Joker: viaggio al centro della follia
@ Antonella Falco (01-11-2019)
Un pianto senza lacrime. È questo, essenzialmente, la risata di Arthur Fleck in Joker di Todd Phillips. Una risata che fin dal suo primo risuonare, nella scena dell’incontro di Arthur con l’assistente sociale, gela lo spettatore sulla sedia e gli insinua un groppo in gola, come se quelle lacrime che non riescono a sgorgare dagli occhi del protagonista, dovessero da un momento all’altro rigare silenziosamente il volto di chi, nel buio della sala cinematografica, assiste alle continue sopraffazioni di cui questo inconsueto Joker è vittima sullo schermo. Perché quella risata esprime disperazione, solitudine, disagio, frustrazione, emarginazione. Dice tutta l’impossibilità di comunicare e di trovare comprensione in una Gotham City (leggi New York) sporca e corrotta, vero e proprio girone infernale, in cui il sopruso e la prevaricazione ai danni di chi è più debole e sfortunato, sembrano essere il passatempo preferito dei giovani rampolli delle classi alte.
La storia è ambientata negli anni Ottanta, Arthur è affetto da una patologia che lo induce a esplodere in una compulsiva e irrefrenabile risata, specie quando è sotto stress, cosa che ovviamente non lo aiuta nelle relazioni sociali. Povero ed emarginato, si guadagna da vivere facendo il clown per un’agenzia, e abita con l’anziana madre malata (Frances Conroy), che lui accudisce, in un appartamento di un palazzo fatiscente. Il suo sogno è diventare un comico di successo, proprio come il suo mito, Murray Franklin (Robert De Niro, che qui, in una singolare inversione di ruoli, interpreta un personaggio simile a quello di Jerry Lewis in Re per una notte di Martin Scorsese – regista a cui Phillips rende omaggio citando anche Taxi driver –, nel quale De Niro aveva invece la parte di Rupert Pupkin, per alcuni versi analoga a quella interpretata da Phoenix), il cui show Arthur segue sempre in tv e che rappresenta nelle sue fantasie anche una sorta di figura paterna, quella stessa che gli è sempre mancata nella vita reale.
Un ritratto che ha poco a che vedere con l’immagine tradizionale del supercattivo da cinefumetto cui la figura di Joker è solita rimandare. E infatti il film di Todd Phillips non è un cinefumetto: mentre Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan voleva raccontare l’ascesa del principale avversario di Batman, il Joker di Phillips ce ne mostra le origini, ma, nel farlo, si discosta dal filone cinefumettistico per dar vita a una narrazione più intimista e introspettiva, tale da poter essere seguita e apprezzata anche da un pubblico non necessariamente interessato alla saga dell’uomo pipistrello (che qui è ancora solo un bambino) e del suo acerrimo nemico travestito da clown. Dunque Arthur Fleck sembra avere poco o niente in comune con le precedenti incarnazioni cinematografiche del Joker, tuttavia è pur vero che in ambito prettamente fumettistico di Joker ne esistono tanti e in The Killing Joke di Alan Moore è lo stesso personaggio a dire di sé: «Se avrò un passato, preferisco che sia una scelta multipla».
Il regista ha dichiarato di aver scritto la sceneggiatura (insieme a Scott Silver) avendo già in mente Joaquin Phoenix, «perché quando recita è capace di trasformarsi e va sempre fino in fondo». Attore e regista hanno poi scandagliato assieme il personaggio per mesi e hanno lungamente discusso in merito alla sua psicologia. Phoenix, la cui metamorfosi in Joker ha comportato un drastico dimagrimento di ben 26 chili (e in generale tutto il lavoro svolto dall’attore sul proprio corpo e sulla mimica facciale, sul modo di ridere, di camminare, di muoversi, è tale da suscitare unanimi consensi e da trovare pochi precedenti. Certo è emblematica la presenza nel film di un mostro sacro come De Niro, attore a cui inevitabilmente si pensa ogni qualvolta si vuole indicare una performance attoriale maniacale ed estrema, meticolosa e sconvolgente nel mettere il corpo al servizio dell’interpretazione: quasi a voler sottolineare un ideale passaggio del testimone tra il vecchio leone e il giovane e straordinario collega, già in odore di Oscar), si è documentato molto sulle personalità malate, ma oltre al tormento di Arthur Fleck si è detto interessato anche alla «sua luce», vale a dire alla «sua lotta interiore per trovare una connessione con la società, la sua ricerca di calore». È questo che fa del suo Arthur Fleck un personaggio a tutto tondo, con luci e ombre, tale da ritagliarsi lo spessore di persona, ben al di là della semplice e caricaturale figura fumettistica.
Già Heath Ledger si era reso conto che interpretare Joker comporta una discesa agli inferi e per sei settimane si era chiuso in una camera d’albergo al fine di esplorare l’oscura psiche del personaggio (la sua prematura scomparsa, poco tempo dopo la fine delle riprese, ha poi inevitabilmente conferito un’aura ancora più inquietante e dannata alla sua intensa interpretazione, premiata con un Oscar postumo come miglior non protagonista). Phoenix riprende e porta a compimento questa infera immersione negli oscuri meandri della psiche: il suo è un viaggio – di sola andata – al centro della follia.
«Sorridi e indossa una faccia felice», è il mantra che la madre, anche lei mentalmente instabile, ha inculcato in Arthur fin da bambino. Joker è un film che mette in scena il dramma della malattia mentale, e sceglie di farlo tramutando in risata il pianto e in una perenne smorfia da clown, disegnata col belletto, la sofferenza. La scelta coraggiosa, e insieme il colpo di genio, di Phillips è stata quella di scegliere un personaggio da cinefumetto per raccontare la parabola discendente del disagio psichico. Arthur Fleck nella vita di tutti i giorni deve fare i conti con l’esclusione sociale, con lo sberleffo continuo, con la solitudine e con una sofferenza che trova nella sua stessa incessante reiterazione il proprio marchio di intollerabilità: all’assistente sociale che gli chiede se ha avuto pensieri negativi negli ultimi tempi, risponde «io ho solo pensieri negativi», per poi lamentarsi del fatto che neanche lei lo ascolta, neanche a lei importa niente di lui. L’incontrollabile e ossessiva risata è, in questa fase, l’unica valvola di sfogo al suo male di vivere, in un mondo che non accetta il diverso e che quando lo scova non perde occasione per umiliarlo e ribadirne la relegazione ai margini della società: «la cosa peggiore dell’avere una malattia mentale è che la gente si aspetta che ti comporti come se non ce l’hai», scrive Arthur nel suo diario, e ancora, «spero solo che la mia morte abbia più senso della mia vita». Passare dal disagio psichico alla piena e totale deriva psicopatica è un processo lungo tutta una vita, una via crucis inesorabile, costellata di rifiuti e svalutazioni da parte degli altri, dal continuo e ineluttabile scontrarsi con la crudeltà e l’incomprensione del mondo. È questo che fa di un mite e sfortunato reietto uno spietato e folle omicida, che solo attraverso la consacrazione criminale smette finalmente di essere trasparente agli occhi della gente. «Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto e le persone cominciano a notarlo», così, paradossalmente, il comico mancato trova un immenso palcoscenico sul quale esibirsi: l’intera grande metropoli.
Ora le masse diseredate lo acclamano come loro eroe e paladino. Ora gli ultimi della società mettono a ferro e fuoco la città in suo nome e lo sottraggono alle forze dell’ordine, celebrando per strada la sua apoteosi. «Pensavo che la mia vita fosse una tragedia, invece ora ho capito che è una farsa». Questa presa di coscienza si rivela liberatoria e sta alla base della metamorfosi di Arthur in Joker: tanto Arthur è mite, timido, remissivo, quanto Joker è esibizionista, perfido, megalomane nel suo delirio di onnipotenza. Perché ora l’ex reietto ha sperimentato la più alta forma di potere concessa a un essere umano: quella di avere nelle proprie mani la vita di un altro essere umano. Così la sofferenza che minacciava di annientarlo si è tramutata in un delirio psicotico che trova nell’uccisione altrui un momento di catarsi e di ebbrezza. Lo psicopatico che uccide, infatti, non lo fa tanto per sbarazzarsi di qualcuno ma per trovare nell’atto omicida un sollievo alla propria intollerabile sofferenza psichica. Le scene finali del film esprimono chiaramente tale senso di affrancamento, Joker si è ormai liberato, si è posto al di sopra della legge e dell’ordine costituito, è come se da una crisalide di dolore fosse nata una perversa farfalla, una sfolgorante creatura del caos e dell’anarchia, ormai libera di svolazzare incontrastata per la città, nel suo narcisistico librarsi al di là del bene e del male.
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Un discorso a parte merita la bellissima colonna sonora del film (disponibile in vinile e cd a partire dal 14 dicembre 2019), composta dalla violoncellista e compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, non a caso premiata a Venezia con il Soundtrack Stars Award 2019, con una motivazione che sottolinea come il tema musicale riesca a fondere alle potenti composizioni originali alcuni tra i brani più noti della grande musica americana: «Una musica atonale che unisce voce e violoncello, capace di rendere anche la colonna sonora protagonista del film con assoluta originalità, ma anche con una forte capacità evocativa».
Il main theme composto dalla giovane (classe 1984) e talentuosa musicista islandese, già alla sua sesta colonna sonora, riesce a rendere palpabile l’inesorabile sopraggiungere della follia che si impossesserà di Arthur Fleck, attraverso un mix di violoncello e tamburo che rievoca alla memoria il martellante risuonare dei tamburi di guerra, qui divenuti inquietante marcia di morte che prelude, col suo ritmo tempestoso e incalzante, allo sprofondare del protagonista nel gorgo del delirio psicopatico.
A fare da contraltare alle intense e cupe composizioni della Guðnadóttir sono una nutrita serie di famose hit, a vario modo legate al mondo dei clowns e del riso. A partire dalla notissima That’s life composta nel 1963 da Dean Kay e Kelly Gordon. Del brano esistono numerose versioni, la più nota delle quali è quella cantata da Frank Sinatra nel 1966, che ha dato pure il titolo all’album di The Voice uscito in quell’anno. Sinatra è presente nella colonna sonora di Joker anche con un altro pezzo, quel Send in the clowns che i tre giovani sbruffoni intonano nella metropolitana per prendersi gioco di Arthur e che finiranno per scatenare la sua furia omicida. Il testo venne originariamente composto per il musical A little night music di Stephen Sondheim.
Oltre al grande Sinatra un altro mito dello spettacolo americano viene citato in Joker, si tratta di Fred Astaire con il brano Slap that bass composto da George Gershwin (musica) e da suo fratello Ira (parole), che si ascolta nel film Voglio danzare con te (1937), trasmesso in televisione durante una scena di Joker.
Un’altra celebre pellicola che si può vedere citata nel film di Todd Phillips è Tempi moderni (1936), il capolavoro di Charlie Chaplin in cui è presente la canzone Smile, un classico che in Joker è presente nella versione cantata da Jimmy Durante.
Nella sequenza cult in cui Joaquin Phoenix, travestito da pagliaccio, scende le scale ballando, il trascinante brano utilizzato è Rock & Roll Part 2 di Gary Glitter, artista del panorama glam rock anni Settanta condannato tuttavia alla damnatio memoriae a causa di una condanna per pedofilia, che non ha mancato di alimentare vivaci polemiche, sebbene lo stesso brano sia stato già utilizzato, senza suscitare scalpore, in film quali Full Monty e Mi presenti i tuoi?.
Nelle scene finali del film, in cui Gotham City è messa a ferro e fuoco dai rivoltosi mascherati da pagliacci, a furoreggiare è la hit White room dei Cream (dall’album Wheels of fire del 1968).
Tra i brani rock più celebri presenti in Joker vanno ricordati anche Brain damage dei Pink Floyd e People are strange dei Doors.
Altro brano che non può non essere menzionato è il malinconico Stormy weather, nella versione di Etta James, dall’omonimo musical del 1943.
Tutti questi brani (abbiamo ovviamente citato solo i più noti e rappresentativi, ma molti altri ve ne sono, e tutti risultano essere meravigliosamente azzeccati) spaziano dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, creando un effetto straniante dal punto di vista temporale e contribuiscono a condurre lo spettatore dentro la psiche martoriata di Arthur Fleck.
Per quanto straordinari, tutti i grandi classici presenti in Joker non basterebbero, tuttavia, a rendere unica la colonna sonora del film, se non fosse per le sonorità angoscianti e sublimi di Hildur Guðnadóttir, le cui composizioni sono veri e propri affreschi musicali dell’animo umano. La desolata vastità dei paesaggi islandesi, il ghiaccio e il fuoco, elementi predominanti di una terra tanto suggestiva, sembrano fondersi mirabilmente al senso di solitudine e di alienazione che attanaglia il protagonista del film, dando linfa e ispirazione alle musiche composte dalla Guðnadóttir, che sembra a nostro avviso raggiungere in queste composizioni il vertice più alto della sua già matura, seppur ancora giovane, carriera. [/box]