dello stesso Amelio e di Alberto Taraglio, ha costruito tutta la rappresentazione attorno al ruolo del protagonista ma, anche, sulla figura dei figli, la figlia soprattutto, la moglie e, persino, l’amante. Un magnifico, monumentale, solenne Pierfrancesco Favino nei panni di Bettino Craxi. Coadiuvato da un trucco perfetto, realizzato dall’équipe di Andrea Leanza, è riuscito in un’operazione di mimesi totale, nella somiglianza, nelle espressioni del volto, nei gesti e nell’inconfondibile cadenza della voce. Toccanti le sue lacrime in qualche passaggio dove l’uomo si racconta e si auto-condanna. Toccanti perché consegnano la pietas necessaria per la sofferenza di una persona, al di là di ogni giudizio, condannato perché “Non poteva non sapere”. Il declino di una figura politica, insieme al declino di un partito e di una certa Italia, è un’occasione paradigmatica per approfondire la figura di un personaggio marchiato sempre come emblema di malvagità, “maleducato, manigoldo, malfattore, malvivente e maligno”. Sottile e intelligente la scelta musicale di Nicola Piovani che ha composto una colonna sonora dove l’arrangiamento riecheggia in forma scordata il motivo dell’Internazionale; scordata perché insieme all’uomo erano finiti anche quell’ideologia e quel partito. In un momento preciso del film Craxi ha un sogno, premonitore, e si vede camminare sul tetto del Duomo di Milano, fra le guglie, a piedi scalzi. Effettivamente circolavano sui periodici del tempo delle fotografie di Bettino Craxi sulla spiaggia a piedi scalzi (i detrattori le usavano per marcare negativamente la sua scelta di restare in Tunisia), ma Amelio, con questa immagine onirica, quasi felliniana, ha lasciato sullo schermo la figura di un uomo denudato da ogni protezione, vicino alla morte, solo e a piedi scalzi. [35]
Chiudiamo con i video del ‘miglior film’ e della colonna sonora di Joker, più i link delle singole recensioni e il consueto, personalissimo palmarès.
[6] http://www.inscenaonlineteam.net/2019/11/17/hole-labisso-un-buco-nellacqua/
[7] http://www.inscenaonlineteam.net/2020/04/24/perche-la-lepre-vince-sempre-the-hunt-di-craig-zobel/
[14] http://www.inscenaonlineteam.net/2020/02/11/sparire-per-rinascere-che-fine-ha-fatto-bernadette/
[18] http://www.inscenaonlineteam.net/2019/12/31/downtown-abbey-la-nostra-stessa-pelle/
[19] http://www.inscenaonlineteam.net/2019/12/23/mademoiselle-dallinganno-alla-passione/
[29] http://www.inscenaonlineteam.net/2019/09/13/antropocene-lepoca-umana-dal-19-settembre-al-cinema/
[30] http://www.inscenaonlineteam.net/2019/12/19/ma-roy-batty-sognava-pecore-elettriche/
[34] http://www.inscenaonlineteam.net/2020/05/18/la-liberta-di-sbagliare-pinocchio-di-matteo-garrone/
[35] http://www.inscenaonlineteam.net/2020/01/24/un-uomo-a-piedi-scalzi-hammamet-di-gianni-amelio/
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I MIGLIORI DELLA STAGIONE CINEMATOGRAFICA 2019-20
secondo Sergio Cervini & Lucia Tempestini
MIGLIOR FILM Portrait de la Jeune Fille en Feu di Céline Sciamma
MIGLIORE REGIA Céline Sciamma
MIGLIORE SCENEGGIATURA David Auburn (Georgetown di Christoph Waltz)
GRAN PREMIO DELLA STAGIONE J’accuse di Roman Polanski
PREMIO SPECIALE ex aequo Todd Haynes per Dark Waters e Kantemir Balagov per Dylda
MIGLIOR COMMEDIA Jojo Rabbit di Taika Waititi
MIGLIOR FILM ITALIANO Il Signor Diavolo di Pupi Avati
MIGLIOR DOCUMENTARIO Antropocene di Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky, Nicholas de Pencier
MIGLIOR FOTOGRAFIA Claire Mathon (Portrait de la Jeune Fille en Feu)
MIGLIORI SCENOGRAFIE Jean Rabasse (J’accuse)
MIGLIORI COSTUMI Pascaline Chavanne (J’accuse)
MIGLIOR MONTAGGIO Yang Jin-mo (Parasite di Bong Joon-ho)
MIGLIOR COLONNA SONORA Hildur Guðnadóttir (Joker di Todd Phillips)
MIGLIOR MAKE-UP Sunday Englis e Tania Ribalow (Joker)
MIGLIORI EFFETTI SPECIALI Bryan Godwin ed Edwin Rivera (Joker)
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA ex aequo Adèle Haenel e Noémie Merlant (Portrait de la Jeune Fille en Feu)
MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA Jean Dujardin (J’accuse)
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA Thomasin McKenzie (Jojo Rabbit)
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA Sam Rockwell (Richard Jewell di Clint Eastwood)
MENZIONE SPECIALE ex aequo Anne Coesens e Veerle Baetens (Duelles di Olivier Masset-Depasse)[/box]