«Quella nostalgia d’umano che altri chiamano imperfezione». Alessandro Michele e il nuovo corso Gucci tra sintesi di stili e libertà di genere
@ Antonella Falco (21-04-2020)
Nominato direttore creativo di Gucci nel gennaio 2015 (lo stesso anno in cui ha ricevuto anche il prestigioso riconoscimento di International Fashion Designer of the Year), Alessandro Michele è stato capace di realizzare un’impresa che ha dell’impossibile: creare una collezione nell’arco di una settimana e, contemporaneamente, dare inizio alla terza, rivoluzionaria, era del brand fiorentino. Inventandosi una moda per certi versi imperfetta, frutto di contaminazioni varie e a un primo sguardo apparentemente confusionale, nella quale sono facilmente riconoscibili le grandi passioni dello stilista – dalla letteratura al cinema, dal collezionismo all’amore per i luoghi dimenticati – Alessandro Michele ha saputo trasformare un marchio che languiva in una fase di stallo nel nuovo oggetto del desiderio per milioni di clienti in tutto il mondo.
Nato a Roma il 25 novembre 1972, Alessandro Michele è figlio di un tecnico dell’Alitalia, mentre la madre lavorava nel cinema, professione che poi abbandona per dedicarsi completamente alla famiglia. È lei a trasmettere al piccolo Alessandro l’amore per l’arte e il bello in ogni sua forma, tanto che il giovane sceglie di iscriversi all’Accademia di Costume e Moda della capitale, al fine di approfondire lo studio delle proprie passioni, in primo luogo il cinema e l’opera. All’inizio Alessandro Michele non pensa di diventare stilista, il suo sogno è più che altro quello di fare successo come scenografo. Nel frattempo, per mantenersi agli studi senza pesare troppo sulla famiglia, si cimenta in diversi lavori: giornalaio, manovale, muratore, finché arriva la prima esperienza nel campo della moda e più esattamente nel mondo della maglieria, con Les Copains. E qui scatta la scintilla, Alessandro sente di essere attratto da questo universo per lui nuovo e inesplorato e si lascia sedurre dall’ossessione per gli accessori, così crea un book e lo invia ad alcuni atelier. A mostrarsi immediatamente interessata è la maison Fendi, che lo assume alla fine degli anni Novanta. L’esperienza con Fendi rappresenta un momento di formazione importante per il giovane stilista, che resta ammaliato dal kaiser Karl Lagerfeld e dal suo modo di trarre continua ispirazione da fonti varie quali libri, musica, tessuti. Da Lagerfeld apprende che la creatività è una musa volubile e instabile, che solo quando viene lasciata completamente libera è in grado di esprimere tutte le sue potenzialità.
Nel 2002 arriva la chiamata di Tom Ford, a cui è impossibile dire di no. Lo stilista romano raggiunge Londra dove, dal caos creativo di Lagerfeld, si trova catapultato nel geometrico e maniacale ordine della bellezza versione Tom Ford. Anche nella maison Gucci Alessandro Michele viene destinato ad occuparsi del settore dedicato agli accessori: «Per me gli accessori – dirà in un’intervista – sono come reliquie: ci puoi fare quello che vuoi, li puoi usare come macchine del tempo». Da questo momento lo stilista è arruolato nella grande famiglia Gucci, che non lascerà più, lavorando prima a fianco di Alessandra Facchinetti e poi di Frida Giannini.
Grande appassionato di arredamento d’interni, nel 2014 Alessandro Michele assume il ruolo di Direttore Creativo della Richard Ginori, azienda fiorentina leader nel campo delle porcellane pregiate, acquisita da Gucci nel 2013.
Dopo l’uscita di scena di Frida Giannini, Michele viene convocato dal nuovo amministratore delegato Marco Bizzarri, l’idea di succedere alla Giannini come capo della direzione creativa è lontana anni luce, tant’è vero che ha già sostenuto un colloquio per andare a lavorare altrove, tuttavia il confronto con Bizzarri si prolunga per ore e i due si rendono conto di avere, riguardo al futuro della maison, una visione comune. Alessandro Michele si ritrova improvvisamente a rivestire l’incarico di direttore creativo di Gucci e ha solo una settimana – anzi, «cinque giorni» come tiene a precisare – a disposizione per preparare la sfilata maschile autunno/inverno 2015-16. Lo stilista si chiude nella sua casa di Civita di Bagnoreggio, ancora convinto che il suo incarico sia soltanto temporaneo e che quella sia la sua ultima collezione per Gucci, così mette nei modelli che disegna tutto quello che ha da dire. Confesserà poi Michele ricordando quell’esperienza: «I giorni di Civita sono per me surreali. Potrebbero essere un anno o un’ora, non saprei dirlo. Ho accettato per senso del dovere, perché andava fatto, perché alla fine Gucci era come una responsabilità. Ma ho agito da kamikaze. Mi sono detto: fallo e poi domani te ne vai. Non riflettere, perché se rifletti sbagli. È stato come rispondere a un’urgenza emotiva. Devo dire che ho avuto a disposizione un’azienda straordinaria». Ed è a questo punto che accade l’impensabile: il suo debutto è giudicato dalla stampa di settore come l’evento più significativo delle sfilate milanesi di quell’anno. L’inatteso e imprevedibile successo è tale che Michele viene confermato direttore creativo del brand. Da quel giorno l’ascesa del binomio Alessandro Michele/Gucci è stata continua e inesorabile. Il tutto in un crescendo di contaminazioni stilistiche e di riferimenti ad epoche passate, in un tripudio di colori, accessori e fantasie, in cui a fungere da elemento dominante è l’orientamento genderless. «Non volevo provocare – dichiara lo stilista in un’intervista al Corriere della Sera – ho solo raccontato un mondo che esiste. A me non sembrava così strano. Qualcuno ci ha visto anche qualcosa di politico. La mia era solo una lettura estetica di quello che vedo per strada, che è anche ciò che adoro fare: sedermi a un bar e osservare».
La tendenza genderless – letteralmente “senza genere”, che ha come sinonimi i termini “agender” e “unisex” – identifica quella fluidità di genere che ormai da qualche anno domina le collezioni di numerosi brand del lusso come dell’abbigliamento low cost. Alessandro Michele viene unanimemente riconosciuto come iniziatore di questo trend, essendo stato, appunto con la sua collezione del 2015, il primo a introdurre una riflessione in tal senso. Portare in passerella modelli dai tratti efebici e dall’abbigliamento deliberatamente “borderline” ha significato aprire la strada ad una nuova sensibilità estetica che ben presto si è tradotta in un messaggio di assoluta libertà d’espressione. In altri termini, Alessandro Michele è stato in grado, forse senza neanche averne all’inizio piena consapevolezza, di fare di un’estetica un’etica, operando una liberazione nel modo di vestire che è diventata affrancamento da codici comportamentali che non si riconoscono come propri. A partire da quella prima sfilata, infatti, si è avviato un dibattito sull’identità di genere sfociato in un vero e proprio movimento sociale, una non comune presa di coscienza collettiva. È stato proprio sulla scia di quella fluidità di genere che sono giunte al successo le prime modelle transgender, come Valentina Sampaio e Hari Nef. Mentre la discussione su identità di genere e parità di diritti veniva man mano sdoganata, da una prospettiva puramente stilistica sono andate moltiplicandosi le offerte di capi d’abbigliamento indossabili indistintamente da uomini e donne.
Momento scenograficamente culminante di tale processo rivoluzionario portato avanti da Alessandro Michele e dalla maison Gucci è stato il sodalizio artistico tra lo stilista e il giovane cantautore romano Achille Lauro in occasione della Settantesima edizione del Festival di Sanremo. L’idea, come dichiarato dallo stesso cantante, era quella di immaginare la sua musica in modo diverso, creando «una performance artistica che suscitasse emozioni forti, intense e contrastanti, qualcosa che in pochi minuti fosse in una continua evoluzione visiva ed emotiva. Una pièce teatrale lunga quattro minuti». È così che sulla scia del testo sanremese, intitolato Me ne frego, – inteso come un «inno alla libertà di essere ciò che ci si sente di essere» – sono sfilati sul palco di Sanremo, nel corso delle quattro puntate del festival, quattro personaggi che Achille Lauro ha definito «menefreghisti positivi, uomini e donne liberi da qualsiasi logica di potere personale. Un Santo [San Francesco d’Assisi] che se ne è fregato della ricchezza e ha scelto la “libera” povertà, un cantante [David Bowie] che se n’è fregato dei generi e delle classificazioni sessiste, una Marchesa [Luisa Casati Stampa] che a dispetto del suo benessere ha scelto di vivere lei stessa come un’opera d’arte, diventando una mecenate fino a morire in povertà e una regina [Elisabetta I Tudor] che ha scelto la morte, evitando di curarsi abdicando, pur di restare lì a proteggere e vivere per il suo popolo». A “vestire” questi quattro personaggi è stato appunto Alessandro Michele, che ha creato gli outfit esclusivi indossati poi con estrema disinvoltura da Lauro De Marinis (questo il vero nome del cantautore romano), il quale, baciando sulla bocca, vestito da Regina Elisabetta, il suo chitarrista e produttore Boss Doms [Edoardo Manozzi], sul palcoscenico più istituzionale d’Italia, o esibendosi, nella serata dei duetti, in compagnia della cantante Annalisa, in una sentita e personalissima cover de Gli uomini non cambiano di Mia Martini, è riuscito a trasmettere un messaggio molto più efficace e icastico di qualsiasi toccante monologo contro la violenza di genere o di qualsivoglia battuta tirata fuori dal cilindro di un navigato mattatore delle scene quale Rosario Fiorello, rivolta a far dimenticare l’infelice uscita di Amadeus riguardo al tanto discusso “passo indietro” dell’ormai famigerata conferenza stampa di presentazione del Festival.
A fare la differenza e a rendere potenti e geniali le esibizioni di Achille Lauro, laddove i suddetti monologhi finivano per cadere in un’inevitabile retorica, è stata la perfomance stessa dell’istrionico artista in cui il messaggio è stato veicolato direttamente dallo show in maniera tale che il momento della riflessione non andasse a discapito dello spettacolo, del “teatro” – volutamente barocco, eccessivo, sensazionale, in una parola camp – ma fosse un tutt’uno con esso. Lo storytelling imbastito da Achille Lauro e da Alessandro Michele va dunque ben oltre la classica operazione di product placement che vede un noto personaggio del mondo dello spettacolo collaborare a fini pubblicitari con una maison di moda: in questo caso non si è trattato semplicemente di portare in scena degli outfit griffati. Achille Lauro è stato testimonial di un messaggio culturale, protagonista, assieme agli abiti da lui indossati, di uno show che ogni sera fondeva insieme musica, arte, cultura e moda, innestandoli con la tematica del diverso, della neutralità e fluidità di genere. In tutto questo il brand Gucci ha saputo dare una lezione di comunicazione intelligente e mai vista prima.
Durante l’ultima fashion week milanese ancora una volta Alessandro Michele ha voluto offrire una visione giocosa della propria moda, come antidoto alla mascolinità tossica che obbliga donne e uomini all’interno di convenzioni e stereotipi nocivi. «Fin dalla nascita – si legge nella nota per la stampa che ha accompagnato la sfilata – ai bambini viene imposto un modello di mascolinità dominante, vincente, oppressiva. Atteggiamenti, linguaggi e azioni finiscono col conformarsi progressivamente a un ideale di virilità machista che espelle la vulnerabilità e la dipendenza. Ogni possibile richiamo alla femminilità viene aggressivamente bandito perché vissuto come minaccia per l’affermazione completa di un prototipo maschile che non ammette cedimenti. Non c’è niente di naturale in questa deriva. Il modello è socialmente e culturalmente costruito in modo tale da rigettare tutto ciò che non si uniformi a esso. Con implicazioni molto serie. Questa mascolinità tossica, infatti, finisce col nutrire prevaricazione, violenza e sessismo». Parole a cui sembra fare eco una dichiarazione che Achille Lauro ha affidato ai suoi canali social durante il periodo sanremese: «Sono allergico ai modi maschili, ignoranti, con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la mia confusione di generi, è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni, da cui poi si generano discriminazione e violenza. Sono fatto così, mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui? Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità che per me significa delicatezza, eleganza, candore».
La ricerca musicale ed estetica portata avanti dall’eclettico performer – orientato verso la contaminazione di generi diversi e la sintesi fra decenni iconici della storia della musica e del costume – lo identifica naturalmente come uno dei volti che meglio possono impersonare l’uomo Gucci. L’affinità di Achille Lauro allo stile Gucci e al sentire di Alessandro Michele è testimoniata dallo stesso stilista che parlando del cantautore ha detto: «Achille Lauro è una persona dotata di grandissima sensibilità, creatività e con un grado di libertà che mi attrae molto. Avevamo già collaborato prima di questa straordinaria esperienza e mi aveva da subito affascinato per la sua grande personalità. Collaborare con lui per Sanremo è stata una conseguenza naturale». La collaborazione pregressa a cui Michele si riferisce è quella relativa alla campagna PreFall del brand di cui De Marinis è stato tra i protagonisti, insieme alle intramontabili Benedetta Barzini e Bethann Hardison (una delle prime modelle afroamericane di alto profilo, nota anche per il suo impegno come attivista a supporto delle indossatrici di colore, negli anni Ottanta ancora oggetto di discriminazioni, e a sostegno della diversità nel mondo della moda), autore del servizio fotografico il leggendario Bruce Gilden. Sodalizio che si è ripetuto a febbraio 2020 in occasione della Milano Fashion Week, dove Achille Lauro, testimonial d’eccezione in impeccabile tre pezzi verde (giacca, pantalone e gilet) e camicia celeste, è stato uno degli ospiti più attesi. La sfilata – «accadimento magico capace di sprigionare incantesimi», secondo quanto dichiarato dallo stesso Alessandro Michele nella lettera di presentazione dell’evento, in cui il pensiero dello stilista «accarezza quella nostalgia d’umano che altri chiamano imperfezione» – ha portato in passerella ancora una volta una teoria di identità imperfette che presentificano la nuova idea di normalità Gucci, in un circo felliniano che ha espressamente ricreato sotto gli occhi degli spettatori il dietro le quinte di una sfilata. Il backstage portato alla ribalta su una pedana rotante: dunque ancora una volta la moda che diviene performance artistica e omaggio alla settima arte, tanto amata da Michele, mentre il concetto di “normalità” prende la forma concreta di una miriade infinita di scoordinate, stravaganti, bizzarre, sbagliate individualità, dove l’unica regola è che non esistono regole, esiste solo la libera e anarchica autogestione della propria irripetibile unicità. Sorprendentemente l’incantesimo riesce perché molti dei look visti in passerella risultano, pur nella loro meravigliosa eccentricità, nel loro opulento mescolarsi e sovrapporsi di elementi, tessuti, accessori (guanti, cuffie, cerchietti, cappelli, collari), nel loro caotico trasvolare dai tailleur classici ai sontuosi abiti d’ispirazione vittoriana, strabiliantemente indossabili.
La poliedrica personalità di Alessandro Michele – ormai guru incontrastato della maison Gucci e amatissimo dalle star internazionali che non perdono occasione per indossare sui red carpet i suoi look, da Florence Welch a Dakota Johnson, da Lana del Rey a Beyoncé (che lo sceglie non solo per se stessa ma anche per la sua bambina, Blue Ivy, che spesso ha sfoggiato outfit della maison perfettamente abbinati a quelli materni) – può essere definita come una mirabile sintesi di stili e ispirazioni, compendio e summa di barocco e punk, rinascimento e caos, vintage e contemporaneità, in un fondersi di epoche che non si escludono ma si completano l’un l’altra, fino a creare un suggestivo annullamento della dimensione temporale e una bellezza strana, inattesa e insolita che scaturisce proprio dall’atto di accostare elementi provenienti da mondi distanti e variegati. Perfettamente allineato a questa forma mentis è Giovanni Attili, docente di Urbanistica alla Sapienza di Roma e storico compagno dello stilista. È lui a seguire e a supportare idealmente ogni progetto creativo del designer, ed è alla sua influenza che si deve la presenza, nelle note per la stampa rilasciate da Michele, di citazioni tratte da filosofi e sociologi (come l’amico Giorgio Agamben, ma anche Deleuze, Barthes, Bakunin…).
Del proprio compagno Alessandro Michele dice: «Senza Vanni non sarei niente. Lui è la mia finestra aperta sulle cose che non riesco o che non posso vedere. L’ultimo pezzo arriva sempre da lui. A volte persino riesce a darmi consapevolezza delle cose che mi passano per la testa».