Le Quisquilie di Stefano Elefanti, Editrice La Mandragora, Imola 2019
@ Amedeo Ansaldi (23-12-2019)
Stefano Elefanti (Reggio Emilia, 1987) era noto fino ad oggi per essere autore, a dispetto della giovane età, di un fondamentale saggio su quel sottogenere delle forme brevi che è l’aforisma poetico (Origine e sviluppo dell’aforisma poetico nel Novecento italiano, Edizioni Joker, 2013). Si trattava, per la precisione, della sua tesi di laurea, discussa con il professor Gino Ruozzi dell’Università di Bologna: il primo studio davvero completo e organico sull’argomento nel nostro Paese.
Con Quisquilie, titolo significativamente minimalista, Elefanti fa ora il suo esordio in prima persona come autore di aforismi (non poetici) nella collana ‘Sparta’ de La Mandragora, diretta da Antonio Castronuovo.
Considerata la sua esperienza in qualità di critico e saggista, Elefanti non poteva non avere ben chiara fin dal principio la natura del genere nel quale si cimenta, e ne fa avvertito il lettore già nell’efficacissimo incipit: “La penna si piega volentieri, assecondando la mano dell’aforista. Il patto è chiaro: molto ingegno, poco inchiostro” – senza peraltro perdere mai di vista il fine ultimo: quello di restituire al lettore il fenomeno-uomo nella sua intrinseca, contrastata complessità: “L’uomo è un singolo verbo che si coniuga in miliardi di modi.”
In quanto indagine sull’uomo, l’aforisma assume, nel momento in cui nasce, la forma di una lotta aspra, sfibrante – prima ancora che con la pagina – con sé stessi: “Il conflitto interiore è la guerra più dura da vincere”; e se si presenta quasi sempre come un’inchiesta recisa e inflessibile sull’Io (e specularmente sull’umanità in senso lato), l’attenzione per lo stile e il rispetto nei confronti del lettore non debbono vacillare in nessun momento, nella salvaguardia del principio per cui “In un giallo malfatto la sola vittima è il lettore”: un giallo, peraltro, nel quale il nome del colpevole non verrà mai pronunciato a chiare lettere, ma solo suggerito discretamente all’attenzione del lettore scaltrito – l’unico tipo di lettore che questo genere letterario ammetta…
L’aforisma smaschera il carattere ambivalente della realtà, ne scopre la faccia solitamente nascosta; non per caso si presenta tanto spesso come rivelazione inattesa, intuizione folgorante:
“Le idee sono gradini celesti che portano in alto; scalini, spesso tarlati, capaci di sprofondarti all’inferno.”
“Ci sono sempre almeno due modi diversi per raccontare la stessa verità.”
L’aforista non nasconde e anzi ‘confessa’ coram populo (come già il titolo suggerisce) la frammentarietà dei propri testi, in questo discostandosi decisamente dalla filosofia e dai suoi vasti, coerenti ‘sistemi’: “L’aforista crea il pane, riunendo le briciole”; né, come vuole la migliore tradizione, è alieno dall’acuta indagine psicologica, dalla quale affiora il moralista -nel senso di scrittore intento ad analizzare pensosamente gli immutabili moti dell’animo umano:
“Aspettiamo dagli altri solo le risposte che non vogliamo darci da soli.”
“Nostalgia. Una lama che si affila a ogni ricordo.”
“Non siamo mai abbastanza diversi per accettare i nostri simili.”
“Sfuggirai a tutto ma non ai tuoi sogni.”
“Differenze di genere.“L’uomo non sa crescere, la donna invecchiare.”
“Il superbo giudica senza conoscere, l’umile conosce senza giudicare.”
Soprattutto, Stefano Elefanti è capace di mostrare quante idee convergenti si possano sottintendere in una sola riga vergata – ma solo in apparenza – quasi inavvertitamente. Valga per tutti un esempio: la critica recisa e fulminante a generazioni di ecclesiastici e teologi e a una lunga capziosa catena di fraintendimenti e, in ultima analisi, tradimenti dei – cosiddetti – testi sacri:
“Posso credere in Dio, non in chi cerca di interpretarlo”,
…fino a tirare, in estrema istanza, le fila dell’intero discorso, nel tentativo di compendiare il senso ultimo delle nostre vite:
“Il martire sacrifica il corpo per far vivere l’idea, come la lucertola cede la coda per salvare il resto.”
“Aldilà. È restare di qua attraverso ciò che si è lasciato; se uno ti cita vivi per sempre.”
Sul carattere frammentario della silloge, che rientra nella natura stessa dell’aforisma, ha scritto parole lucide ed esaurienti Fabrizio Caramagna nella puntigliosa Postfazione, alla quale senz’altro rimandiamo.
Un ultimo, importante rilievo, sottolineato opportunamente dal prof. Gino Ruozzi nell’Introduzione: l’autore ha saputo eludere l’insidia che, paradossalmente, gli deriva dalla sua piena, matura consapevolezza letteraria: l’acume critico rappresenta sempre, infatti, al contrario di quello che si crederebbe da fuori, un’arma a doppio taglio, che l’aspirante scrittore potrebbe essere inconsapevolmente incline, per eccesso di scrupolo e di onestà artistica, a impugnare e rivolgere contro sé stesso; Stefano Elefanti elude brillantemente la trappola, riuscendo qui in questa felice opera di sdoppiamento, grazie alla quale restano separate le due sedi, i due ‘momenti’: quello del calibrato, obiettivo giudizio critico e quello-forse più alto, certo più inventivo e ‘personale’ – della creazione aforistica ex-nihilo.