Venezia 77 | ‘The Human Voice’ di Pedro Almodóvar, ovvero il concettismo metamorfico di Tilda Swinton
@ Lucia Tempestini (05-09-2020)
Che la durata di un film ne possa determinare l’idoneità ad essere presentato in concorso in uno dei tre grandi festival del cinema è una di quelle convenzioni sulle quali non ci si interroga nemmeno più, e che vengono accettate con inerte condiscendenza. Di certo, The Human Voice si presenta come la camera di combustione dove, nel grigiore vasto di un teatro di posa, la macchia rossa dell’abito della protagonista dà l’avvio a una cesellatura di ambienti, oggetti e colori che diventa la mise en abyme di una memoria che si costruisce cercando se stessa, di un desiderio che si alimenta ossessivamente di fantasmi e assenze, ma soprattutto della natura del cinema là dove il linguaggio filmico non cerca più il reale quanto un altro linguaggio, cui tende e di cui nel corso dell’indagine codifica le strutture.
In questa fase estrema, Almodóvar sembra scegliere come strumento di osservazione – di sé più che del mondo – un gongorismo caldo e ipercromatico che mostra più di un punto in comune con il concettismo di John Donne e con il neomanierismo inglese (da Keats a Woolf). Scelte stilistiche che fanno di Tilda Swinton l’interprete perfetta – l’unica possibile – degli abbaglianti 30 minuti di The Human Voice. Vedendola innescare un raffinato processo mimetico che ne cambia l’essenza da un fotogramma all’altro, come nel lontano Orlando di Sally Potter, trasformandola into something rich and strange, si comprendono appieno le parole sorprendenti con cui ha accolto il Leone d’oro alla carriera. Il cinema non è ‘una carriera’ bensì la vita stessa e lo Stato del Cinema – privo di confini, selvaggio, aperto a una continua sperimentazione – è l’unica patria che, se la scegliamo, può rappresentare il nostro rifugio salvifico.
Al di là del tempo, al di là della tristezza.