‘La commedia della vanità’ di Elias Canetti: il perturbante allo specchio
@ Amelia Natalia Bulboaca (31-01-2020)
Milano – La commedia della vanità, assieme a Nozze e Vite a scadenza, fa parte del trittico drammaturgico del premio Nobel Elias Canetti, scrittore apolide, una delle voci letterarie più importanti e proteiformi del XX Secolo, benché meno conosciuto come autore teatrale. Opera giovanile, scritta tra il 1933 e il 1934, Komödieder Eitelkeit venne messa in scena molto più tardi: siamo nel 1965.
Articolata in tre parti, l’opera è una grottesca rappresentazione delle istanze più deliranti di una umanità allo sbando, che ha definitivamente smarrito la propria identità nel magma informe della massificazione imperante. Siamo alle soglie dei tristi eoni dittatoriali che avrebbero sfregiato indelebilmente il volto del secolo breve. Il 10 maggio 1933 furono dati alle fiamme davanti all’Opera di Berlino più di ventimila libri: era l’inizio della censura nazista, della schiavitù del pensiero unico, della dissoluzione dell’io.
Anche al centro del dramma canettiano c’è un grande falò, nel quale una miriade di bizzarri personaggi sono chiamati a gettare ogni riproduzione di esseri umani o di esseri antropomorfi in loro possesso. Un non meglio specificato potere centrale ha deliberato il divieto di possedere e fabbricare specchi, fotografie e ritratti. Per i possessori di questi oggetti è previsto il carcere, per chi fabbrica specchi e per chiunque fotografi esseri umani o esseri antropomorfi e per chi esegua ritratti è prevista la pena di morte. Questo falò (come quello nazista) ce lo dobbiamo immaginare «colossale […] straordinariamente arcicolossale» (come il leitmotiv del banditore Wenzel Wondrak, portavoce del messianismo del regime e della sua crociata contro la vanità). L’editto viene letto in una cornice circense, locus perfetto per l’esibizione e l’esibizionismo delle deformità del potere e di tutti i mostri che i totalitarismi hanno da sempre partorito.
E noi, signore e signori, e noi e noi e noi, signore e signori, e noi e noi, noi abbiamo in mente una cosa. Cos’è che abbiamo in mente? Qualcosa di colossale abbiamo in mente, qualcosa di straordinariamente colossale, di straordinariamente arcicolossale, e noi, signore e signori, noi siamo arcicolossali, abbiamo in mente una cosa.[1]
Il pensiero unico che tutto livella, omologa e riduce al comun denominatore di una superlativa mediocrità. Wenzel incarna la moralità ipocrita del regime dittatoriale: la sua vanità emerge con prepotenza nel secondo atto dove lo ritroviamo come portiere in incognito, «un portiere pieno di mistero», intento a spadroneggiare sulla signorina Mai dalla quale pretende che il vino gli venga servito solo dal vetro, «dal proibito vetro» mentre solleva con disgusto il boccale fatto di terracotta non smaltato:
Che cosa, che cosa è mai questo? Questo è la terracotta, questo è l’argilla, questo è la merda (scaglia con tutte le sue forze il boccale sul pavimento) con cui Domineddio ha fatto l’uomo. (Canta) Attenzione che arrivo io, io, io. (Mangia e sbraita tra un boccone e l’altro) Io! Io! Io![2]
Come non pensare allora al sistema dei due pesi e delle due misure sul quale si regge la falsa moralità di tutti i regimi a tutte le latitudini e in tutte le epoche? E come non trasalire davanti a quell’ «io, io, io» rivendicato con tanto imbecille furore da chi dovrebbe dare invece il buon esempio estirpando ogni traccia di vanità dal proprio essere? Ma qui non siamo certamente in compagnia di uomini come il filosofo Plotino che si vergognava di avere un corpo o di un altro brillante apolide che ha segnato il Novecento con la sua esuberanza apocalittica: un Emil Cioran che provava vergogna nel dire ‘io’ mentre un Carlo Emilio Gadda considerava l’io «il più lurido di tutti i pronomi». Siamo in compagnia di uomini come Heinrich Föhn, che il regista Claudio Longhi vede quale una sorta di incarnazione del Superuomo nietzschiano dove non è difficile leggere il messianismo narcisistico della figura dittatoriale:
È vero che queste persone non sanno chi abita qui. Ma lo intuiscono. Io sono il loro sole. Risplendo. Da me emana uno splendore. Ogni giorno io lavoro intorno alla mia persona. Mi sono trovato. Di notte lascio le finestre aperte e sento che loro tendono l’orecchio per cogliere ogni mia parola. Non è forse stupendo questo modo di vivere, Leda? Quando ne ho abbastanza, richiudo la finestra e tiro le tende.[3]
Questa commedia della vanità diventa cassa di risonanza delle tare di un’umanità sfregiata in maniera indelebile dai vizi e dagli eccessi che nessun potere (tra l’altro falso e ipocrita) potrebbe mai sradicare perché sono infrangibili, come lo specchietto di metallo che passa di mano in mano in cambio di moneta sonante. Nemmeno la proposta di cavare gli occhi che si sostituiscono allo specchio come superficie riflettente riuscirebbe a modificare lo status quo. Canetti mette in luce in maniera perturbante tanti temi attualissimi e antichissimi. Narciso che si specchia sulla superficie del fiume abita anche i sinistri personaggi della commedia, abbozzi di uomini e donne, più irreali di spettri. Essi si aggirano famelicamente attorno a ciò che inizialmente potrebbe sembrare una casa di piacere ma che è in realtà un sanatorio dove si fa la fila e si paga per sedersi davanti a uno specchio. Raggiunta la Mecca si rimane inchiodati in perfetto silenzio, completamente ignari della presenza dell’altro vicino a sé. E come non pensare allora alla nostra sciagurata epoca e alla tirannia dello schermo, alla diluizione – non solo delle singolarità delle persone che diventano anonima massa, compatto blocco consumistico – ma persino della omologazione fisica che cancella ogni traccia di personalità nella grottesca smorfia da selfie. A cosa si sia ridotto ormai l’essere umano ce lo dice Joseph Garaus, il direttore che dialoga con la propria pelle: «Infatti oggigiorno che cosa è mai un uomo? Un uomo non è altro che la sua immagine»[4]. Non solo! Nella distopia popolata da questi personaggi immaginari, nella quale noi, uomini e donne dell’anno di grazia 2020 ci possiamo riconoscere anche fin troppo facilmente, «ciascuno di noi vive in stato coniugale con la propria immagine riflessa nello specchio» poiché «si arriva a un punto tale che presto o tardi veramente siamo sposati con noi stessi»[5]. La sologamia e la bizzarra moda di contrarre matrimonio con se stessi sono ormai diventati fatti di cronaca quotidiana, propaggine estremista di una vanità e di una auto-adulazione portate fino alle ultime, estreme conseguenze.
Pur non riuscendo a esaurire tutti i temi che emergono da questa notevole opera drammaturgica, è evidente che il testo canettiano, messo in scena con rigore filologico dal regista Claudio Longhi, non sia un testo facile. Le battute non brillano per pregnanza oracolare e molto di più ci si aspetterebbe dall’autore di opere come Massa e potere, La provincia dell’uomo o Autodafé. Ci sono alcune notevoli eccezioni: la vanità che urla ripetutamente dal fondo della sala: «Sono una troia! Sono una troia!» o la definitiva diagnosi sul popolo che «è ormai pronto per la catastrofe».
L’attenzione dello spettatore è messa a dura prova (ma forse giustamente, in un’epoca, la nostra, nella quale tutto deve essere consumato e fagocitato rapidamente) dalla lunghezza dello spettacolo (quasi quattro ore, anche se nella sua versione integrale il copione avrebbe dato luogo a uno spettacolo di circa sette ore). L’impressione che lo spettatore ne ricava è di grande straniamento e perturbamento: gli attori si muovono tra platea e palcoscenico in un pandemonio di voci, richiami e canti. Le scenografie e le luci sono di grande impatto e riescono a sopperire a un’emozione che fa fatica a emergere dall’impianto drammaturgico, fermo restando che l’intento di perturbare e straniare è pienamente raggiunto. Notevoli anche i costumi che richiamano non un mondo circense qualsiasi «ma uno di quei circhi inizio secolo famosi per esporre tutto quello che poteva essere aberrante o inusuale, come ad esempio il Barnum» – spiega Gianluca Sbicca che firma costumi e trucco. La partitura musicale (cymbalon e violino) fa vibrare e risaltare ancora di più l’’inquietante’che trasuda a piene mani da questa pièce.
La locandina:
Piccolo Teatro Strehler
dal 15 al 26 gennaio 2020
La commedia della vanità
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi, costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini, video Riccardo Frati
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
violino Renata Lackó
cimbalom Sándor Radics
drammaturgo assistente Matteo Salimbeni
assistente alla regia Elia Dal Maso
preparazione al canto Cristina Renzetti
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
nell’ambito del progetto “Elias Canetti. Il secolo preso alla gola”
[1] E. Canetti, Teatro, Einaudi, Torino, 1982, p. 73.
[2]Ibidem, p. 115.
[3]Ibidem, p. 139.
[4]Ibidem, p. 158.
[5]Ibidem, p. 88.