Addio a Sean Connery, una leggenda in kilt
@ Loredana Pitino (31-10-2020)
Quando se ne va un grande vecchio, attore o autore, regista o politico che sia, perdiamo tutti qualcosa. Quando se ne va una leggenda vivente, è il mondo che rimane privo, privo di una colonna, un telamone scolpito e pilastro dell’immaginario comune e della storia.
Nel caso della scomparsa di Sean Connery la privazione riguarda il cinema e la cultura, il teatro e la nostra stessa identità.
Sì, perché Connery, classe 1930, scozzese, di estrazione sociale umile, ha segnato con la sua figura imponente, il fascino magnetico, lo sguardo indagatore, la fisicità atletica ma elegante, un’epoca lunga con generazioni e generazioni che lo hanno ammirato e idolatrato riconoscendo in lui e nel suo 007, James Bond, l’ideale di eroe moderno, invincibile, difensore del bene contro il male e benefattore dell’umanità (con buona pace di ogni credibilità realistica).
Per il mondo Sean Connery è James Bond, il primo 007 uscito sugli schermi nel 1962 dai romanzi di Ian Fleming che interpretò in sette pellicole. L’agente segreto britannico, suddito della Regina, spia, infiltrato, seduttore, soldato impegnato in rocambolesche fughe, inseguimenti con tutti i mezzi immaginabili, con la sua Aston Martin “accessoriata” per l’attacco e la difesa – canne dei fucili che saltano fuori dagli indicatori anteriori, scudi antiproiettile dietro al lunotto, sedili ad espulsione, lanciafiamme laterali….-; il seduttore che ha fatto innamorare donne di tutte le età, che si presentava come una carta di identità e beveva Martini, rigorosamente “shakerato non mescolato”, è nella storia ed è rimasto insuperato (non ce ne vogliano “gli altri”, compreso il già compianto Roger Moore).
Ma Sean Connery ha voluto essere anche altro, anche molto di più.
Ha voluto arricchire la sua carriera uscendo dal cliché. E’ stato scelto da Hitchcock per il film Marnie, per commedie brillanti (Una magnifica canaglia), per film western, per film fantapolitici e di fantascienza, saghe epiche come Highlander, polizieschi e così via.
Finché, nel 1986, Jean Jaques Annaud lo scelse per il ruolo più importante della sua carriera, più colto, più difficile: interpretare Fra Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa.
Chi era Guglielmo da Baskerville nel romanzo di Umberto Eco uscito pochi anni prima? Che cosa voleva rappresentare quel vecchio frate indagatore e inquisitore? In che mondo doveva entrare Connery? Un romanzo storico che è anche un giallo, ma è anche un trattato sul Medioevo, ma è anche una storia d’amore ed anche un romanzo di formazione, un saggio di semiologia e un racconto epico. La sfida impegnativa ed esaltante per un attore raffinato e arguto. L’inchiesta e l’indagine è al centro della grande narrazione ambientata in un monastero, custodia di segreti e libri proibiti, scenario di intrighi e sortilegi, roghi e delitti, intrecci politici ed ecclesiastici. Il nome della rosa è un macrocosmo labirintico erudito dove l’attore sarebbe dovuto entrare con la grazia con cui si tocca una reliquia. Connery fece questo ma arricchì il personaggio con la sua personalità, il suo rigore, il fascino che gli apparteneva e che velò di mistero. Guglielmo-Connery del film è un po’ 007, un po’ Sherlock Holmes, molto, molto humour britannico e passione imprigionata in un saio.
Quel ruolo gli regalò una consacrazione universale. Il film, un capolavoro assoluto, deve tutto a un grande regista, visionario al punto giusto da saper entrare nel mondo complesso di Eco, e a uno strepitoso Sean Connery. Vinse l’Oscar, nel 1987, come spesso succede, non per quel film ma per una creatura magnifica di Brian De Palma, The Untouchables (cast eccezionale al suo fianco con Robert De Niro, Andy Garcia, Kevin Costner) Si divertì – ne siamo sicuri perché troppo divertiti noi nel vederlo – accanto a Harrison Ford in Indiana Jones rivestendo il ruolo del vecchio, apparentemente, distratto padre dell’archeologo. Poi fu la volta di Caccia a ottobre rosso, un’altra spy story ambientata in un sottomarino. Nel 1994 torna al film storico con una interpretazione insieme romantica, cavalleresca ed epica: diventa il saggio Re Artù, innamorato della sua Ginevra ma capace del sacrificio più grande, ne Il primo cavaliere. Negli anni 2000 comincia a operare delle scelte, ad accettare un numero via via minore di ruoli, finché, nel 2005 decide di ritirarsi per sempre dalle scene perché deluso, infastidito “stufo di avere a che fare con degli idioti”.
Quella che non ha mai cessato di combattere è stata la sua battaglia per l’indipendenza scozzese, (soprattutto nel referendum del 2014), idea nella quale credeva fermamente, come ad una fede e per la quale si era speso in molte occasioni, ostentando la sua appartenenza a una nazionalità e a delle tradizioni anche con la scelta di indossare il kilt in tutte le occasioni ufficiali alle quali prendeva parte. L’altra sua fede era quella per l’ecologia, dal 2011 ha fatto parte dell’Advisory Board, dell’organizzazione per la protezione della vita marina Sea Shepherd, ha lottato, insieme all’organizzazione Save the Bays, ha sostenuto finanziariamente il progetto per la protezione del clima di Al Gore.
Per tutto ciò vorremmo attribuire a lui una riflessione che si legge nel Prologo proprio del Nome della rosa, dove Umberto Eco parla degli uomini grandi, di uomini che diventano leggenda, perché più che 007, per noi, Sean Connery è e rimarrà sempre, Guglielmo da Baskerville.
“Gli uomini di una volta erano belli e grandi (ora sono dei bambini e dei nani), ma questo fatto è solo uno dei tanti che testimoni la nostra sventura di un mondo che incanutisce. “