Due funerali e una deiezione.’Mumble Mumble, confessioni di un orfano d’arte’
@ Loredana Pitino (23-02-2020)
A Catania va in scena in questi giorni, al teatro Must Angelo Musco, lo spettacolo “Mumble Mumble, confessioni di un orfano d’arte”, che dal 2009 fa tappa nei maggiori teatri d’Italia raccontando la condizione, non sempre troppo felice, di figlio di genitori d’arte, illustri e, a volte, ingombranti.
Protagonista e co-autore della pièce è Emanuele Salce, doppio figlio d’arte di papà Luciano e Vittorio Gassman, marito della madre Diletta D’Andrea e padre putativo che l’ha cresciuto dall’età di due anni; un atto unico separato in due scene e mezza, che raccontano le prime due i rispettivi funerali di papà Luciano e di Vittorio Gassman; l’ultimo momento è dedicato a un racconto personale, decisamente imbarazzante.
Il racconto, autobiografico in tutte le sue parti, è anche uno studio d’attore, un progetto sull’essere attore e sul fare l’attore. Il tentativo di essere credibile, naturale e autentico porta il regista, interpretato da Paolo Giommarelli, e il protagonista che si esercita a recitare Dostoevskji, a lavorare sull’autenticità della performance, sulla veridicità della recitazione. Così il regista chiede all’attore di abbandonare il testo scelto, smontare la messa in scena troppo costruita e artificiosa e tirare fuori se stesso, tutto se stesso fino a raggiungere i momenti più intimi e dolorosi della sua vita; così la memoria torna alle due separazioni che, realmente, hanno cambiato la vita del giovane Emanuele.
La prima, la morte del padre, avvenuta il 17 Dicembre del 1989, lo riporta indietro con la memoria alla sua infanzia, quando era così timido e silenzioso che si sentiva totalmente fuori posto nella sua famiglia che viveva nel mondo dello spettacolo, per questo lo chiamavano Mumble Mumble (da qui il titolo), come la scritta che appare sui fumetti quando il personaggio pensa in silenzio.
La seconda, la morte del patrigno Vittorio, avvenuta il 29 giugno del 2000, quando Emanuele, già grande, cerca ancora la sua strada e si incontra/scontra con una galleria di personaggi, caratterizzati dallo stesso attore che esce da se stesso e interpreta portieri, macellai, giornalisti, attori, avventori….che affollarono la camera ardente di Gassman e il funerale, fino alla sepoltura.
La morte, due momenti di morte che hanno toccato l’attore e l’uomo; nel dialogo con il regista che si fa terapeuta, i due arrivano alla riflessione che la poesia e la letteratura parlino sempre di morte e che sia davvero difficile raccontarla.
Qui la morte viene mistificata, sdrammatizzata in una narrazione che tende all’umorismo, anche se qualche momento di emozione è presente. E’ presente quando, di fronte al saluto estremo che un figlio deve dare a un genitore che se ne va, l’uomo/attore lancia un messaggio, quello che forse disse sulla tomba: “A papà quel fortissimo abbraccio che non ci siamo mai dati”.
Lo studio d’attore, diventa la catarsi dell’attore, e dell’uomo.
Per questo il regista chiede un ultimo ricordo, un ulteriore passaggio verso un episodio intimo e imbarazzante della sua vita.
Sappiamo che Plauto usava le funzioni corporali come uno dei motivi che più gli permettevano di raggiungere il suo obiettivo ultimo, il risummovere, che lo portò al successo di pubblico. Qui la funzione corporale narrata, fino ai minimi particolari, riguarda un episodio, presumibilmente vero, accaduto e fonte di estremo, orribile imbarazzo.
L’accostamento di tale episodio appare azzardato rispetto ai primi due e, bisogna notarlo, anche lievemente gratuito. A meno che non si consideri anche quel momento, un passaggio necessario per liberare l’attore da ogni censura, raggiungere l’uomo fin nei suoi aspetti più vulnerabili per aprirgli una strada per la catarsi interiore e la costruzione dell’attore.
Il testo, nella sua complessità, rivela qualche vuoto di trama, ma recupera nel riscontro del pubblico, grazie alla vis comica di Emanuele Salce che, forse, figlio d’arte lo è davvero.