La follia e la luna nel pozzo. ‘Enrico IV’ al Piccolo Teatro della Città di Catania
@ Loredana Pitino (17-01-2020)
“La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta…”
Catania – Al Piccolo Teatro della citta di Catania va in scena il “dramma storico” Enrico IV di Luigi Pirandello, per la regia di Nicola Alberto Orofino, il regista sperimentatore e innovatore del teatro catanese (e non solo) che si cimenta per la prima volta con Pirandello.
La tragedia in prosa, che Pirandello pubblicò nel 1920 e fu rappresentata per la prima volta nel 1922, è sicuramente fra le opere più conosciute dell’Autore Siciliano: per antonomasia il dramma della follia. Un uomo vive per vent’anni recluso in una villa nella convinzione di essere l’imperatore Enrico IV, uno dei personaggi centrali della storia del Medioevo. Questa convinzione gli è maturata in seguito a una caduta da cavallo durante una giostra in costume in cui lui, appunto, era mascherato da Enrico IV. La caduta gli aveva provocato un’amnesia della sua reale identità e una parziale visione della realtà. La famiglia e gli amici lo avevano assecondato, mettendo in scena per lui una finzione con valletti e consiglieri segreti che contribuivano a renderla vera.
Il tema dei temi della produzione narrativa e teatrale di Pirandello: realtà e finzione, forma e vita, apparenza e identità, essenza e struttura. La follia, come nel Berretto a sonagli, è la dimensione, l’unica dimensione, che permette all’uomo di svelare la verità, di raggiungere in una epifania irrazionale, il nucleo identitario dell’uomo fuori dalla necessità del suo essere.
Dopo molti anni di questo gioco, Enrico guarisce e scopre di non essere Enrico; si accorge quale mistificazione gli sia stata proposta come verità e quale inganno e tradimento si celi in questa mistificazione. La scelta atroce, a quel punto, lo porta a continuare per tutti il suo “teatro” e guardare da lontano la tresca della donna da lui un tempo amata, Matilde, l’arroganza dell’amante di lei, Belcredi, e il ricordo dolorosissimo di quel triste giorno in cui cadde da cavallo e non per un incidente dettato dal caso.
Quando, a un certo punto, stanchi di questa “pagliacciata”, tutti intorno a lui decidono di tentare di procurargli uno shock per fargli recuperare il senno, la ragione, Enrico getta la maschera e rivela di non essere folle, di non essere più folle e di conoscere la verità e la vita che gli altri hanno vissuto in questi venti anni, mentre lui credeva e faceva credere di essere Enrico IV.
Al disvelamento può solo compiere quel gesto di vendetta meditato da tempo e uccidere il suo rivale. Ma l’assassinio non potrà essere punito. La follia salverà Enrico che resterà, necessariamente, pazzo, fingendo di essere pazzo. “Sono o non sono pazzo?”
Indosserà la maschera nuda per poter essere persona.
La regia che ha costruito Orofino ha collocato la vicenda in un tempo non identificato (le scelte musicali potrebbero fare pensare ad un contesto anni Settanta), e in questo Pirandello consente agli interpreti la massima libertà; ha valorizzato il ruolo dei valletti che sono diventati qui il vero demiurgo che costruisce il gioco. E’, infatti, da loro che comincia la rappresentazione nella prima scena che, con effetto straniante, porta lo spettatore nel metateatro della mascherata, partendo dalla banalità di un risveglio in una giornata qualunque e ponendo davanti agli occhi dello spettatore la pantomima del travestimento e del “gioco delle parti”. In alcuni passaggi questa scelta ha creato una nota stonata, provocando un inevitabile effetto comico non necessario alla pièce.
Il ruolo del protagonista è stato affidato a uno degli ultimi mattatori del teatro catanese, uno dei grandi della storica scuola di Turi Ferro e Michele Abruzzo, Miko Magistro. Ha scolpito qui un personaggio pacato, non istrionico, razionale senza concettismi, lineare nella mimica e nell’inflessione della voce, con una naturalezza che, riconosciamo, è la cifra delle interpretazioni che Orofino cerca nei suoi attori. Altrettanto corretta ci è sembrata la lettura del personaggio di Matilde di Carmela Buffa Calleo, leggermente incline, lei sì, alla schizofrenia giustificata nel suo personaggio.
Coinvolgenti e convincenti, proprio perché sorprendenti, i tre valletti: Giovanni Arezzo, Giuseppe Ferlito, Daniele Bruno. I tre, insieme a Magistro, hanno regalato il momento più intenso di tutto lo spettacolo, quando Enrico racconta a loro per primi il momento in cui è guarito e la sua scelta di continuare “a vedere la luna nel pozzo”. Quella luna compare sotto forma di una luce che si accende dentro la corona dove loro guardano come incantati e stregati. Quella luna è il sogno nel quale trasformiamo la realtà per vestirla degli abiti che vogliamo noi, di cui abbiamo necessità per riuscire a sopportare la vita senza impazzire.
Interessante anche la soluzione scenografica progettata da Vincenzo La Mendola che ha curato anche i costumi.