Per ricordare il grande Gianrico Tedeschi, da poco scomparso, riproponiamo la recensione dello spettacolo ‘Dipartita finale’ di Franco Branciaroli, scritta nel 2016 dal nostro critico Agata Motta.
Una livella molto beckettiana. ‘Dipartita finale’ di Franco Branciaroli, con Gianrico Tedeschi, al Teatro Biondo di Palermo
@ Agata Motta (18-03-2016)
Palermo – “A noi non ci riesce di morire e neanche di vivere”: è un Limbo esistenziale quello nel quale sono sospesi senza condanna e senza salvezza i personaggi di Dipartita finale, spettacolo di Franco Branciaroli che ritaglia per sé il singolare ruolo della Morte, con tanto di falce e di corni rossi scaccia jella, e una regia in cui la valorizzazione degli eccellenti coprotagonisti diviene cassa di risonanza per i tantissimi spunti di riflessione disseminati nel testo. Dopo una lunga e fortunata tournée, lo spettacolo giunge al Biondo (con repliche fino al 24) ad offrire una di quelle imperdibili occasioni di grande teatro, laddove l’aggettivo calza ad ogni singola componente dell’evento scenico: testo arguto, insolente, profondissimo e colto; cast eccezionale che riunisce nomi prestigiosi e consacrati; regia preziosa che impartisce i ritmi giusti a questo gioco orchestrale amarissimo eppur gioioso; scene e luci (firmati da Margherita Palli e Gigi Saccomandi) da incubo irriverente e persino farsesco.
Già il titolo del lavoro ci riporta per immediata associazione ad atmosfere e a tematiche beckettiane, ma il testo non si limita a queste, in qualche modo ne diviene ideale prosecuzione di tempi e di luoghi, ne ripropone, rimescolando un po’ le carte, le dinamiche relazionali, ne assorbe l’immobile disperazione e la fluttuante tensione stemperandoli nell’ironia. Branciaroli pare divertirsi con le citazioni, le affastella a bizzeffe – da Shakespeare ad Angiolieri, da Manzoni allo stesso Beckett (anche l’alberello di Godot è presente in scena) – ma ne riemerge sempre con un’originalità incontestabile, la voce che giunge allo spettatore è la sua, gli echi di una cultura posseduta e interiorizzata servono soltanto a vivificare un messaggio personale. Quale? Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Maurizio Donadoni sono tre sbandati che sopravvivono in una baracca e fanno i conti con la Fine, la propria e quella della cara vecchia Terra.
Come nel gioco degli scacchi il finale di partita deve comprendere uno scacco matto, ma qui gli sconfitti non sembrano tanto gli esseri umani quanto piuttosto i grandi ideali che hanno sorretto il mondo, sempre più sostituiti da un desiderio di onnipotenza che ha prodotto macerie ideologiche, che ha sostituito gli imperativi della scienza alla legittima voglia di conoscenza, che ha allontanato lo spettro della vecchiaia e dell’attesa di un misterioso “dopo” fino a produrre l’illusione di poter sconfiggere la Morte stessa. L’ottimo Branciaroli, proponendo un Totò menagramo (il Totò filosofico de ‘A livella che strizza l’occhio a quello comico della gestualità e delle battute divenute ormai patrimonio collettivo) esorcizza la paura, ne scardina le motivazioni, si sottrae ad un ruolo predatorio che non può concludersi azzannando le ultime vittime, perché ciò comporterebbe la sua stessa estinzione. Un incredibile Tedeschi, cui va una sincera ammirazione non disgiunta da un pizzico di invidia per quegli anni posati sul suo capo canuto come una carezza e non come un fardello, e un impeccabile Pagliai, che diverte senza mai banalizzare perché possiede e gira nella toppa con maestria la chiave ironica del testo, sono Pol e Pot (pronunciati insieme i due nomi non creano quello del dittatore responsabile del genocidio cambogiano?); un tempo sono stati una coppia legata sentimentalmente, adesso condividono uno stato di prostrazione che dilaga ovunque.
Entrambi suggellano l’impossibilità del mondo di riprodursi – nella cova di un uovo di gallina troviamo una tale carica simbolica che non va sviscerata per non sminuirne la bellezza – manifestano il desiderio di concludere giorni vuoti e la voglia di perpetuarli in uno stato intercambiabile di sonno e di veglia. Ormai si conoscono in ogni piega dell’anima e del corpo, ma un’insopprimibile spinta all’azione li porta ad ulteriori ispezioni che, non potendo più sondare un’interiorità inaridita o dimenticata, vengono effettuate negli orifizi più interni da scrutare con tanto di cannocchiale. Un superbo Maurizio Donadoni, invece, è il Supino, ambiguo personaggio che si crede immortale. Egli non ha voluto seguire i “navigatori eterni” che appartengono alla sua stessa specie, novelli Argonauti alla ricerca di una Terra in tutto simile a quella ancora intatta e vicina allo stato di natura (ed ecco che fa capolino anche Rousseau) che hanno abbandonato prima della catastrofe che l’ha umiliata e offesa. Proprio a Donadoni, che si muove e parla con un sornione omaggio a Gianfranco Funari, il regista regala un monologo da brivido, quello in cui rivela il suo segreto: voler morire per resuscitare nell’eternità dell’Inchiodato. “Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi” diceva l’Innominato colto dall’angoscia nella notte che preludeva alla conversione.
Qui però la conversione non può maturare, perché a dileguarsi è proprio l’orizzonte del divino. Il Dio che si è fatto uomo potrebbe essere un ciarlatano che ha sparso promesse consolatorie, ma potrebbe anche essere un salvatore che possiede l’accesso a mondi nuovi. Potrebbe, ma non è, non c’è più spazio per sofismi teologici. A Dio si è sostituito l’Uomo, ma non è venuto meno il terrore per un futuro che si vorrebbe dominare e piegare senza garanzie di successo, che mostra prepotentemente i segni dell’imprevedibilità, un futuro che dovrà comunque fare i conti con la Morte. Insomma, si tratta di uno spettacolo nel quale c’è da perdersi, nel quale entrare con umiltà e rispetto perché vi si celebra un rito, quello dell’Arte, e i suoi officianti sono davvero meritevoli della pioggia di applausi ricevuta.
In scena anche Sebastiano Bottai in un piccolo ruolo che imprime la svolta finale allo spettacolo.