Un altro mondo è possibile?
“IL SORRISO DEL GATTO” NEL CAOTICO MONDO DEL GLOBALISMO
Un film diretto da Mario Brenta- erede di Ermanno Olmi- e da Karine de Villers
Con la voce narrante di Marco Paolini Produzione Jolefilm, Italia, 61 minuti, 2018
di Danilo Amione
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Il sorriso del gatto di Alice è sardonico. Alice non sa più dove andare e chiede al gatto indicazioni, questo le risponde che tutto dipende da dove ella vuole andare. Non si può andare tanto per andare, bisogna sapere dove si vuole andare. Avere una meta significa avere un obiettivo, dunque costruirsi un futuro. L’uomo, l’umanità, l’Alice di oggi sembra aver smarrito questo obiettivo, questa meta. Vive in un eterno presente, come disse Vincenzo Consolo a chi gli chiedeva qualcosa sul nostro destino. E il nostro presente, necessariamente immutabile, si chiama Capitale e di cognome fa globalizzazione. Di questo parla l’ultimo film della coppia Brenta-De Villers, giunta con questa stupenda opera al quinto lavoro a metà tra la documentazione e il saggio per immagini.
Girato fra l’Europa, l’Africa e il Sudamerica, questo immenso affresco del mondo di oggi non lascia spazio ad alcuna attenuante a chi questo mondo governa e conduce. Non è un caso che la coppia di cineasti faccia partire il loro occhio da Bruxelles, oggi uno dei motori dell’economia internazionale, cieca dinnanzi all’ essenza stessa dell’uomo, alla sua specificità: la dignità. Come nel lungimirante “Milano ‘83” di Ermanno Olmi, di cui Brenta è degno erede e allievo, anche ne “Il sorriso del gatto” il protagonista è il margine, sia esso fisico che umano. La cinepresa scruta incessantemente ogni panorama urbano, alla ricerca di un senso da dare alla nostra contemporaneità. Da Parigi a Roma, da Montreal a Quito, da Copenaghen a Lubiana, “l’uomo a una dimensione” di marcusiana memoria ha trovato la sua tragica sostanza nei mille non luoghi che caratterizzano ogni sua azione e gesto.
La folla è colta non come massa informe ma come sommatoria di individui costretti a disumanizzarsi per rimanere a galla, per non affogare nel mare oramai incontenibile del consumo e dell’alienazione quotidiana. L’attenzione posta da Brenta e De Villers a ogni particolare incontrato nel loro peregrinare attraverso le mille strade dello spreco e del vuoto a perdere diventa il centro del film. Periferie fatiscenti, cumuli di rifiuti, strade abbandonate, carcasse di animali e ogni altro scarto diventano per i due cineasti occasione di riflessione su una realtà che pone fuori campo ogni elemento della memoria oramai inutile perché obbligato a lasciare spazio ad altro da consumare, in una sorta di continua reificazione di sentimenti fini a se stessi. L’epifenomeno di questo rapporto economicistico con le “cose” si manifesta nella “scomparsa” della natura, ridotta a mero sfondo inutile e persino ingombrante.
L’unica possibilità che ha la cinepresa è quella di riprenderne l’agonia, l’abbandono prima della definitiva uscita di scena. L’immondizia e l’inquinamento sono, dunque, paradossalmente, come in “Che cosa sono le nuvole” di Pasolini, l’ultima testimonianza di un mondo che non si vuole più, le rimanenze di una realtà che aveva provato ad essere umana ma alla quale è stato impedito per sempre di esserla. Quello che accompagna questo film è il senso tragico di una religiosità oramai definitivamente sepolta, l’acquisizione spontanea e irreversibile della fine del sacro. Brenta e De Villers nel muoversi su questo mondo non sono turisti e neanche viaggiatori. Sono due sopravvissuti i cui unici fratelli incontrati sono i senzatetto, i “barboni”, tutti quegli uomini fuori da ogni logica distruttiva, inevitabilmente condannati alla distruzione.
I loro occhi, i loro corpi girano a vuoto perché intorno a loro c’è solo il vuoto. I loro letti, le loro “dimore” sono non a caso ai margini delle strade principali, come rifiuti da accettare solo perché il perenne consumo non può preoccuparsi di eliminare lo scarto che ne è logica conseguenza. In questo panorama, anche le stupende opere di Street Art inquadrate diventano agli occhi dei due errabondi testimoni-cineasti, in una sorta di trascendenza traslata su altre immagini, l’estrema testimonianza di un disagio oramai irreversibile. E se in “Vermisat”, prodigiosa opera prima di Mario Brenta, la vicenda del protagonista, anch’egli un senzatetto, era nel 1974 un grido di allarme per tutti, oggi i protagonisti di questo struggente film “finale” non lanciano più messaggi, ci guardano soltanto, nella speranza di riuscire a cambiarci con i loro sguardi innocenti, l’ultimo dei quali è quello di un venditore ambulante di colore infreddolito sotto la Tour Eiffel, intento a vendere un oggetto a chi ne ha già tanti…
Non è, dunque, un caso che Brenta e De Villers chiudano con una celebre frase di Sofocle questo impietoso e necessario ritratto dell’umano status quo: “Molte sono le cose inquietanti in questo mondo ma nessuna mai quanto l’uomo”.