I pensieri visibili. Intervista a Viola Graziosi
@ Amelia Natalia Bulboaca (06-04-2020)
Stiamo vivendo tempi di grande apprensione e confusione. I teatri sono chiusi e le vite sono sospese. Lei ha deciso di portare Il racconto dell’ancella in streaming. Ci racconti come ha vissuto questa esperienza e cosa può fare l’attore quando viene reciso improvvisamente il cordone ombelicale con il palcoscenico.
The Handmaid’s Tale – il racconto dell’Ancella, è uno spettacolo che ha debuttato al Napoli Teatro Festival l’estate scorsa. La tournée è stata interrotta quasi sul nascere a causa della chiusura dei teatri per l’emergenza coronavirus, ma tra le date in programma ne avevamo 2 a Milano allo Spazio Teatro No’hma. È stata la Dottoressa Livia Pomodoro, Presidente del teatro a proporci di andare in scena in streaming da casa nostra. Loro sono abituati allo streaming, lo fanno da anni, in quanto la loro programmazione comprende spettacoli stranieri che non sempre riescono a far venire in Italia. Però solitamente sono spettacoli che vengono fatti in un teatro e che vanno in diretta streaming, ripresi da 3 telecamere. In questo caso la sfida è stata quella di provare ad andare “in onda” da casa. Questo è stato possibile perché lo spettacolo è un monologo e benché il corpo sia una componente essenziale sulla scena, il racconto è comunque molto forte. E poi la regia è di mio marito, quindi essendo a casa insieme abbiamo potuto lavorare per adattare lo spettacolo a questo nuovo mezzo di comunicazione. Abbiamo dovuto rinunciare al corpo per concentrarci solo sul mio volto in primissimo piano, su sfondo nero. Per eliminare tutto quello che era “casa” e che avrebbe distolto l’attenzione dalla storia.Solo così poteva accadere qualcosa di interessante a livello di immagine. L’obiettivo che ci siamo posti è stato non tanto quello di rifare lo spettacolo teatrale, quanto quello di trovare una forma di comunicazione possibile con lo spettatore. E il risultato è stata una comunicazione molto intima, dove erano visibili i pensieri e i sentimenti dell’ancella mentre il mondo intorno a lei appariva attraverso i suoi occhi. È stata un’esperienza molto interessante.
Cosa l’ha spinta a portare in scena la figura dell’Ancella e come è nato il progetto dell’adattamento drammaturgico del romanzo di Margaret Atwood?
L’idea è nata due anni fa quando Laura Palmieri mi ha proposto di farne una lettura scenica per l’8 marzo di Radio3, in diretta da via Asiago, con l’adattamento radiofonico di Loredana Lipperini e le musiche di Riccardo Amorese. Io mi sono trovata tra le mani un gioiello, e non ho potuto fare a meno di continuare a portarlo avanti. Sentivo il bisogno di comunicarlo. Il testo è rimasto lo stesso, con una struttura drammaturgica molto forte. E anche le musiche che accompagnano tutto lo spettacolo come una vera partitura musicale. Con il regista Graziano Piazza abbiamo fatto un lavoro molto preciso sul sottile, su ogni passaggio, su ogni sensazione, per rendere la “narrazione” qualcosa di fisico e di vissuto, momento per momento. Così è diventato un racconto orale, un’esperienza condivisa con il pubblico, davvero forte che non è paragonabile all’impatto del romanzo e nemmeno a quello della serie tv. Perché il teatro è l’unico luogo che mette tutti noi “insieme”, e dove qualcosa di esterno risuona all’interno. Diventiamo tutti così Testimoni di qualcosa che Ci riguarda.
Come si è approcciata al Suo personaggio? Quali sono stati i passaggi di questo processo di mimesi con l’Ancella?
È stato un attraversamento del profondo, a tratti molto doloroso, ma che non ha lasciato cicatrici. Questa è la magia del teatro. È stato come un ricongiungimento con qualcosa che credo sia intrinseco all’essere umano e in questo caso alla donna. Qualcosa che riguarda la nostra umanità che non è eroica, che è imperfetta e che tende alla sopravvivenza. A volte mi sono fermata singhiozzando e chiedendo “come può arrivare a tanto”, “come fa a dire questo”? Eppure qualcosa della nostra capacità di adattamento, di sopportazione, di sopravvivenza appunto va oltre la nostra volontà, va oltre l’etica, va oltre la distinzione tra bene e male. Diventa quasi dis-umana.Così il lavoro sul personaggio è stato molto formativo. Graziano mi ha portato a non giudicarla mai, ad avere il coraggio di mettermi “dall’altra parte”.
Può darsi che ci sia l’avvento di un nuovo oscurantismo, potrebbe realizzarsi la terribile profezia della Atwood di un genere femminile asservito? E quali sarebbero gli strumenti per contrastarlo?
Non credo che il mondo distopico della Atwood possa mai realizzarsi, tuttavia penso che sia un monito importante, anzi fondamentale, perché c’è qualcosa in tutto ciò che come dicevo prima “ci riguarda”. La finzione che lei mette in atto, il fatto che sia un’opera letteraria, ci aiuta a vedere meglio le cose, proprio perché è una storia inventata. Anche se lei stessa dice di aver solo messo insieme cose avvenute in società diverse. E l’ancella parla a noi, donne e uomini della società contemporanea, per richiamare la nostra responsabilità. Credo che gli strumenti a noi utili siano quelli della conoscenza e dell’esperienza, e l’esperienza si può avere attraverso il teatro dove ci “identifichiamo” in qualcosa che sappiamo non essere vero, ma essere “come se”. Allora, se ne facciamo esperienza, l’attenzione in noi sarà più sveglia. Come quando da piccoli mettiamo le dita sul fuoco e impariamo che brucia. Non è un concetto intellettuale, istintivamente stiamo più attenti.
Nel romanzo della Atwood c’è una ferrea demarcazione tra le varie categorie del femminile, in base alla loro funzione: le procreatrici, le mogli, le sorveglianti, le domestiche. Una donna come potrebbe vivere la sua identità femminile senza incorrere in strumentalizzazioni e stereotipizzazioni?
Questa è una domanda che ci si pone da tempo e che a quanto pare, ancora non ha ricevuto risposta. Mi sono chiesta più volte il perché. Perché il corpo della donna ancora oggi pone così tanti problemi? Credo che oggi dovremmo fare un salto in avanti di consapevolezza, di coscienza umana. Ammesso che questo sia possibile. E che gli uomini diventino “femministi”. È questo. La divisione di genere non può portare bene. A mio avviso la differenza può farla solo l’unione, la consapevolezza di sé stessi e degli altri. Nelle similitudini e nelle meravigliose differenze che ci contraddistinguono. Credo che uomo e donna si conoscano ancora poco. Se si potesse immaginare fin da bambini una libertà di espressione, di conoscenza e di fiducia nell’altro, allora sicuramente ci sarebbero meno incomprensioni che portano gli uomini in luoghi di abominio.
Cosa vuol dire per Lei essere donna? Ha mai subito costrizioni derivanti dalla Sua identità di genere?
Io sono cresciuta in Tunisia, e per una bambina molto chiara di carnagione e molto bionda dai capelli lunghi non è stato facile. Mi sembrava di essere un’aliena. Mi chiedevo perché mi guardassero tutti e perché mi seguissero per strada mentre camminavo da casa a scuola in un quartiere residenziale della città. Perché mi dicessero oscenità e perché fossero tentati di toccarmi anche. Mi sono sempre chiesta perché alcuni uomini considerassero le donne come dei “self service”…dove era scritto? Eppure non c’era cattiveria in loro, c’era probabilmente ignoranza, erano davanti a qualcosa che non avevano mai visto. Questa cosa l’ho ritrovata anche in occidente, come credo qualunque donna. Crescendo e iniziando a procedere nella società ti rendi conto che “sei donna”, non c’è niente da fare. È primario su tutto nel bene e nel male. Ho lavorato molto su di me per far pace con questo, che poi è significato far pace con me stessa.
Quali sono i modelli femminili che l’hanno ispirata di più (sulla scena e nella vita)?
Fortunatamente ho modelli sia femminili che maschili, di persone che hanno fatto un grande lavoro su di sé, che hanno messo la conoscenza al primo posto, e non le lotte di categoria. Che mi hanno insegnato l’amore per me stessa prima di tutto, componente fondamentale per sviluppare l’amore per il prossimo. Ho avuto dei Maestri che mi hanno aiutata molto. Ho sposato un uomo che dice che “il futuro dell’uomo è la donna”, e che mi ama tantissimo. Riguardo a figure femminili potrei citarti Simone Weil, ma anche Etty Hillesum. E non posso non citare la prima donna che ho conosciuto, mia madre.
Cosa è per Lei la libertà?
La libertà è un concetto molto vasto. Nel testo della Atwood la battuta centrale è di Zia Lydia che parla proprio di questo: “Esiste più di un genere di libertà. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo.” Sembra un paradosso ma è così. Essere liberi di fare qualcosa o liberi da qualcosa… Noi viviamo nella libertà di…ma è davvero così? Siamo liberi di fare qualunque cosa? E come si fa quando la mia libertà limita quella dell’altro? Chi e cosa ne determina i limiti? D’altra parte, per essere liberi da qualcosa dobbiamo accettarne le regole che limitano la nostra libertà. È sempre una questione di equilibrio, delicato, da rimettere in discussione momento per momento.
La realtà distopica nella quale siamo recentemente piombati presenta delle analogie alquanto perturbanti con la storia dell’Ancella. Come sta vivendo questo periodo di reclusione e isolamento?
Lo sto vivendo con sgomento per via dei morti, dei contagiati, della velocità con cui tutto ciò ha preso forma. Ma anche con curiosità e gratitudine se così si può dire. Perché siamo fuori dall’ordinario, perché questo isolamento detta delle regole nuove, fortunatamente momentanee, ma che ci obbligano a reinventare il quotidiano, a uscire dal conosciuto, dalle abitudini. In questo senso lo trovo molto interessante. Osservo di me, ciò che mi accade, all’interno e all’esterno. Mi sento ancor più viva, e spero di poter trattenere tutta l’esperienza acquisita anche quando le cose torneranno alla cosiddetta “normalità”.
Cosa cambierà dopo? Quali insegnamenti potremo o possiamo già cogliere da ciò che sta accadendo?
Questa è una bella domanda. Io spero che qualcosa cambierà. Che si avrà il coraggio di lasciarci cambiare. Nulla rimane mai fermo, ma l’essere umano ha una natura pigra e tende a non volersi spostare troppo. Invece il valore della nostra libertà di uscire, spostarci, il valore di un abbraccio, il valore di un gesto, di ciò che tocchiamo dovremo ricordarcelo. E non dare tutto per scontato. E non cedere alla lamentela. Spero che si sviluppino unione e solidarietà. Penso anche che la cultura avrà un ruolo fondamentale per la ricostruzione di un costrutto sociale nel nostro paese e spero che saremo aiutati e sostenuti. Che potremo ancora unirci in quel luogo che è il teatro, dove i cuori si rispondono e battono all’unisono, per porci insieme delle domande e insieme crescere e affrontare meglio la nostra vita. Che la responsabilità tanto quanto il sogno non ci abbandonino mai.
Foto in homepage di Gianmarco Chieregato