L’autentica pietas della poesia di Sebastiano Burgaretta: «Verbumcaru»
@ Paolo Randazzo (26-02-2021)
Ci sono opere letterarie che, almeno apparentemente, si lasciano facilmente recensire. Questa impressione è determinata dal fatto che il loro punto di vista (etico, politico culturale) sul mondo è chiaro, adulto, senza ambiguità, la loro struttura formale è solida e definita, il loro rapporto con la tradizione letteraria è pacifico e ben digerito. A questo tipo di opere appartiene “Verbumcaru” il poemetto di 1644 versi endecasillabi, in puro e ruvido dialetto avolese, che Sebastiano Burgaretta ha recentemente pubblicato per i tipi di Algra Editore (prefazione di Dario Stazzone, illustrazioni di Francesco Coppa). Un’opera da leggere e rileggere con attenzione e su cui meditare con intelligenza e cuore aperto. Ripetiamo. Un punto di vista politico sul mondo chiaro, adulto, non ambiguo: in questo caso il punto di vista libero e coraggioso di un cristiano che, forte della sua identità di fede, non si chiude alla violenza della realtà e all’alterità, anzi se ne fa sfidare e autorizza, anzitutto in sé stesso, il prezzo del dolore, della vergogna, della collera e della denuncia senza sconti dell’eccidio che l’infame e paradossale chiusura europea al fenomeno della migrazione trans-mediterranea e trans-balcanica sta provocando. Una struttura formale ben definita realizzata nella forma del poemetto e che, nella sua aspra e sontuosa vitalità linguistica e nel suo plurilinguismo, attinge anzitutto al magistero di Dante (evidentemente un Dante, interiorizzato, vivo, profondamente meditato) ma sa anche far riecheggiare, nella loro verità antropologica, il tratto popolare dei suoni e dei ritmi dei grandi cuntisti siciliani (ma anche dei poeti dialettali di provincia) dei quali Burgaretta è studioso attento. Un rapporto profondo con la tradizione letteraria occidentale che travalica il dialogo con la poesia contemporanea e si nutre della necessità del canto attingendola laddove essa appare ancora come fiamma accesa, autentica e inestinguibile (Dante come si è detto, ma anche l’Eneide, l’Odissea, la potenza intrinseca fonti bibliche ed evangeliche, le diverse tradizioni letterarie del mediterraneo). Ma, detto questo, ecco che si presenta al lettore (ed al recensore) il rebus vero di questo libro, il rebus di cui occorre venire a capo a pena di tradirne l’onestà dell’intenzione poetica e la serietà politica dell’ispirazione: a quale parola si appella il poeta? Quale parola evoca e invoca, quale parola il poeta chiede e pretende, mentre noi ci giriamo dall’altra parte o balbettiamo scuse immonde. Scuse che non è esagerato definire immonde: perché siamo stati noi, occidentali, europei, ad aver inventato la libertà, la tolleranza, la solidarietà, la giustizia, i diritti umani. E adesso ce ne dimentichiamo? Adesso, per chi disperato bussa alle nostre porte? Quale parola si sta incarnando nello strazio dei corpi dei migranti? Questo poemetto non ci mette davanti soltanto allo scandalo terribile e paradossale delle morti tragiche e tragicamente innocenti di migliaia di bambini e bambine che, fuggendo guerra, povertà e assenza di futuro nel Medio Oriente e nell’Africa, hanno trovato nel nostro mare il loro ultimo giorno, ma ci svela soprattutto il senso tragico della menzogna che prova spudoratamente a coprirle e a deresponsabilizzarci. Questo poemetto prova a raccontarle queste morti, a metterle in forma, a restituire loro la giustizia di una parola necessaria, a comporle singolarmente e coralmente: il suo senso più profondo sta proprio nel tentativo di esprimere «poematicamente» ciò a cui la massa mediatica, enorme, frammentata e strutturalmente bugiarda, delle notizie ha tolto ogni concreta sostanza d’umanità, ogni nome (Alan, Yussuf, Mohammed, Sena, Said, Raghad)…, ogni senso d’orrore, ogni risposta o reazione dettata da giustizia e autentica pietas. Ecco il nodo profondo di questo lavoro, ecco l’invenzione che lo tiene al riparo dal moralismo e che, collocando nella carne martoriata dei migranti (soprattutto bambine e bambini, ragazze e ragazzi) il senso della parola poetica, ne difende e garantisce la necessità politica, morale e spirituale e la salva dall’inaudito naufragio morale di cui tutti siamo inevitabilmente protagonisti e responsabili. Verbum caro factum est: il detto giovanneo si replica e si chiarifica profeticamente nello spasimo indicibile della contemplazione, nello strazio dell’ascolto, nella ricostruzione della tragedia dell’eccidio dei bambini migranti. Una tragedia che s’immagina riattraversata e raccontata al lettore dal piccolo Alan Kurdi, che ci è apparso il 2 settembre del 2015 – sciaguratamente – nella tragica gloria del suo corpicino annegato nel mare Lesbo. Alan difende il suo stesso nome e pretende di aver parola, prende parola: e si tratta di un canto che si dispiega in una lingua radicalmente “altra”, severa, ruvida eppure attraversata da ogni tenerezza (paterna, materna, fraterna), una lingua popolare e sontuosa al contempo, arcaica, contadina ed insieme aristocratica, oltremondana, atemporale, basso-corporale e finemente (o, anche, finalmente) letteraria. Il poeta ha lavorato duro, si è documentato pazientemente, pietosamente, ha attinto per anni e quotidianamente dal fiume dell’informazione mass mediatica, ha colto decine e decine di episodi di annegamento e morte dei bambini e delle bambine migranti nel Mediterraneo (o in quella che viene definita la “Rotta Balcanica”), ha salvato quegli episodi dall’oblio della troppa informazione quotidiana e acritica, che ormai ha reso indifferente l’Occidente all’orrore di questo male quotidiano. Questo è ciò che ha realizzato Burgaretta, appartato poeta mediterraneo dal carattere austero e incapace di malizia e questo è ciò che è necessario dire per rendere onore alla verità del suo lavoro. Poi, magari, altri studiosi e linguisti sapranno evidenziare e spiegare incongruità tonali e lessicali, puntuali disomogeneità di ispirazione, ulteriori pregi e altri difetti di questo poemetto, ma questo è quanto in una recensione si può ed è necessario dire. C’è in questa opera una qualità ulteriore che non va sottaciuta, una caratteristica laterale rispetto al suo valore poetico, ma non per questo poco rilevante: il pregio del dialetto usato dall’autore come solidissima base per costruire la sua lingua poetica. Si tratta del dialetto siciliano di Avola, dispiegato con potenza, purezza e con una straordinaria ampiezza e profondità lessicale che denunciano il legame ancora vivo (e consapevole) di questo poeta con la lingua e la cultura della civiltà contadina. Una civiltà della quale Burgaretta è notoriamente studioso attento e raffinato sia dal punto di vista strettamente linguistico sia da quello più ampiamente antropologico.
Sebastiano Burgaretta, Verbumcaro pp. 89 euro 10