‘Il barbiere di Siviglia’ al Teatro dell’Opera di Roma. Quando Rossini gioca col Covid
@ Loredana Pitino (06-12-2020)
Se il teatro non può accogliere il pubblico ma un genio di regista riesce a trasformare il problema, l’ostacolo in opportunità, il teatro intero può diventare palcoscenico.
E’ accaduto nella serata di inaugurazione del Teatro dell’Opera di Roma, il 5 dicembre. Senza pubblico, lo spettacolo è stato trasmesso da Rai Tre, il teatro Costanzi è stato trasformato nella Piazza di Siviglia, il Palco reale nel balcone di Rosina, i corridoi che portano alla platea nelle strade e nelle viuzze della città spagnola. Il regista che ha immaginato e realizzato questa vera magia è Mario Martone, un uomo di cultura, competente e conoscitore della storia, del cinema (regista di alcuni capolavori come Noi credevamo o Capri Revolution), appassionato di opera lirica e artista capace di vedere oltre la scrittura, oltre il testo, di interpretare i messaggi intriseci dei grandi del passato e, lo ha dimostrato in questa occasione, di ricodificarli senza tradirli.
Di questo spettacolo, Martone non ha curato soltanto la regia teatrale, ma anche quella televisiva. Non sarebbe potuto essere diversamente, perché le due visioni si integrano e si completano col risultato finale di una rappresentazione davvero speciale, originalissima, sorprendente.
E’ chiaro che l’opera buffa di Rossini si presta a una tale operazione, è una commedia dall’intreccio plautino, passata per la Commedia dell’Arte e arrivata nel Settecento attraverso il testo di Caron de Beaumarchais e musicata da Gioacchino Rossini, ed è per questo che si è potuto ancora giocare, inventare un meta-teatro divertente, e poter ridere anche della situazione dolorosa e paradossale che il mondo intero sta vivendo: l’epidemia di covid.
La genialità di Martone è stata capace di operare una riflessione sui vincoli che l’epidemia ha creato per tutti, ha metabolizzato l’immenso ostacolo – pensiamo al mondo dell’arte, della cultura, del teatro che si è letteralmente fermato, pietrificato, soffocato da esigenze di sicurezza e protezione sanitaria – e lo ha fatto diventare un’occasione.
Dell’opera di Rossini sono stati rispettati, con attenzione filologica, ogni gesto, l’intera impalcatura dell’intreccio della beffa, il ruolo dei personaggi, fortemente stereotipati nella commedia, i movimenti, le entrate e le uscite; nessuna sbavatura, nessuna manipolazione gratuita, nessun intervento delirante (come tante regie moderne, purtroppo, si ostinano a fare pur di creare scalpore e fare parlare di sé), ma piccoli interventi con una narrazione metaforica di forte impatto, emotivo e razionale.
Figaro, il factotum che incarna il servus callidus a servizio degli innamorati, arriva al teatro in sella a uno scooter e la scena, girata con una ripresa televisiva più che cinematografica, del percorso per le strade poco affollate di una Roma languente, in zona gialla, sospesa tra la vita e il silenzio, è un omaggio alla città e al Teatro dell’Opera, simbolo della cultura alta della Capitale.
Mentre il baritono Andrzej Filonczyk, canta la sua aria celeberrima, Largo al factotum della città, arriva in teatro, e veste i panni del barbiere, qui un po’ guitto; poi indica quale sia la sua bottega: “la bottega non si sbaglia, eccola qua….quattro gradini, v’è per insegna una lanterna….” Mentre la regia inquadra dal basso la scaletta e rende credibile l’idea che da lì si vada nelle strade di Siviglia.
Tanti passaggi dell’opera si caricano di una nuova ironia e i personaggi di Siviglia si arricchiscono della gestualità del nostro quotidiano: le mascherine, la febbre misurata col termoscanner (usato dal Direttore d’orchestra), la sanificazione dei soprabiti, la distanza di sicurezza….
Poi, il momento più significativo del messaggio che questa interpretazione personale e intelligente ci vuole lasciare: quando Rosina canta la sua aria – carica dei virtuosismi che Rossini aveva costruito per il ruolo del mezzosoprano secondo il gusto del pubblico dell’epoca – “le cento trappole”, quei lacci che tenevano imprigionata la fanciulla a un pretendente anziano e ottuso che la tiene sotto giogo, si concretizzano in una ragnatela di corde tese sotto la quale la bella sivigliana in camicia sensuale e a piedi scalzi, lancia la sua provocazione. La ragnatela dei vincoli, delle paure, dei divieti, dell’impotenza, dello scoramento generale che la pandemia fa incombere su tutti noi.
Il resto della vicenda si svolgerà sotto un reticolato costruito tra le file dei palchi e la platea, il golfo mistico e il sipario, la scena e i corridoi.
Fino al finale, quando l’amore trionferà, Rosina e Lindoro potranno sposarsi, grazie all’aiuto di Figaro, alla beffa ordita ai danni di Don Bartolo, riuscita grazie all’astuzia e all’ingegno, strumenti della ragione (era il secolo dell’Illuminismo), potranno tagliare i legami, svincolarsi, essere liberi. Così Figaro ci prende per mano, ci conduce dai corridoi del teatro al palcoscenico, dietro le quinte, e taglia tutte le corde insieme agli artisti sul palco, a quelli in platea, dai tecnici, alle sarte, ai tanti operatori e lavoratori che stanno dietro ogni spettacolo. Un taglio netto, liberatorio. Un gesto carico di speranza, un messaggio di fiducia e un augurio, il più bello che l’Arte possa fare. Perché in questa serata d’inverno, con strane festività natalizie che si avvicinano, l’Arte deve recuperare il suo più profondo significato e darci respiro, speranza.
Siamo convinti che Rossini avrebbe approvato e si sarebbe divertito.
Il cast si è dimostrato, tutto, all’altezza di questa eccellente messa in scena.
Primo fra tutti, il Maestro Daniele Gatti, che ci ha fatto davvero sentire il dispiacere di non essere lì, di non poter godere dal vivo di una direzione così leggera, carezzevole e poi, quando occorre, veloce e incalzante, speculare alla struttura dell’opera buffa, così come Rossini l’aveva congegnata.
Soprattutto nella scena del temporale abbiamo apprezzato la perfezione nell’equilibrio di direzione d’orchestra, effetti di luci e interpretazione di Rosina (Vasilisa Berzhanskaya).
Le voci tutte stupende di artisti che si muovono benissimo sulla scena anche come attori: Alessandro Corbelli (Don Bartolo), Alex Esposito (Don Basilio), Patrizia Biccirè (Berta), Roberto Lorenzi (Fiorello).
Un aggettivo si addice davvero a questo spettacolo: coraggioso. Il coraggio di Martone, non è stato quello di osare (lo stesso ente lirico di Roma l’estate scorsa aveva portato in scena una regia volgare e fuori contesto con il Rigoletto di Caracalla), non è stato quello di mettere insieme linguaggi mediatici differenti per attualizzare a tutti i costi la lirica (nella Tosca alla Scala di Milano nella stagione 2019 e l’anno prima con Attila David Livermore aveva proiettato parte delle vicende inerenti all’opera su maxischermi invadenti, per esempio); il suo coraggio è stato quello di approfondire la lettura e leggere, anche, i nostri tempi, la realtà durissima dell’attualità e tentare di alleggerirla con la levità della musica e l’universalità della lirica.
Viene una gran voglia di applaudire alla fine, da casa, seduti sul divano, con quella malinconia di chi sente tanto la mancanza dello spettacolo dal vivo.